Antonio Bruno, duro polemista e tenero autore delle lettere a Dolly Ferretti (Parte terza)

di Alfio Pelleriti

Antonio Bruno

UN POETA DI PROVINCIA, schiarimento catanese in difesa della poesia – un velenoso, astioso intervento contro Villaroel e tutte le categorie sociali che lo applaudono. Un livore che non si doma caratterizza questo pamphlet contro il poeta catanese: acredine, rabbia e violenza ferale che si trasferisce sull’intera intellighenzia catanese e contro Mario Rapisardi in particolare, definiti rappresentanti di “ilotismo civico” di “urtante presunzione”, di “valenti del nulla”, “cretini con idee parassite”. Le invettive colpiscono Carlo Carnazza, giornalista, imprenditore e politico; l’insegnante Cesareo, denigrato perché insegnante: “non siete che un professore, cioè un insegnante di letteratura, che ha la cera dell’intellettuale quarantottesco, clichè dell’istrione siciliano di prima classe…Da noi un maestro di ginnasio conta per istruito: voi dunque siete un’arca di scienza. Ve lo dichiarano i travetti aspiranti presidi o che accendono da lustri il moccolo alla libera docenza… Siete un ittosauro: gli uccelli che volano non li potete vedere, e mentre vi slogate per guardare all’aria, essi vi passano sopra di slancio.” Si resta basiti dall’aggressività malevola, offensiva e denigratoria che dà solo disonore a chi la pratica.

Tuona ancora contro Roberto Bracco e Antonino Anile, giornalisti tra i dodici accademici italiani firmatari del manifesto degli intellettuali antifascisti, rei di aver criticato Ada Negri e Grazia Deledda. Certo colpisce la bravura nel costruire il disegno dissacratorio che è mordace ma elegante, ricco ed efficace. Diventa poi pieno di ricchi intarsi autocelebrativi, fino ad indurre chi legge ad evocare nel Rostandt e Cirano, l’eroe dal naso enorme, lungo quanto la sua burbanza, vanaglorioso nel ricercare palcoscenici per soliloqui autoreferenziali. Cirano de Bergerac, impegnato non nelle guerre ma nelle sfide e nei duelli a singolar tenzone, da autentico guascone. Qualche passaggio della filippica ferale: “Io ne conosco d’impostori e di pagliacci in confronto ai quali Villaroel è un buon ragazzo. Mi sapete dire che sono, sono stati, e saranno, tutti i Nicodemi e i Benelli italiani e stranieri, che ieri si chiamavano, mettiamo, Rovetta e Giacosa, e avantieri Giacometti e Cossa, e tre giorni fa con nomi più dimenticati ancora, che hanno sempre aiutato e aiuteranno la siesta dei droghieri, dei mercanti, e delle persone volgari che hanno soluto e sogliono passare il dopopranzo a teatro?

Tuttavia bisogna convenire che vi sono pagine nell’invettiva, superbe nella costruzione del discorso, nella padronanza dell’impostazione logica e retorica della sua struttura. Egli padroneggia, da autentico fuoriclasse, il genere della satira, toccando le vette della demolizione dell’avversario senza pietà alcuna, adoperando ogni argomento anche il più infimo. “La scelta, la sintesi, la sfumatura, ogni forma di sentire raffinato e profondo, gli sfuggono. Ne consegue uno stemperarsi della personalità in tinte grossolane e imprecise.” Ecco, di tanto in tanto, una stoccata profonda, o un taglio al viso, più per offendere piuttosto che per finire la vittima designata in questa disfida all’ultimo sangue. Bruno gode nel torturare l’avversario e non lo finisce, lo mantiene in vita per accanirsi su di lui come un sadico torturatore e allora tagliuzza le sue carni con la lama intinta nell’aceto e infligge dolore acuto. Non gli importa la cavalleria, e sceglie d’essere amorale, cinico, violento; nessuna pietà per l’avversario che pretende che cada nella polvere per poggiargli addosso il piede del più forte e non gli importa se questo incalzare si trasformi in superbia, in egolatria, in greve sarcasmo: “Pensate una parola che non specifica, figuratevi una periferia senza centro, immaginate un’ala che non vola, rievocate un’afa senza luce, fermatevi a un embrione con solo degli stimoli che non diventano desideri e non saranno mai volontà, e avrete Villaroel.”; “Rassomigliano le sue poesie a rachitici che s’imbottiscono per parere normali… la narrazione è enfasi, la lirica è rima e rumore di parole accomunate secondo le più rozze esigenze dell’endecasillabo.” Un accanimento tirannico e orrido nella sua eleganza formale, come il perfezionismo nazista ad Auschwitz. Poi non più il tormento al condannato, non più tagli, fori, infreddature, ma il pubblico ludibrio nella piazza dove mostra ciò che di lui rimane; un fantoccio esanime. Egli è a pezzi ormai, ma il torturatore si accanisce con nuova inusitata virulenza e del suo dolore ne ride come fosse un pagliaccio quel corpo martoriato.

