Antonio Bruno fu un intellettuale non un “dandy”! (parte quarta)

di Alfio Pelleriti

Come amò e non fu riamato Giacomo Leopardi – Scrisse questo saggio nel 1912, a 21 anni ma già rivela tempra di scrittore e di uomo capace di andare oltre il già detto della critica ufficiale che considerava Leopardi solo un poeta e secondo Croce, non in tutta la sua produzione ma in quella dei Canti, mentre in tutto il resto era un giocare a “filosofeggiare” con una caduta verticale dell’autentica poesia. Bruno sostiene invece che Leopardi è un grande poeta e un vero filosofo: “E mentre si dilegua l’inconsistente opinione del pessimismo viscerale, poiché i giovani hanno il dovere di essere arditi, noi osiamo affrontare le semi-secolari trivialità accumulate – al capitolo Leopardi – nelle scansie della farmacia letteraria italiana, metterle alla berlina e sotterrarle con la polvere che il tempo e il meritato oblio hanno loro concesso.” E poi con ardore punta l’indice accusatore sui critici in redingote del Recanatese: “si frugò, s’indagò, si misero avidamente a nudo tutti i mali che lo torturarono, si convocò l’Italia nel centenario della nascita di Lui e le offrirono in pasto i MISERI DERISI FOLLI amori del GOBBO DI RECANATI…ora a noi che adoriamo e comprendiamo G. L. urge il bisogno di sfatare e offrire al pubblico ludibrio tutte le stoltezze che con aria saccente e melodrammatica piagnucolarono cattedranti e compitanti sull’anima eroica di Bruto Minore, e di affermare che nessuno comprese o cercò di comprendere, o per lo meno di scoprire, l’essenza, il valore, l’estetica dell’amore leopardiano, o come manifestazione di per sé stante, o in relazione con una grande anima lirica.” Così il giovanissimo Bruno che si sente tanto vicino al recanatese per visione complessiva del mondo e degli uomini, con la stessa energia che sente dentro la sua anima inquieta, anche lui consapevole delle sue risorse e potenzialità creative, liquida, nonostante i suoi soltanto 21 anni, tutta la critica accademica e la supponenza dei giornalisti delle rubriche domenicali sui giornali illustrati.

Il giovane Bruno si sente gemello di Leopardi: identico nel sentire nell’esaltarsi, nel vibrare di passione, nel piangere di gioia o di dolore profondo, e descrive quel che prova Giacomo perché sa cosa ha provato lui, costretto, lui eroe, a stare insieme al volgo ottuso e arrogante: “(Egli) è un battello ebro di solitudini e di orizzonti illimitati che si scopre ad un tratto abbandonato in un mare favoloso dove la bellezza e l’orrore si rincorrono e si intrecciano con trapassi e contorcimenti mostruosi. E si fa involare dalle onde, e si affida al vento libero e tragico nell’orrore e nella bellezza.”… “L’amore per lui è tensione dello spirito verso alcunché di superiore. È spiritualizzazione, cristallizzazione. L’amore è per lui quello che per l’Alfieri la libertà”. Bruno si anima nel difendere Leopardi, poiché in lui vede se stesso e ciò che predica di lui lo predica di se stesso. “La donna non si desidera, ma si adora e non la si avvicina per non guastarne l’ideale che ci fa palpitare e sospirare. L’amore è bello di per sé, al di sopra e al di fuori del successo e dell’insuccesso; è una passione degna d’eroi, e soffrire d’amore è eroico.

