Alfio Pelleriti
La vicenda del romanzo di Elsa Morante si colloca negli anni 1941-1947, uno dei periodi tra i più drammatici vissuti dall’umanità, per le atrocità che si commisero sulle popolazioni civili, per i genocidi che si misero in atto, per le distruzioni subite dalle città europee, per la fame e la povertà cui andò incontro la popolazione civile, per la corruzione delle coscienze cui si diedero i governi degli Stati totalitari responsabili di un conflitto mondiale che causò decine di milioni di vittime tra militari e civili.

In tale contesto, a Roma, si svolge la storia di Ida Ramundo, maestra elementare, vedova di Alfio Mancuso e madre di Nino, che si rivela un adolescente turbolento, refrattario alle regole e amante dell’azione più che della riflessione e men che meno dello studio. Ida, fin da bambina, è invasa da paure con cui dovrà fare i conti nel corso della sua vita: dovrà nascondere a tutti l’origine ebrea della madre e le simpatie per l’anarchia del padre. Durante la presenza nazista a Roma, una mattina del gennaio 1941, è avvicinata da un giovane soldato tedesco che le usa violenza e da quel rapporto nascerà un bambino che lei chiamerà Giuseppe come suo marito. Il piccolino sarà accettato da Nino che lo chiamerà “Useppe” (così come pronuncia il proprio nome il piccolino), e con il quale inizia un rapporto straordinario all’insegna di un formidabile amore fraterno. Quando le fasi della guerra segnano la disfatta dell’Italia fascista e Roma viene abbandonata a se stessa sotto l’occupazione tedesca e repubblichina, comincia un vero e proprio calvario per Ida, costretta a lasciare la sua casa nel quartiere di San Lorenzo, per trovare un rifugio in uno stanzone a Pietralata, nella periferia romana. Nino intanto, abbandonate le infatuazioni adolescenziali per il fascismo, entra nelle brigate partigiane (“Libera” si chiama la sua). Sono gli anni drammatici della guerra civile e delle deportazioni razziali: Ida per caso si trova alla stazione Tiburtina e vede il treno dove sono stati portati gli ebrei romani rastrellati il 16 ottobre 1943 nel ghetto e spediti nel campo di concentramento di Auschwitz (di 1056 ne torneranno 14). Ida condividerà con tanti altri le enormi difficoltà per sopravvivere a condizioni terribili. Infine, terminata la guerra, la storia di Ida e dei suoi figli, così come di altri personaggi, ad esempio Santina, avrà un epilogo tristemente drammatico, che Pier Paolo Pasolini definisce “mortuario”. Sull’intero romanzo egli non sarà proprio tenero: per lui è sbagliata l’impostazione ideologica (non è né quella anarchica, né quella comunista ed è “falsamente neorealista); sbagliata l’impostazione narratologica della parte centrale e di quella finale, salvando solo la prima parte del romanzo.
In effetti, la parte finale del romanzo sembra soffrire di un eccesso di parti descrittive, per cui i tempi della narrazione si dilatano, e i vari elementi della vicenda si saldano tra loro in un “unicum” indefinibile. Tutto ruota attorno a delle vite che perdono pian piano energia fino a spegnersi. Muore Davide, vinto dalle dipendenze dall’alcool e dalla droga; muore Useppe, vinto dalla sua malattia neurologica (Grande male); muore Ida nel giorno in cui si spegne il suo “pischelletto”, Useppe Ramundo; muore la pastora maremmana Bella, abbattuta dalle guardie a cui non concedeva il passaggio verso i suoi amici/padroni che vegliava difendendoli da ogni minaccia esterna.
Sono le ultime cento pagine delle 600 complessive (che appaiono eccessive) in cui l’autrice sembra darsi a delle associazioni libere così come arrivano alla coscienza. Davide intrattiene in una “conversazione – seduta psicoanalitica – confessione” gli avventori di una trattoria sulla sua fede politico-ideologica, l’anarchia, sottolineando le differenze tra le tesi di Bakunin e l’ideologia marxista-leninista, e lontano, il suo credo, dalle posizioni totalitarie del comunismo sovietico stalinista; e intrattiene ancora quell’uditorio popolano distratto (giocano a carte mentre lui parla) sull’analisi della società capitalistica e sul ruolo disumanizzante che assolve in essa la borghesia; sulla sua visione religiosa che va oltre l’ebraismo e il cristianesimo cattolico in nome di un “Deus sive Natura” di spinoziana matrice.
