Linguaggio e comunicazione nella realtà provinciale

Alfio Pelleriti

Comunicare è importante, certo, non si può negare. I salutisti dicono che è fondamentale per il nostro benessere fisico e mentale, insomma un bisogno naturale. E chi affermerebbe che tale consiglio sia marginale? A volte può accadere tuttavia che proprio le relazioni sottendono un’ambiguità tale che la comunicazione causa ansia, incomprensione, scontro verbale. Ma usciamo dalle posizioni estreme e cerchiamo di condurre un’analisi pacata, non formale.

Ancora una riflessione sulla comunicazione: il linguaggio inconsistente dell'ipocrisia.

Analizzare il linguaggio significa porre attenzione alla qualità dei rapporti sociali e alle caratteristiche del contesto socio-culturale: l’attuale sistema comunicativo è condizionato fortemente dalla tecnologia digitale, dai social network che agiscono come “rinforzi” psicologici e culturali nella formazione di stereotipi individuali e di gruppo, tuttavia nella nostra realtà provinciale ci si incontra ancora nella piazza e nei circoli, permanendo la tradizionale modalità relazionale. Il più delle volte la comunicazione è lasciata allo spontaneismo e si esaurisce in una perdita colpevole di tempo, senza mai dedicarlo all’analisi dei grandi problemi storici o sociali, fuori dall’ottica dell’individualismo e del materialismo becero.

Molti infatti, si incontrano con gli altri rimanendo identici a se stessi, anzi “difendendo” il proprio “sé” da possibili turbamenti di un equilibrio mentale che si ha il terrore di smarrire; oppure si accalorano in animate discussioni senza però ascoltare le ragioni degli altri, non mettendo mai in dubbio le proprie convinzioni. Spesso si tenta, semplicemente, di accrescere la propria autostima e allora si può incontrare l’individuo pacato e riflessivo, che non perde mai la calma, è paziente, ironico e attento alla scelta del lessico più idoneo e ricercato per una comunicazione elegante ed ammaliante: un vero stratega della comunicazione! Ma l’obiettivo resta identico: accrescere un Ego ipertrofico e ferale a cui si risponde come se si fosse dominati da un padrone che si è appropriato di quell’esistenza.

Quando il linguaggio diventa banale

Tante volte mi sono misurato con alambicchi linguistici e contorsionismi semantici messi in campo per esprimere il nulla; per ottenere effetti luminescenti, contrasti pirotecnici, enigmatici costrutti in una sequenza senza principale. Oppure mi sono imbattuto nell’altro estremo: il linguaggio del bar, della piazzetta mentre la si misura a passi lenti, al sole, la domenica mattina con gli amici; o ancora, ho incontrato una lingua iperrealista che non tralascia nessun particolare, anche osceno, da trivio, un discorso tutto dialogato, come accade nel reale, appunto, così come insegnano gli scrittori americani che non distinguono tra prosa e sceneggiatura teatrale.

Infine c’è il linguaggio dei borghesucci di provincia che credono di avere fatto il salto di status sociale perché sono impiegati al catasto o sono diventati maestri elementari pur odiando i bambini e i loro gridolini. Sono quelli che si sentono forti non perché hanno dei meriti, – che riconoscono di non averne alcuno, non riuscendo a venir fuori dalla sempre alta marea della mediocrità – ma perché hanno la “conoscenza giusta”: il politico, l’amico dell’amico in odore di mafia, o un nutrito gruppo di sodali altrettanto mediocri, che si sentono stretti da un vincolo settario, tacito, di reciproca assistenza in considerazione della loro profonda inconsistenza intellettuale, morale, culturale.

Ebbene costoro balbettano, non parlano! Sono degli analfabeti di ritorno perché non hanno letto mai un libro né riescono a concentrarsi per leggere un articolo su un giornalino di provincia. Eppure proprio questa umanità, che un tempo stava tanti passi indietro rispetto a chi elaborava concetti e li esternava con chiarezza, con l’avvento di Internet e dei social, si è fatta avanti e arditamente esterna idee sentite e maldigerite e, senza alcun pudore, pretende di dire la sua contrapponendosi a storici, astrofisici, ricercatori delle varie branche scientifiche, e ardisce scrivere e comunicare con acredine, con burbanza, usando la tastiera come un’arma.

