Manlio Sgalambro, “Del delitto”

Quando l’intellettuale si autoproclama “testimone dell’Idea fattasi carne”

Alfio Pelleriti

Se qualcuno dei lettori che seguono Piazzagrandeblog è attratto dai fuochi d’artificio e dai giochi pirotecnici che maestri artigiani preparano per meravigliare i convenuti nella piazza e saziarli con effetti strabilianti di luccichii che si alternano in composizioni di colori, con ritmi sempre incalzanti, come una corsa di cavalli sanfratellani, dovrebbe leggere “Del delitto” di Manlio Sgalambro, un libello pubblicato da Adelphi nel 2009. Riassumerlo è alquanto difficile, si può semplicemente chiosare definendolo una costruzione linguistica sull’elogio dell’assassinio, un tema provocatorio, una tesi che, per i comuni mortali, è impossibile da sostenere, ma non per il fuoriclasse degli intellettuali, per l’aristocratico tra gli autodidatti, per il più coraggioso tra i nichilisti. Sgalambro, contro tutti, vuole stupire con la sua magniloquenza e le sue dotte citazioni in latino, in francese, in inglese, in tedesco, con passaggi rapidi da Descartes ad Hegel, a Kant, a Rousseau, a Simmel, trattandoli come dei poveracci e mettendoli insieme con personaggi tratti da romanzi (dei quali non cita né i titoli né gli autori), come Moosbrugger, l’assassino seriale di prostitute in “L’uomo senza qualità” di Robert Musil o Clarisse, l’amica d’infanzia di Ulrich, il protagonista, nello stesso romanzo; o ancora la duchessa di Guermantes, personaggio de “La recherche” di Marcel Proust, con qualche “ciliegina” qui e là, come il filosofo francese del linguaggio Brice Parain. E a seguire, in questa parata dove compaiono solo i nomi e qualche battuta d’accompagnamento, Sant’Agostino, San Tommaso, in un caleidoscopio di parole, nomi, frasi attaccate le une alle altre senza una logica apparente che non sia quella di meravigliare il lettore prendendosene gioco e marcando insieme la distanza siderale che da lui lo divide, godendo nel confonderlo e nello stenderlo infine con la sua eleganza linguistica, pomposa, stucchevole e barocca.

Manlio Sgalambro

Il suo pamphlet mira ad una rivisitazione di un rapporto non paritario tra due esseri umani quando uno dei due uccide l’altro commettendo un delitto. Come, perché, quando si uccide? Può bastare il comandamento biblico “Non uccidere” per liquidare il problema? Quale rapporto scatta tra chi dà e chi riceve la morte? A tali domande intende rispondere Sgalambro, facendo riferimento a filosofi che dall’antichità all’età contemporanea hanno in qualche modo sfiorato il tema. “Tra assassino e assassinato esiste un’attrazione, o addirittura una relazione? Vi è persino una comune ragione?” dice il Nostro a proposito della morte di Socrate. E già tali interrogativi sconvolgono alquanto chi legge, ma si continua ripetendo il famoso “ma vediamo dove vuole arrivare!” di Antonio De Curtis, in arte Totò.

Tutto si gioca in queste prime pagine, dove Sgalambro pone delle premesse non solo per il tema in questione ma soprattutto per l’altro, sotteso al primo: chi è il filosofo? Già tale questione era stata affrontata da Friedrich Nietzsche, il filosofo più anticristiano della storia, ma evidentemente le posizioni teoretiche del filosofo dell’”Al di là del bene e del male” non sono sembrate esaustive al Nostro: “Non è stato detto che lo stesso filosofo è – anzi deve essere – irresponsabile? E che solo allora può essere giustamente e santamente disumano – e disumani i suoi problemi – come lo deve essere all’occorrenza un filosofo?[1] avvolgendo in una nube scura il povero lettore costretto a prendere qualche appunto per non naufragare in questo mare che diventa sempre più minaccioso sotto i colpi di affermazioni estrapolate da sistemi filosofici complessi come l’hegeliano, per dare fondamento ad un assunto azzardato e sventolato come un vessillo sul cadavere dell’ultimo resistente all’assedio del fortino delle “certezze universalmente accettate”. Su di esse scaglia i suoi strali Sgalambro, muovendosi come il funambolo sulla corda tesa sull’abisso, mostrando la sua capacità rara e unica di andare oltre il limite, meravigliando, estasiando il volgo che trattiene il fiato con il naso all’insù, essendosi egli elevato a mito, come l’Icaro alato.

Come il maestrale solleva alte le onde non distinguendo tra il barcone del vecchio pescatore e lo yacht milionario del grande finanziere, sballottandoli come fuscelli, così stessa sorte riserva il filosofo lentinese ad Horkeimer e Adorno[2] indicati come “quei due”, che evidentemente non gli sono utili per la sua “rivoluzione” e li elimina, pedine inutili, nel suo campo di battaglia che dovrà infine dichiararlo immortale come Achille.

