di Alfio Pelleriti
Nei primi anni Settanta frequentavo la facoltà di lettere e filosofia a Catania e chi aveva qualche anno in più dei miei parlava ammirato e con rispetto di Cesare Pavese, andando orgoglioso di aver letto “Paesi tuoi” o qualche verso di “Lavorare stanca” o “La luna e i falò”, il romanzo scritto e pubblicato un anno prima di togliersi la vita, nel 1950. Io glissavo su questi argomenti appena accennati e lasciati morire per semplice consunzione dopo essere stati accesi da un fondo di Carlo Muscetta sul “Corriere” o al passaggio fugace del prof. Nicolò Mineo nella sua lezione alla “centrale”. Da allora sono passati decenni e finalmente ho deciso di conoscere da vicino Cesare Pavese confrontandomi con l’ultimo suo lavoro, appunto “La luna e i falò”.

Mi ha introdotto alla sua conoscenza l’ottima introduzione di Gian Luigi Beccaria, in una edizione dei Tascabili Einaudi edita nel 2000.
Una prosa asciutta e volutamente arida quella di Pavese, attento perfino ad inserire costrutti sintattici che trasgrediscono le regoli formali: anacoluti, concordanze dei verbi e dei pronomi personali, usati spesso solo alla terza persona singolare, poche subordinate. La lingua viene calibrata sui personaggi, secondo un “metodo verghiano”, e allo stesso modo di Verga l’autore scompare lasciando solo Anguilla, il protagonista, che appartiene ad un mondo di sfruttati e, per certi aspetti, di “dannati” che agiscono senza mai uscire da quel contesto culturale e sociale che li avvinghia e li condanna al patimento.
Gli stilemi della letteratura americana con le sue atmosfere cupe e con la fuga dal bello stilistico e dal Bene si riscontrano in questa scrittura che non concede niente alla retorica, perché vuole essere realistica, fino al punto di diventare antiletteraria, simile alla cronaca: “Il Valino non mi disse se salivo con lui a bere un bicchiere. Raccolse il fastello dei salici e chiese a Cinto se era andato a fare l’erba. Cinto scostandosi, guardava a terra e non rispose. Allora il Valino fece un passo e con la mano libera menò un salice a frustata e Cinto saltò via e il Valino incespicò e si drizzò. Cinto in fondo alla riva adesso lo guardava”.
Pavese, passate le tragiche esperienze della dittatura e della guerra, era in preda ad un turbinio interiore di sentimenti contrastanti. Avrebbe voluto ardentemente trovare una donna da amare e che potesse amarlo, affinchè quel sentimento lo potesse aiutare a trovare un senso nella vita, che altrimenti gli sarebbe scorso davanti come se rispondesse unicamente alla casualità. Tuttavia gli incontri con le donne che lui auspicava potessero diventare compagne, amiche, amanti, si trasformavano in cocenti e frustranti delusioni. E quando la fiducia in se stesso calava vertiginosamente, allora sentiva la necessità di stare dalla parte dei semplici, di quel popolo che era stato vittima di eccidi, di soprusi e di angherie e per il quale sentiva il rimorso di non aver fatto abbastanza come tanti suoi amici caduti sul campo, come Leone Ginsburg o Giaime Pintor. Certo, anche lui provò il confino e il carcere, ma percepiva come una zona d’ombra, un senso di colpa che fino alla fine lo condannerà ad un “male di vivere” che lo avrebbe portato al gesto estremo del suicidio nel 1950, in una stanza dell’albergo Roma in Piazza Carlo Felice a Torino.

“La luna e i falò” si può definire un romanzo dell’ulissismo narrativo o del ciclo del “nostos”, del ritorno nostalgico alle radici, ad una patria che diventa una ricerca del proprio Io profondo e di valori che possano dare significato ad un presente connotato da continue sconfitte esistenziali. È una prova di scrittura autobiografica dove però il protagonista non è chi scrive; si usa la prima persona singolare senza che il nome venga mai fuori. Il protagonista, tuttavia, dell’autore ha tutti i tratti psicologici, con le sue nostalgie, le sue ansie, la sua anima dolce e attenta al Bello e al Vero. Egli vuole nascondersi e ammiccare al lettore ad indicargli dei percorsi introspettivi da percorrere e degli elementi che si trovano sparsi nei vari personaggi e in Nuto soprattutto che sembra piuttosto un eroe, un modello di riferimento, un “Alter Ego” inarrivabile, perché dalla solida personalità, sorretto da una fede sociale e politica incrollabile seppure aperto al dialogo.
Il protagonista, Anguilla, torna dagli Stati Uniti dove era emigrato e risiede a Genova, per poi fare ritorno ai luoghi dell’infanzia, nell’astigiano, nelle Langhe, desideroso di ritrovare un mondo arcaico, difficile per coloro che avevano avuto la ventura d’essere nati in famiglie povere e abbandonati davanti al Duomo d’Alba. Fu adottato da Padrino e da Virginia e dopo la morte di quest’ultima e la vendita della piccola casa e della vigna, Anguilla, ancora bambino, dimorerà nel casale della Mora, ceduto ai massari che lo avrebbero sfruttato come altri “bastardi” in cambio di un piatto di minestra e di un pagliericcio.