Interessante il concetto di “cristallizzazione” nell’amore e cioè quello stato per cui un uomo, ricoperto di attenzioni, assume caratteristiche nuove e brillanti e si eleva spiritualmente. A Leopardi bastò l’amorevole cura di Paolina Ranieri che ebbe per lui sentimenti sinceri d’amore, di cura, di pietà proprio alla fine della sua vita. Lei diede molto a Giacomo ma ricevette gioia e orgoglio, amore e amicizia che lei conservava nel suo cuore come la madre le carezze del suo bimbo. “Pia come Antigone, mentre negli occhi di lui si addensava la tenebra, gli fu sorella madre amica. Ne addolcì i lunghi fastidi, ne lenì le misere pene, lo circondò d’un’aria tiepida come il sole d’aprile, ne allietò le lugubri veglie…e però immenso amore di donna per uomo dimostra l’infinita pietà di lei – poiché l’amore, nella donna, è soprattutto pietà…assumiamo G. L. nel cielo degli amanti, dei più riamati, dei più degni di esserlo eternamente.

Convintamente, insieme a Bruno, credo che Leopardi sia anche un filosofo, che coglie le problematiche più complesse che il pensiero filosofico da sempre ha affrontato: esiste un fine nella natura? E l’uomo, con la sua ragione, è il vero e unico dominatore dell’universo? Quale rapporto esiste tra l’ordine naturale che è a portata di conoscenza e il mondo spirituale? Leopardi si colloca perfettamente nel contesto culturale del suo tempo per i temi trattati; oltrepassa, invece, ogni barriera spazio-temporale quando crea, quando fa andare libero il suo spirito sulle ali della poesia, allora diventa genio e giganteggia, ponendosi ai vertici dell’arte. E il giovane Bruno coglie tale aspetto epistemologico oltre che creativo nel Recanatese.

Egli indagò sulla propria condizione esistenziale riuscendo ad aprire delle porte che restano di solito sbarrate a chi adopera solo la chiave della teoresi. Lì dove le menti dei filosofi sperimentano lo scacco e l’impotenza della ragione i poeti con la forza dell’intuizione penetrano gli arcani della vita.

Bruno dal 1925 al 1928 cura sul “Corriere di Sicilia” la pagina culturale pubblicando articoli di critica letteraria su autori francesi, ungheresi, russi, e traduzioni di componimenti poetici. I suoi interventi non sono semplicemente recensioni, che riduttivo sarebbe il termine, ma analisi attenta dell’opera dell’autore e del contesto storico-culturale di riferimento. Bruno “possiede” già l’opera scrivendone, mettendo in evidenza competenza e cultura profonda, nel riprodurne ritmi, intensità emotiva, atmosfere che solo il sentire di un autentico poeta può mettere in campo, riproponendo in lingua italiana la stessa musicalità dell’originale, anzi forse più arricchita in stile e contenuto.

Di particolare rilievo un suo intervento sulla differenza tra il racconto breve e il romanzo. Quest’ultimo, dice Bruno, ha il compito di seguire nel tempo una vicenda che permetta all’autore di presentare dei personaggi con caratteristiche psicologiche tipiche, per le quali occorre che egli, prima di iniziare il lavoro di scrittura, si informi su cosa ha da suggerirgli un medico viennese molto apprezzato nella Mitteleuropa e in America, il dottor Sigmund Freud, a proposito dell’”Incosciente” e della psicoanalisi di cui Bruno, insieme a pochi altri, aveva contezza e ne apprezzava impostazione teorica, finalità e metodi di cura, a differenza dei tanti intellettuali e critici letterari suoi contemporanei[1]. Bruno non si unì a tali cori che tacquero anche quando furono chiuse le facoltà di psicologia in Italia, in ossequio ai dettami fascisti e crociani, che ritenevano “pseudo scienza” tale disciplina.