Sgalambro e Franco Battiato

Hegel diventa il suo punto di partenza, in particolare il concetto di “Aufhebung” che, all’interno del processo dialettico, significa superamento e conservazione dei termini antitetici dopo l’approdo alla sintesi. Hegel, nella Fenomenologia dello Spirito, affronta in effetti il problema dell’incontro-scontro tra due autocoscienze da cui deriva spesso un conflitto: “Ogni individuo deve aver di mira la morte dell’Altro, quando arrischia la propria vita, la sua essenza gli si presenta come un Altro; esso è fuor di sé, e deve togliere il suo esser-fuori-di-sé.”[3] Tuttavia tale incontro-scontro non necessariamente culmina con l’eliminazione dell’altra autocoscienza, ma in un adattamento ad una situazione in cui i due contendenti stabiliscono una divisione di compiti, come nella figura del servo-padrone. Ad altri esiti porta l’interpretazione di Sgalambro che afferma: “La vita è guerra non dichiarata. Hegel prevede la riconciliazione con l’assassino…a questo punto l’esperienza concettuale della morte obbliga la riflessione ad aggiornarsi. Ogni speculazione sulla morte che ignori il delitto diviene inaccettabile.[4] (Ipse dixit!)

Si sorprende il Nostro che “il delitto non si trovi elevato tra i problemi filosofici quotati”. Ma mi stupisco io, povero, semplice lettore che vola basso come un colombaccio, leggendo del suo disappunto (“è ragionevole che i filosofi, per esempio, abbiano abbandonato l’assassino a se stesso?”), fino a pensare che tutto l’apparato concettuale che si presenta in questo libello sia falso, volutamente falso, giusto per dare la stura all’abilità polemica indirizzata addirittura avverso l’intero pensiero occidentale, superando lo stesso Nietzsche, quanto a vis polemica.

Quante anime belle, compresa la mia, hanno acclamato Battiato e con lui Sgalambro, essendosi fidate dei testi mediati dalla voce suadente del cantautore, ma ignorando l’aristocratica burbanza, il tronfio atteggiamento di questo vate del male che presenta le sue apodittiche conclusioni come un profeta che s’affaccia dalla rupe guardando giù in basso il gregge: “Sogno che i miei libri vengano dispersi ai quattro venti, che non ci sia nessun luogo in cui li si conservi, e che solo il fato li conduca a questo o a quello per vie che esso solo conosce. Le bieche facce di chi mi consegna i libri con stanche mani di villano, quei tozzi volti di chi li consulta ma ne è lontano non mi sono amici.[5]

Dopo aver liquidato i filosofi francofortesi ed Hegel, viene poi il turno di Schopenhauer, reo anche lui di non aver indagato sull’assassinio: “La visione antiquata e vetero filosofica di Schopenhauer risalta ai miei occhi sempre di più, senza che io abbia rimpianti. Da buon nirvaniano giudica inutile il suicidio e non ha niente da dire sull’assassinio.[6]

Contro gli insegnanti, i ricercatori, gli psicologi e i medici

Immagina lo scrittore di recarsi a Parigi, lì dove pensa essere la patria dei veri assassini, lì dove si assapora la vera libertà, luogo ideale perché possano vivere i filosofi, che non sono quelli che la insegnano, perché dice, la filosofia non si può insegnare ma lasciare a quelli che sono filosofi nella carne, quelli che la testimoniano (“se è vero che costui è un testimone, allora in lui l’Idea s’è fatta carne.”) e lì incontra Isabelle, suo Alter-Ego, che afferma tutto ciò che Sgalambro, pur “testimone dell’Idea fattasi carne”, ha il pudore di non dichiarare. Si continua, dunque, con una visione cupa e irrazionalistica del mondo, tuonando contro la scienza che dovrebbe fermarsi al “qui ed ora”, eliminando la ricerca; sostiene che Kant, presentando gli istinti negativi, come l’invidia, si comporta come uno scrittore per signorine, e lo accusa di non avere colto la profondità connotativa dell’assassino. Continua poi con il negare qualsiasi fondamento epistemologico alla psicologia a favore della distruzione di qualsiasi principio che conduca ad un ordine dell’esistenza e quindi delle società. Insomma, evviva il caos, la disarmonia, l’entropia! Evviva il male, l’istinto, l’affermazione guerriera! Evviva la morte! Evviva il nichilismo: “Bisogna lasciare che nell’inferno esplodano tutte le potenzialità del malanno in modo che raggiunga quella distruzione che infine lo appagherebbe…Il terapeuta non ha mai sentito parlare di una salute che passa attraverso la rinuncia ad essa.[7]

Mancava a questo orrido quadro solo la blasfemia ed eccola presentata a pagina 74: “Io sono un amatore del cattolicesimo (come chi ama la bellezza e la razionalità di una cattedrale ma non ci mette che i piedi). È un modello di composta classicità nella ‘merde’ delle religioni… quanto al cattolicesimo, non redime né salva: semplicemente l’individuo vi si conserva come le monetine nel salvadanaio.