Tuttavia è innegabile che la sua conoscenza letteraria è vasta, che la sua scrittura è da autentico fuoriclasse, poiché passa, con apparente semplicità ed armonia, dallo stile caustico del pamphlet all’analisi puntigliosa del critico letterario, fino alla filippica più dura elegante superbamente aristocratica: “Se Catania è la Papuasia della sensibilità e dell’arte, tutto il gusto comune dei filistei è la Libia o la Nubia. Ma questo non è uno schiaffeggiamento gratuito come si suole fare alla birreria o in qualche altro punto frequentato per piazzarsi in fila cogli uomini di fegato. È un atto d’amore per l’ingegno nativo di Sicilia ottenebrato da superstizioni idiozie e trivialità soltanto nostre, e che resterà in eterno un’energia contraffatta invece di espandersi, come potrebbe, in riflettore di grande raggio… ai giovani siciliani (è dedicato questo lavoro) che pagheranno il fio di volere innalzare il significato della vita, e sconteranno il disprezzo per i valori bassamente utili che sono i soli pregiati nel loro paese… al di là del campanile rozzo e maligno ci sono le pure regioni dello spirito che i pigmei conterranei non hanno mai sospettato, nell’agguato perenne in cui li raggomitola l’idea fissa di foraggiare la pancia e la boria.

Il giudizio sulla poeticità di Villaroel dà l’occasione al Nostro di esprimere la sua idea sul principio che guida la creatività attraverso l’uso della parola e quindi sui legami che sussistono tra l’energia interiore e la creazione di immagini. Una pagina in prosa se nata da autentico “Splenn” (energia interiore ndr) è poesia. Dice Bruno: “Villaroel non si è mai reso conto del come siano poeti Rousseau e Chateaubriand che non hanno mai fatto un verso, e quanto qualche pagina in prosa di Flaubert sia più lirica che interi volumi in poesia di D’Annunzio…il ritmo d’una immagine risulta dalla sua essenza, e che è la sua attuazione lirica, vale a dire assoluta, a produrre l’armonia, cioè la proporzione tra le parti del suo mezzo, qualunque esso sia: linea, colore, suono, parola.”  

Bruno risulta imbattibile nell’ordire trame critiche: argomenta, esemplifica e poi, l’affondo mordace e mortale che lascia basiti e senza parole. Scrive: “Come fargli intendere che per chi ama davvero l’Arte e vive per essa, egli è più tanghero di quell’asino che rompe i modelli del vasaio? Che la sua attività letteraria nega la divinità della poesia e la voluttà di adorarla, e rende odioso il luogo che non lo subissa di disapprovazioni? Quando gli verrà a nausea d’impastar beccafichi con parole consunte, rime ammuffite e versi slombati?” ma i suoi strali non risparmiano neanche i suoi avventati estimatori siciliani: “sbalordisce gl’isolani del versante orientale con colonne di giornale firmate col suo nome. Gli basta far sbarrare gli occhi sul titolo o sulla lunghezza dello scritto, visto che il lettore insulare su cento articoli non ne affronterà uno, ritenendolo difficile, e dichiarandosi a priori, senza falsa modestie, inferiore perfino al testo.”

E ancora poco più avanti sul rapporto tra catanesi e Bellini: “nella vita intima della città il suo cigno non è mai presente. Essa grida ai punti cardinali d’aver fatto nascere un genio, senza però dimostrare che la sua mammella lo ha allattato. Se ne vanta: come una famiglia, d’un antenato di cui non è a livello, e di cui è fiera per la fama che ha fuori…mai Bellini è vissuto a Catania: né vivo né morto. Oriundo di Magna Grecia, è nato nello Ionio, Egli è greco, greco dell’età alessandrina, come Teocrito e Mosco siracusani…ogni recriminazione è impossibile: niente che sia catanese è anche belliniano, meno qualche orizzonte dalla parte del mare, all’ora in cui il vento sospinge l’Ionio dalle rive greche col fremito d’un’alachi sa interpretare guardare ascoltare pensare amare nella patria fisiologica di Vincenzo Bellini? Dove si vive di tutt’altro che d’intelligenza e di gusto.”

Sono confuso dopo aver letto delle pagine inarrivabili del Bruno, non solo per eleganza formale, per le scelte lessicali che rimandano a profonda cultura, per l’intelligente naturale capacità costruttiva del discorso, ma anche per un sentire profondo, autentico, essenziale, che lo avvicina come non altri al Parnaso dei poeti, degno del Pantheon degli autentici artisti.