Useppe e Bella, poi, sono seguiti nei loro ultimi giorni di vita dedicati all’esplorazione lungo il fiume, oltre il Viale Ostiense, con dovizia di particolari sui loro incontri, sulle emozioni forti, sui sogni che spesso si confondono con gli elementi del reale e le vicende del passato che risalgono alla memoria per unirsi a quelle del loro presente.

Tuttavia, ho apprezzato moltissimo “La Storia” di Elsa Morante per la delicatezza e l’armonia del narrare (solo una donna avrebbe potuto scrivere con tale levità e solo una mamma descrivere i vari momenti importanti nella crescita di un bambino o di un adolescente (Useppe e Ninnuzzu).
“Per Ida le strade di Roma e del mondo le si mostravano affollate di possibili carnefici del suo Useppetto, piccolo paria senza razza, sottosviluppato, malnutrito, povero campione senza valore. A volte non solo i tedeschi e i fascisti, ma tutti gli uomini adulti le parevano assassini; e correva le strade sbigottita, per approdare esausta e con gli occhi spalancati nello stanzone, cominciando dalla strada a chiamare Useppe! Useppe! E ridendo come una bambina malata alla vocetta che le rispondeva: ‘A’ mà!!’”[1]
Man mano che ho proceduto nella lettura, ora meravigliato ora commosso da un sentimento di pietà o di gioia o di stupore per la perizia e il talento narrativo dell’autrice, mi chiedevo quale aggettivo sarebbe stato il più idoneo per questo romanzo. In verità, la scelta sarebbe potuta cadere su “classico”, intendendo con tale appellativo un’opera epica, capace di rappresentare non solo le vicende dei personaggi della storia ma di tutto un popolo. In realtà “La Storia” va oltre la vicenda del popolo italiano, affamato, vilipeso, tradito da un regime totalitario votato, fin dal suo nascere, alla pratica del male, poiché in esso vengono presentati i caratteri fondamentali dell’uomo che può essere carnefice e votato ad ogni turpe violenza o amabile e capace di gesti solidali e generosi oppure eroico sostenitore degli indifesi e degli oltraggiati dagli scherani del tiranno.
Ma è Ida, la protagonista del romanzo che eleva “La Storia” di Elsa Morante a capolavoro, a “classico”, la madre che, sola, difende se stessa e il figlio più piccolo e indifeso dalla violenza della guerra, dalla fame e dagli stenti, lottando ogni giorno contro le paure che risalgono dalle profondità dell’inconscio dove cerca costantemente ma inutilmente di tenerle rimosse e silenti. Come nei “Promessi sposi”, la grande storia si intreccia con la “piccola storia” dei protagonisti, che diventano le esemplificazioni degli effetti concreti che essa produce nella vita degli individui, che la scrittrice presenta con semplicità e con garbo, con tonalità giuste, con precisione lessicale.
Pagina dopo pagina ci si abitua a convivere con Ida e a condividere le sue ansie e le sue paure al pensiero che da un momento all’altro un funzionario di polizia, un milite fascista o un tedesco potessero accusarla d’essere ebrea, così che Useppe avrebbe condiviso il suo tragico destino, lì sopra uno di quei treni dove intere famiglie venivano tradotte verso i campi di concentramento. La scrittrice racconta eventi e descrive personaggi e comportamenti con maestria, con una tale partecipazione e con una dovizia di particolari che inducono il lettore a supporre che l’autrice abbia un animo buono, sensibile alle sofferenze altrui, tipico di un’osservatrice attenta del mondo e della vita di cui apprezza anche un cader di foglia in autunno o un andirivieni affannoso d’una formica col suo carico da portare al sicuro nel formicaio. Lei adopera una varietà nel registro espressivo che va dai toni drammatici a quelli leggiadri dell’ironia, ma tutto è trattato sempre con mano leggera, elegante, amorevole, compassionevole, anche quando fa emergere i lati un po’ volgari dei suoi personaggi popolari e un po’ buzzurri.

Il lettore poi non può non restare colpito e affascinato dal modo sapiente con il quale Elsa Morante presenta le caratteristiche psicologiche dei suoi tanti personaggi, dagli infanti (Useppe) agli anziani (il nonno che lascia la Ciociaria ospitato come lei nella casa di una sua collega in pensione al Testaccio). E ancora le cognate Filomena e Annetta che aspettano Giovannino, partito con l’ARMIR per la campagna di Russia di cui non si hanno notizie, e che, pur di sapere qualcosa sul suo destino, si affidano ad una cartomante improvvisata che di mestiere fa la prostituta (Santina).