Per il Nostro è un problema il fatto che la medicina moderna insista sulla ricerca per alleviare il dolore e sconfiggere le malattie, e aggiunge, beandosi del suo furore demoniaco: “Problematica è, in quanto tale, la salute come verità… il medico è rimasto fermo all’età della vita. Nietzsche indicò un’altra strada: naufragare nella propria malattia…Sade: ecce medicus.[8] Non gli resta che gridare il barbarico “Me ne frego!” aggiungendo di poi, invaso da gagliardo istinto ferale: Eia, eia, eia, Alalà!” per concludere con un bel falò in cui brucino libri d’autori levantini e giudaici e, profittando di quella pira purificatrice, darsi ad un salto gagliardo, impavido e maschio, nel cerchio di fuoco, dimostrando plasticamente che il nuovo ordine cui sperare e tendere è quello che aspira all’azione pronta, vigorosa, violenta, piuttosto che il molle, infingardo, vile pensiero. “La medicina”, continua, “spegne il timore della morte e la morte non temuta diventa banale, roba da medici.”.

Il filosofo M. Sgalambro

Dopo aver sferzato filosofi, storici, medici, insegnanti, religiosi, nel suo delirio di onnipotenza, colpisce anche gli ecologisti auspicando che scompaiano e che si lascino morire uccisi animali e alberi, ma non come conclusione di un ragionamento o di un’analisi, ma come un’invettiva scagliata dall’altezza di un pulpito su cui si erge per autoincensamento: “Il piccolo ecologo si fa avanti con le sue manine protese a tutelare questa immane potenza, a difenderla con la sua vita da pulce… Lunga vita alla Natura! Risibile. Essa vive invece delle sue morti e delle sue carneficine. Lasciate che si uccidano i suoi animali, che si abbattano i suoi alberi. Ghermiamola con le nostre mani di assassini. Non la scalfiremo per niente.” (pag. 94)

Non cercate una struttura logica, un tema, un focus che stia a fondamento di questo pamphlet supponente se non la pretesa di un altezzoso intellettuale che tratta i più grandi filosofi dell’Occidente come degli studentelli senza acume, allo scopo di edificare una torre alta e portentosa che toccherà il cielo, lì dove mai nessuno aveva osato spingersi. Ecco sì, è lui, è l’Ego di Manlio Sgalambro, che afferma: “Qualcuno ha scritto che fare storia è ricordare con amore o qualcosa di simile. Ma il culto del ricordo non è il mio forte. Dopo la Ricerca credo che debba essere vietato ricordare. Dimenticare, invece: ecco ciò che va potenziato.

È evidente che non poteva giungere alla fine del suo saggio sul delitto senza affrontare il tema “Dio”, Eternità, Coscienza morale, Sostanza e su tale analisi non poteva certo smentire se stesso, affermando quindi lapidario che “Dio è il nulla” e che esiste in quanto estensione dell’immaginazione dell’uomo e della sua volontà di sopravvivere oltre la morte. Del suo sapere si avvale per ottundere il lettore allo scopo di togliere certezze, di instillare il dubbio, quello che rende esangui e arrendevoli, quello che straccia ogni soddisfazione o gioia per piccole o grandi cose. Sembra soddisfatto questo possessore di arcani poteri quando giunge a far dubitare della stessa esistenza o del movimento del pianeta Terra o quando sembra certo della naturalità della uccisione di un uomo. Infine, per azzerare qualsiasi speranza, rivolgendosi al lettore lo avverte che, dovesse esistere l’aldilà, le anime godrebbero del fuoco dell’inferno! Come se a parlare fosse Satana e quel luogo, considerato da sempre luogo di penitenza e di dolore, viene invece presentato come luogo di felicità eterna. Perché? Da dove attinge tale sicurezza? Perché sconvolgere con tali blasfemie? Di quale entità vuole essere messaggero? “Siamo esseri perfetti: non abbiamo bisogno di nulla. Attorno a voi ruota il mondo e il sole si ferma se voi lo comandate. La Terra è al centro e non si muove, dicono Tolomeo e Husserl![9] conclude sibilando, blandendo, mentendo, poggiatosi all’albero della conoscenza del bene e del male.

Le mie perplessità su questo testo le consegno ai miei lettori con un’ultima citazione che corrisponde alla parte finale in cui l’autore ne compendia efficacemente lo spirito estremista, nichilista, provocatorio: “Abbiamo appreso che l’assassino sottrae la sua vittima alla morte inumana. La morte che un essere umano dà all’altro, come nel caso di Socrate, quasi un aiuto o addirittura un dono![10]


[1] Manlio Sgalambro, Del delitto, Edizioni Adelphi, Milano 2009, pag. 18

[2] Max Horkeimer e Theodor Adorno sono due tra i maggiori filosofi e sociologi esponenti della Scuola di Francoforte.

[3] Fenomenologia dello spirito, parte I, IV, 22, p. 157 (da Domenico Massaro, La comunicazione filosofica, vol. 2° p. 688

[4] M Sgalambro, Op. cit. pag. 20

[5] Ibidem, pag. 29

[6] Ibidem, pag. 31

[7] Ibidem, pag. 70

[8] Ibidem, pag. 71

[9] Ibidem, pag. 142

[10] Ibidem, pag. 182


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