Non solo di Baudelaire, di Mallarmè, di Flaubert si interessò, ma anche di un gigante della letteratura d’oltralpe, Marcel Proust, traducendone parte della monumentale “Recherche”, di cui affermava: “l’opera nata dal bisogno d’affermare di possedere l’inafferabile, coglie quanto vi è di osceno nell’uomo, impiegando una forma che richiama irresistibilmente la musica.”[2] E ancora: “sensazioni e impressioni ammassate in quantità incalcolabile su ogni centimetro quadrato della pagina. Forse mai la realtà è stata percepita da un romanziere in modo così folto, sottile, sfumato…questo accanimento a sorpassare l’apparenza con lo spirito per comprenderla meglio, ha finito per trasformare un’opera di pura reminiscenza in una pittura mai conosciuta finora dall’uomo, dagli uomini; una pittura così vera, così potente degli abissi dell’animo che può ritrovarsi soltanto nelle opere classiche.”[3] Oltre alle traduzioni dei grandi autori francesi Bruno tradusse “Il corvo” di Edgar A. Poe

Certo la liricità del Nostro, oltre al tumulto della sua anima inquieta, si può cogliere nei Quaderni di cui cito due piccoli brani che interessano Biancavilla avvalendomi del già citato libro del professor Scuderi: “i sonagli dei mulattieri sono tornati: hanno destato la valle – pei ripidi viottoli hanno risuonato mentre i puledri carichi di otri voti – che sapevano di dover riportare pieni dal palmento dove in lontananza brilla una lumiera guardavano gli abissi sottostanti profumati di lentischi e di funghi, dove pare che la Notte si adagi vasta e immensa avvolta in un manto bruno che le stelle affissano – fino a quando cominciano a sparire, quasi vadano in un cielo nascosto e più lontano – chiamate dalla conchiglia del mulattiere che risuona di gridi cupi e nostalgici – che fanno pensare al tritone gonfiante le gote sulla sua imboccatura.

Il mulattiere aveva cantato canzoni del paese fino alle prime vigne. Ma poiché la freccia del campanile era sparita e la montagna gli era spuntata d’avanti, ha voluto annunziarsi a chi vegliava lungo le alture.”[4]

Paesaggio di Biancavilla.

Dalle alte terrazze della mia casa vedo il tramonto gettare sulla terra un manto soffocato, come lascia se stesso un appassionato che parta.

Un anfiteatro di montagne orla il declivio della conca che sfocia all’orizzonte oltre lo sperone del baluardo che ha guglie gotiche verso Nord e poi discende alle seminature svampanti del mezzogiorno con simmetria di slancio.

Forse stasera sbocceranno nelle lontananze misteriose dei suoi spalti i fuochi di bengala delle feste d’estate. Mazzetti di fuoco faranno segnali di gioia alla campagna ove canta indisturbata la rana, e le masserie chiuse rigurgitano di fieno, e non s’ode più un campano di mandra ora che si ardono le stoppie e i greggi sono già sulle alture. Ma la lingua del fiume è una serpe lucente: e le campane di Adernò giungono come un sussurro d’aria a cui risponde la solennità velata di quelle di Licodia, in cospetto dell’ostia d’oro del sole. E quelle di Biancavilla si sciolgono ad annunziare la benedizione. Dapprima è la Matrice, e presto, in coro, l’Annunziata la Badia il Convento, in un garrulo rimbalzo di timbri che si smorzano nel soffice abisso dell’aria.

Il quartiere discende dal tergo del palazzo in una vecchiaia di tetti bassi e di tegole grigie ai Getsemani delle chiuse d’ulivi. È l’ora in cui l’ombra si allunga negli orti delle case arabe, e le cedronelle e i melograni si chinano alla brezza.

I bimbi vociano nell’antico patio dove una figlia di Maria mite e sbiadita gira l’arcolaio.

Là un avo che portava orecchini di smeraldi, tornando alla trebbiatura spartiva un pane d’amore alla sua ciurma, prima di rivarcare la soglia. Là un’antenata convitava i poveri il giorno d’Ognissanti, servendoli a piedi scalzi a un’imbandigione di tovaglie di Fiandra e d’argenterie.” (Un poeta di provincia pp. 165-166)

Deserto metropolitano
Dai quaderni 1
Dai Quaderni 2

Mi piace completare la presentazione di Antonio Bruno con una mia recensione del libro da poco pubblicato dal prof. Alfio Grasso nell’edizione “Nero su bianco”

Alfio Grasso, Antonio Bruno, letterato e politico

Il saggio di Alfio Grasso su Antonio Bruno ha il pregio di presentare al lettore, con essenziali “pennellate”, le caratteristiche principali del geniale intellettuale di Biancavilla. In particolare del Bruno, Grasso mette in evidenza la personalità forte e focosa, lo spirito libero e combattivo, il coraggio umano e politico in un’epoca storica, quella degli anni venti del Novecento in cui non era affatto facile esserlo.