I due protagonisti del romanzo, Ida e il figlio Ninnuzzu, avuto da Alfio, morto ancor giovane, rappresentano le due anime contrapposte della resistenza al Male: Ida soffre in silenzio e spesso è vinta dalla paura ma non si arrende, resiste superando ciò che le convenzioni culturali e la mentalità dominante erigevano come ostacoli. Lei era un’insegnante, come poteva trascurare il suo aspetto fino ad apparire sciatta e trasandata? e poi una maestra non ruba un uovo superando lo steccato di una casa di contadini o un pezzo di carne da un camion, approfittando della momentanea assenza del conducente. Ida rappresenta la resistenza oltre ogni limite del popolo italiano, ma senza piegare mai all’uso della violenza, affrontando giorno dopo giorno la dura realtà con forza interiore, superando l’angoscia dei momenti difficili, resistendo alle privazioni, aggrappandosi ai sentimenti materni, nel suo caso, per assistere il figlioletto orfano del padre.
Nino rappresenta invece la resistenza forte, violenta al tiranno e ai potenti che prevaricano i più deboli. Egli è il rivoluzionario che si oppone con le armi per ottenere giustizia: è partigiano e combatte la sua resistenza contro fascisti e nazisti, ma che, dopo la liberazione dell’Italia e la fine del conflitto, continua la sua resistenza al di là della legge e di ogni trattato, come se chi pratica la violenza, anche se per giusta causa, venga intaccato per sempre nell’anima e da quel gorgo non potrà più uscirne.
Elsa Morante chi è? Ti chiedi leggendo i due capitoli dedicati a Useppe, bambino di cinque anni che ne dimostra però tre/quattro, dal comportamento non socievole, con ancora difficoltà nell’articolazione delle parole, con problemi di apprendimento e affetto dal “grande male”. L’autrice descrive ogni gesto, ogni atteggiamento, ogni alzar di ciglia del suo piccolo eroe, come può farlo solo una madre che vive in maniera simbiotica con la sua creatura, presentando al lettore il mondo interiore di un fanciullo, in cui l’immaginifico spesso si sostituisce alla realtà e il contenuto onirico si mescola sovente agli accadimenti reali, o infine, eventi passati si uniscono ad elementi del vissuto in una miscela che solo una sensibilità profonda, geniale, spiritualmente elevata, può intendere.
Chi è Elsa Morante? La risposta è una sola: è una grande scrittrice lirica che crea seguendo i percorsi misteriosi della sua anima, lì dove trova gli stimoli giusti per diventare Useppe, Ninnuzzu, Carlo/Davide, Santina. I personaggi parlano alla scrittrice rivelandole anche le sfumature di gesti, pensieri, fantasie, ansie, tristezze, speranze, paure, e lei raccoglie tali confidenze e le trasferisce nelle sue pagine che sanno di fresco, di gentilezza, di levità come fossero intrise di spirito francescano, cioè con la stessa capacità di Francesco d’Assisi di saper cogliere l’essenza della vita e il suo significato profondo. Fino al punto che l’autrice entra lei stessa nell’azione dei suoi personaggi poiché non riesce più a stare “fuori” dall’azione e lasciando i panni di regista, entra in scena: “Dove si trovava, essa, ora? Porta Metronia, doveva essere il nome di questo luogo. Ida, Ida, dove vai, hai sbagliato direzione. Il fatto è che questi paesi sono fatti di calce, tutta roba di calce che si può spaccare e sbriciolare da un momento all’altro. Lei stessa è un pezzo di calce, e rischia di cascare in frantumi e venire spazzata via prima d’arrivare a casa. Nessuno per accompagnarla e sorreggerla, nessuno a cui chiedere aiuto.”[2] Così come in “Patria”, farà Fernando Aramburu con la sua Bittori: “Bittori deve andare al cimitero a trovare il marito ma piove: piove forte e tu non sali da sola a Polloe, ti ci porto io con la mia macchina.” Non è più il narratore! Egli non è né esterno né interno! Nessuna focalizzazione rispetto al romanzo. Aramburu si colloca dentro la storia, ha eliminato qualsiasi barriera e il suo presente è entrato in quello di Bittori che stringe tra le mani la lettera che Jose Mari le ha scritto chiedendole perdono. (così scrissi nella mia recensione al libro.)
[1] Elsa Morante, La storia, Einaudi editore, Torino 1974 e 1995, edizione de La biblioteca di Repubblica del 13/10/1975, pag. 268
[2] Op. cit. pag. 430