E poi ci sono coloro che sono “aria” e come l’aria hanno poca sostanza e basta solo un soffio per disfarla, per trasformarla in nulla.  Sono quelli che tacciono, che non prendono posizione, che si astengono da qualsiasi giudizio e parlano soltanto quando viene il loro turno, e dicono sempre sì, e ridono o piangono a comando. E ti guardano schifati mentre ti stanno accanto chiamandoti per nome, con ironia mordace, irriverente. Sono gli ipocriti che non nutrono pietà e condannano a pene dure e senza appello. 

Costoro, ogni mattina, assiepati all’ombra sotto l’insegna del rispettivo circolo, stanno a guardarsi attorno fissando gli stessi oggetti, le stesse crepe dei muri, le stesse facce che hanno incontrato ogni mattina per anni, attendendo i rintocchi del campanile che segna le ore di quell’altro giorno. E formano dei crocchi, mentre come ramarri stanno fermi a scaldare i loro stanchi corpi, le loro intorpidite menti, volgendo piano lo sguardo solo al passaggio di qualcuno che invade il loro spazio. I crocchi, di solito, sono silenziosi perché si sta insieme ma nessuno vuole esporsi al giudizio degli altri prendendo la parola. Molti non parlano perché dovrebbero ripetere quello affermato nei giorni precedenti rivelando a tutti una certa precoce senescenza. Allora, l’ovvio diventa l’argomento su cui tutti possono intervenire senza rischiare nulla.

Discurriri e nun diri nenti

Fannu crocchiu l’amici nta scurata

ma nuddu parra, nuddu dici pìu

e si talinu muti na rancata.

Poi Turi cumencia u parracìu:

– “Pi st’annu alivi mancu na manciata!”

– “Certu, tempu ‘nfami, mancu chiuvìu!”

– “Sapiti chi mi dissi ma cugnata,

    ca don Saru, mischinu, ‘nzalanìu!”

– “E donna Tina, fu malasciurtata,

    cascau e i du vrazza si rumpìu!”

– “A Teddu u beddu cani ci murìu!”

– “E a Prazzitu u cirvellu ci partìu!”

– “Puddu si parra ci pigghia ‘u currìu!”

Affiu mutu scutau sa gran parrata,

vutau cocchiu e mutu si ni jìu.

Niente di compromettente, insomma, quando il gruppo è nutrito, ma quando alcuni lasciano il gruppo e restano le congreghe, si passa a fornire qualche notizia sugli assenti: una notizia pruriginosa, accompagnata magari da una personale interpretazione che si presta a commenti salaci e dunque a risate liberatorie che rinsaldano l’unità del gruppo e l’autostima di ciascun componente delle simpatiche brigate. Così passa il tempo nella profonda provincia siciliana, così lo si consuma il bene più prezioso di un uomo, immersi in una tragica inedia, dilatandolo il tempo, senza riempirlo di alcun pensiero o dialogo o analisi critica. Nessuno racconta di un film, di una pièce teatrale o di un libro che ha letto o che sta leggendo, o magari di un viaggio o della sua personale opinione sulla guerra in Ucraina o sulla politica del governo e sui tanti problemi che ineriscono la vita individuale e delle comunità ai vari livelli. Nulla di tutto questo! Tali argomenti li disdegnano coloro che vivono la piazza seduti comodi ciascuno nel loro sodalizio fieri dell’appartenenza a quella categoria, confortati nel consumare il proprio tempo come gli altri, conformati allo stesso cliché, alle stesse abitudini. Ci si diverte a regredire ad un’età anagrafica lontana di decenni, prestandosi a battute da trivio, a sarcasmo volgare, alzando la voce come in preda ai fumi dell’alcool, oppure si punta sul più debole della comitiva, cioè sul più semplice e pacifico, che garantisce che non reagirà alle offese e alle provocazioni più bieche.

  

  

  

  

  

  

   

  

  

  


[1] collottola

[2] Calmo; sodu sodu, calmino


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