Il saggio è scritto con il rigore scientifico cui ormai Grasso ci ha abituati: le note a piè di pagina e la ricca bibliografia costituiscono un’essenziale riferimento per chi voglia conoscere più da vicino il poeta biancavillese.

Antonio Bruno, appartenente al ceto abbiente e borghese, poteva permettersi come pochi di lasciare il “natio borgo selvaggio” per viaggiare in Italia e all’estero: fu a Parigi e a Londra, a Firenze e Palermo e stava abitualmente a Catania, ma spesso tornava nella sua Biancavilla per cantare “le seminature svaporanti” della valle del Simeto che ammirava affacciandosi al verone della sua magione signorile, illuminate “dall’ostia d’oro del sole”, lì dove i braccianti e i “lanuti” e i carusi “venduti” dalle famiglie povere ai massari e ai proprietari terrieri, stavano chini con le falci a mietere grano e a preparare covoni o a bruciare le stoppie o a zappare quella terra che risucchiava loro ogni energia per pochi denari che permettevano loro la sopravvivenza.

“Io solo sento tutti gli alti desideri fino al limite ove chi giunge è solo.” Questa sua espressione così dannunziana e radicale nell’ergersi a dominare ogni altro tentativo di cogliere il “sublime”, testimonia del desiderio di Bruno di essere guerriero nel mondo dell’arte, ma l’ansia di primeggiare non gli permetteva d’acclimatarsi in un luogo, intessendo rapporti solidi e duraturi con persone che fossero da lui ritenute degne del suo non comune ingegno. Viaggiava frequentemente, senza posa, inquieto, con frenesia, per ritornare poi al punto di partenza, sentendosi non soddisfatto e ancora più svuotato, alla sua Biancavilla, usando quel luogo, amato e odiato insieme, per i suoi sfoghi emotivi, per i suoi “eroici furori”, concedendosi anche qualche poetica amenità.

Questo “male di vivere” è un tratto tipico dei poeti crepuscolari e di artisti geniali alla continua ricerca di una soluzione esistenziale che si sposta sempre in avanti, precipitandoli in dolorose depressioni.  Leopardi quella soluzione alla fine trovò nella solidarietà umana, sentimento che gli consentì di trovare una via d’uscita al suo pessimismo cosmico.

In un momento drammaticamente difficile, quello del primo dopoguerra, del “biennio rosso”, caratterizzato da proteste radicali, specialmente nel nord e nel centro del Paese, e poi dalla presa del potere da parte dei fascisti, Bruno, evidenzia Alfio Grasso, fu ardentemente antifascista. In un momento in cui fece comodo a molti cambiare casacca e saltare sul carro del vincitore, egli rimase vicino a posizioni socialiste.


[1] Tra i detrattori il critico letterario Francesco Flora. Anche nell’ambiente accademico essa trovò ostacoli alla diffusione: tra questi Padre Agostino Gemelli, francescano, medico e psicologo, o Nicola Pende che la liquidava come “pansessualismo” e ne derideva l’assunto fondamentale, l’esistenza dell’Inconscio, le cui pulsioni si evidenziano alla coscienza attraverso i sogni, affermando avventatamente che le giovinette italiche non sognano.

[2] 3 gennaio 1926 – in Ermanno Scuderi, “Dal salmista ai Maudits”

[3] Ibidem

[4] ERMANNO SCUDERI, Op. cit. pp. 184-185, dal Quaderno 1920-1921.


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