Alfio Pelleriti
Comunicare per l’uomo è sempre stato un bisogno, un’esigenza naturale che aumenta fortemente la possibilità della sopravvivenza individuale o di un gruppo, oltre che rendere più elevata la qualità della vita di ciascuno.
La comunicazione vera, cioè leale, matura, produttiva, autentica, è direttamente proporzionale alla maturità personale che si compone del senso etico e civile verso la comunità d’appartenenza e in generale verso la comunità umana, al senso della giustizia e del rispetto dei diritti altrui, al senso della democrazia.

Nella Grecia del IV secolo A.C. la comunicazione linguistica costituiva un importante strumento per ascendere la scala sociale e per proporsi nella gestione politica ed economica della comunità d’appartenenza. Generalmente si indica Socrate come colui che cominciò a considerare il linguaggio come una parte del logos, inteso come attività razionale, come discorso costruito per un’efficace comunicazione, come logica che sottende l’ordine universale. E l’agorà, la piazza, era da lui considerata indispensabile per poter cercare la verità, perché lì era il luogo deputato alle relazioni. La ricerca della verità significava per Socrate confronto, dialogo, affrontare senza remore certezze codificate e pietrificate in dogmi; era una prassi esattamente contraria all’accettazione passiva di proposizioni apodittiche provenienti da autorità politiche o religiose o semplicemente dalla consuetudine. Le relazioni dunque erano per lui indispensabili alla realizzazione piena del suo essere e un indispensabile apporto etico e valoriale alla crescita e allo sviluppo positivo della sua comunità.
Anche Aristotele, nella parte della sua filosofia dedicata alla logica, mette in rilievo l’importanza del linguaggio nella conoscenza della realtà. Secondo lo Stagirita le proposizioni riescono a rappresentare con le loro combinazioni l’essenza del reale: esse fanno riferimento alle specie, ai generi, alle categorie o “generi sommi” che sono i modi generali con cui si predica l’essere delle cose, fino ai sillogismi che sono ragionamenti che si esplicitano attraverso costruzioni linguistiche, con due premesse e una conclusione.
Col Cristianesimo la parola, che la tradizione dell’Antico testamento faceva coincidere con l’azione divina o con Dio stesso (“In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”, Giovanni 1,1), si arricchisce dell’azione di Dio fattosi uomo, di Gesù Cristo che porta agli uomini la Lieta Novella consistente nel vivere dell’amore di Dio e nell’amare tutte le sue creature, con i valori che si declinano da codesta fondamentale proposizione: essere misericordiosi e disposti sempre al perdono e all’amore verso tutti, inclusi i nemici. E quindi, in tale contesto, la comunicazione, per diventare efficace e nobilitata, ha necessità di coerenza di comportamenti, di testimonianze autentiche.
Dopo la venuta di Cristo nella storia dell’uomo e per tutto il Medioevo la comunicazione vive un periodo difficile poiché essa sarà condizionata dal potere che governava sul popolo in maniera violenta e oppressiva, per cui essa, da qualsiasi parte provenisse, rispondeva a bisogni che non avevano niente a che fare con la ricerca della verità o con valori etici o, semplicemente con la spontaneità e la sincerità dell’espressione del proprio pensiero. Bisognerà aspettare Bacone, Galilei e Cartesio perché attraverso il linguaggio si potesse dare fondamento scientifico all’osservazione della realtà per studiarla e descriverla secondo leggi fisiche che avevano la prerogativa di essere universali, valide per tutti e per sempre. Quest’ultima proposizione particolarmente impegnativa sarà giustificata da Cartesio con il primato della Res cogitans sulla Res extensa, determinando tuttavia un dualismo netto tra il Soggetto e l’Oggetto. Su tale rapporto si misureranno i filosofi moderni e contemporanei, da Spinoza, ad Hobbes, da Leibnitz a Locke e poi a Kant che costituisce una tappa fondamentale nel pensiero occidentale con le sue tre Critiche, della Ragion pura, della Ragion pratica, del Giudizio e con il suo concetto “sintetico a-priori”.

Ma determinante è stato il contributo dell’idealismo filosofico tedesco, soprattutto di Hegel, con il suo concetto di dialettica triadica (tesi, antitesi, sintesi), con il quale intendeva superare la dicotomia soggetto-oggetto (Il romanzo della coscienza: dall’Idea allo Spirito assoluto). Hegel per primo ha usato il concetto della modernità in contesti storici: la soglia epocale tra Medio Evo ed età moderna è data da tre eventi epocali accaduti intorno al 500: la scoperta del “Nuovo Mondo”, il Rinascimento e la Riforma. Riforma, Illuminismo, Rivoluzione francese sono gli eventi storici che determinarono la “soggettività”, elemento costitutivo per Hegel della modernità. Tale passo in avanti rispetto alla tradizione trova il suo punto apicale, dice Hegel, nella filosofia kantiana e in particolare nel concetto di “trascendentale”, attraverso cui il soggetto lega se stesso al mondo interno ed esterno (conoscenza/scienza, morale, estetica). Anche se, aggiunge Hegel, Kant non ha colto l’aspetto storico attraverso cui la soggettività comprende se stessa e il mondo, percependo e conoscendo il mondo nelle necessarie contestazioni (antitesi), utili perché avvenga il percorso che porta allo Spirito Assoluto e alla pienezza dell’Essere (l’Essere è “divenire” e divenire è “contrasto – superamento e conservazione”). Quindi egli supera la scissione operata da Kant e da Fichte tra Natura e Spirito, sensibilità ed Intelletto, Intelletto e Ragione, ragione teoretica e Ragione pratica, Io e Non-Io, finito e infinito, fede e sapere.
Insomma, tutti i filosofi hanno fatto i conti con il ruolo del linguaggio per la comprensione piena della realtà e della sostanza stessa della vita, approdando naturalmente a soluzioni diverse. Citiamo ancora i contributi di Husserl e della sua Fenomenologia, di Wittgenstein, di Heidegger e di Gadamer, di Popper, col suo principio di “falsificabilità” che mette un suggello al relativismo, non solo in filosofia, ma nella scienza sperimentale, nella sociologia e nella politica.

Da citare infine Derrida con il concetto di destrutturazione, insieme a Deleuze, Guattari, Foucoult, animatori del post strutturalismo francese, i quali affermano che il sapere non è necessariamente emancipativo né si va necessariamente verso la realizzazione del bene, poiché vi sono forze che spingono verso certi interessi economici, indotte da una forte volontà di potenza.
La questione, naturalmente, non è chiusa, come tutte le problematiche filosofiche e teologiche, essa continuerà ad essere studiata, ma si è arricchita di tanti validi contributi da tenere presenti nell’attuale dibattito sulla rivoluzione informatica e digitale che caratterizza la terza e la quarta rivoluzione tecnologica e industriale, in cui le modalità della comunicazione tradizionale sono superate, anche se non sempre con esiti positivi.