Le mie prime impressioni negative ora svaporano riconsiderando il giudizio complessivo, pur sforzandomi di mantenere le distanze con il genio che onora questo luogo che gli diede i natali e che mi consente di affermare che mi è compaesano. La pagina 272 delle Opere mi ha definitivamente convinto sulla sua genialità di cui non si può non riportare una piccola citazione: “Il verismo mostrò nuda la tradizione sudistica spagnola levantina e musulmana che ci opprime. Il covo dei Vicerè è una stalla che ammorba…ma in questi atti d’accusa dettati dal bisogno di redimerla, che essa non comprende ancora, la Patria è presente e amata nella passione del suo paesaggio cavalleresco. Si stende la zolla contratta di sole e sangue ove le messi ondeggiano coi seni delle fanciulle che sanno l’amara necessità dell’amore pel tugurio vuoto di pane e per l’anima deserta di carezze. Si ergono i dorsi dei monti che ardono fino a sera, anche quando il sole è scomparso, come la fronte degli uomini di fatica che la sventura curva nella miseria e nella vergogna. Luccicano misteriose e nostalgiche, le costellazioni che coronano i suoi scogli mitologici attorno ai quali l’acqua mormora parole che ascoltano affascinati i vinti sulla via dell’esilio.” L’ultima pagina è semplicemente un capolavoro sublime (277).

Un poeta di provincia 1
Un poeta di provincia 2
Un poeta di provincia 3

50 lettere d’amore alla signorina Dolly Ferretti 1928 – e adesso affermo che Bruno era un poeta vero, come i grandi geni sanno esserlo che restano immortali. In lui lealtà di sentimenti, in lui autentica passione, in lui l’eternità del Bello. Il suo struggimento è l’energia comune ai grandi vati, anzi in lui non noto la superbia di chi si vanta in cuor suo dei suoi talenti.

Una giovane donna del primo Novecento

L’intensità sentimentale delle lettere racchiude un’interna malia che il lettore non può allontanare da sé. Egli entra nella storia catturato da una forza irresistibile che dimora in frasi che nascondono dentro un incantesimo: chi leggerà queste parole sveglierà in lui lo stesso sentimento palpitante, struggente di Antonio e di Dolly e i suoi occhi saranno la stura che liberando lacrime calde, informeranno che compiuta ancora è la magia, avvertendo che quando l’amore è forte, leale, reciproco, allora esso non muore, si conserva, pronto a risorgere nel cuore dei romantici poeti d’ogni tempo.

Quanta sofferenza eroica in Antonio. Tremendo è il dolore dell’amante rifiutato, poiché il cuore suo è vinto da due alleati forti e vigorosi: il vuoto per la perdita del rifugio sicuro e il senso della ineluttabile solitudine che fa cogliere la realtà come insensata e ostile. Del resto come non innamorarsi di Dolly, fanciulla che mi immagino esile, afana, languida e dolente nello sguardo, sempre pronta ad accendersi di luce quando alza piano le palpebre e i suoi occhi penetrano coi suoi raggi invisibili il cuore di chi sta lì davanti a lei, succube e vinto da un afflato profumato che par di Dea o ninfa eterea ed immortale. “ Da martedì non mi curo di niente e di nessuno. Sto in accappatoio, coi capelli ravviati dentro la cuffia che preferite, in modo da essere invisibile per chiunque, meno che per il mio signore. (Vi chiamo proprio così!).

SERENADE DE LA POUPEE – Questa è autentica poesia che abita in vette alte, che solo i geni possono abitare. E stupore misto a invidia invade il cuore deserto del lettore che vorrebbe ardentemente rubargli quel tesoro, che si rivela impalpabile: solido all’artefice, svaporante al ladro; caldo che non brucia e vigoroso seppure immateriale. Ecco, il termine giusto sarebbe “spirituale”, per questo suo componimento che richiede lettori rimasti bimbi, che danno peso alla parola data, che sorridono al sorriso innocente di un volto sereno, pacifico, leale. È bellissimo quando due poeti si incontrano e si amano. Le stelle sono allegre e brillano e sorridono partecipando anch’esse all’estasi. (Lettera di Dolly pag. 377). E poi la fine e la delusione e la sofferenza di un cuore ferito. Cosa può esistere di più doloroso della fine di un amore? Cosa può rabbuiare il tuo cuore più dell’incapacità di potere ancora sognare la vita insieme ad una compagna divenuta indispensabile come un braccio o una gamba? “L’amavo infinitamente più di me stesso; e se faceva risorgere l’illusione che tutto il mio amore le era dovuto, il mondo si trasfigurava ai miei occhi; e provavo tanta riconoscenza, da esserne oppresso. La tenerezza di Dolly esaltava la mia dedizione. Non avevo mai disperato di poter rimettere l’idolo sul suo altare, e, appena un segno di redenzione spuntava, la piccola Circe ridiventava, tra i cantici, la Madonna color di giglio e di spiganon eravamo che due ragazzi nervosi, alla mercè dei piccoli-borghesi, stupidi e meschini! Decisi di non pensare, di non riflettere, di non sottilizzare sul mio perverso destino d’amore, relegando in un’altra parte della mia anima, quasi in un altro essere, quel me stesso deluso e delirante…Mi aggiravo nella mia camera con la coscienza di essere un rottame. A uno a uno, sorsero dalle quattro pareti i ricordi che esse racchiudevano; fui preso da singulti dolci e strazianti, e mi abbandonai a un pianto lungo, tragico.

A Dolly
Invocazione d’amore
Senza più Dolly

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