Torna in quel territorio per tornare alla sua “patria”, nel suo paese dove la “luna e i falò” erano importanti per chi viveva in campagna poiché scandivano il tempo delle stagioni e i lavori connessi ad esse. Di quei luoghi, la casa dell’infanzia che appartiene ora a Valino, la Mora con il suo casale e i ricordi delle figlie del fattore, Irene e Silvia, sente ancora il pulsare; ne riassapora i profumi, rivive le gioie e i dolori dei protagonisti di quella fase della sua vita. Non c’è una storia da raccontare ma tante storie che si intersecano e sono presentate con semplicità così come accaddero, come in una cronaca: “Canelli, (che) è tutto il mondo – Canelli e la valle del Belbo – e sulle colline il tempo non passa”. Almeno fino a metà del romanzo si presentano dei quadretti che si susseguono in brevi capitoli (32 in tutto), per affrontare il tema del ritorno alle radici, a quel paese che lo vide aprirsi alla vita insieme alla sua guida Nuto, che ancora ammira, come il discepolo il suo mentore.
Anguilla/Pavese fa ricorso alla memoria per un ritorno nostalgico ad un luogo che per lui è diventato epico, raccontando con una prosa semplice, dalla struttura paratattica, a tratti monocorde e senza alcun ritmo, con l’inserimento di strutture morfosintattiche del dialetto, usa cioè una lingua del popolo, dal tono “basso”, per rendere “realistica” la narrazione. “L’avevo tanto aspettato, ma quando il buio ricadde e la sabbia tornò a scricchiolare (ripetuto tre volte in due pagine) mi dicevo che nemmeno in un deserto questa gente ti lasciano in pace”.
Ora una digressione: leggere o saper leggere è un atto profondamente democratico, nel senso che può diventare un esercizio di apertura verso l’altro; un’attività che abitua a superare pregiudizi, schemi mentali che noi stessi ci creiamo. Succede infatti che spesso ci affidiamo a dei modelli che nel tempo, inconsciamente, diventano dei filtri attraverso cui facciamo passare tutte le nostre esperienze: uomini, donne, animali, eventi, oggetti, bambini, manifestazioni religiose. Tutta la vita che percepiamo, in pochi istanti viene giudicata e catalogata prima ancora che la ragione possa intervenire. Sì, perché la ragione ha i suoi tempi e distingue le emozioni, le passioni, i sentimenti dai ricordi, dalle esperienze e dalle conoscenze del passato, e poi essa, la ragione, elabora il tutto in relazione alle categorie etiche, politiche, religiose e infine scatta il giudizio. Non prima! L’errore del giudizio sta proprio nel non tenere a freno le pulsioni inconsce che tendono alla catalogazione, per cui la prima impressione guida i momenti successivi che contribuiscono soltanto a rendere più solidi i nostri pregiudizi, facendoci indossare gli abiti degli ottusi conservatori o dei saccenti, superbi del loro fagottino di informazioni che basta loro per autodefinirsi eruditi, in realtà solo narcisi a cui basta guardare la propria immagine riflessa ovunque, anche lì ove non c’è traccia d’uno specchio.
Tale riflessione rivolgo a me stesso poiché ancora una volta non sono stato pacato nella lettura, non ho tenuto a freno la voglia di catalogare lo scrittore, dimenticando che stavo incontrando un uomo che apriva interamente la sua anima e mi invitava ad entrare in essa per capire meglio me stesso, il mio mondo, donandomi la sua esperienza di vita perché, io ne possa far tesoro.
Al capitolo XIX tutto cambia nella percezione che ho del romanzo: rallento la velocità di lettura e bado a non distrarmi. Quella stessa prosa che prima era “urticante” e “lontana” adesso è poesia, musica. Ora trovano spazio sentimenti profondi non più semplice nostalgia per un mondo che sta per volgere al tramonto, cedendo al bisogno del cambiamento. Pavese pone a se stesso e al suo lettore un interrogativo sull’essenza della vita, sul suo mistero, sull’essere intrinsecamente legata alla morte; c’è spazio per mettere in risalto la cura amorevole che gli uomini mettono nelle loro case, nei campi, negli oggetti che sembrano diventare spesso parte sostanziale degli individui e che poi, ad un tratto, vengono lasciati e abbandonati per sempre. “Ogni casa, ogni cortile, ogni terrazzo è stato qualcosa per qualcuno e, più ancora che al danno materiale e ai morti, dispiace pensare a tanti anni vissuti, tante memorie, spariti così in una notte scura senza lasciare un segno. O no? Magari è meglio così, meglio che tutto se ne vada in un falò d’estati secche e che la gente ricominci”.
Poi, all’improvviso, quando procedi col tuo ritmo e corri ormai veloce sulla pagina, succede il dramma: Valino uccide la moglie, Rosina e la suocera e cerca di uccidere anche Cinto, il figlio, che si salva scappando; e allora dà fuoco alla casa, non sua ma dei signori. Lui ha sempre sgobbato in quei campi curandoli con la zappa, col concime, potando ogni anno le piante che crescevano bene e rigogliose, ne aveva raccolto i prodotti, ma tutto a beneficio dei padroni, tenendo per sè solo il giusto per campare. Poi un giorno, Valino, bestemmiando, picchia a morte i suoi, incendia la casa e si impicca. Pavese descrive, descrive soltanto, perché non serve commentare i drammi, essi parlano da soli.
La storia è cominciata con i falò e “falò” è l’ultima parola del romanzo anche se esso è quello che avvolge il corpo della bella Santina, di una giovane donna che non aveva abbassato il capo alla “signora” e a sor Matteo, i fattori. Lei non scelse di far la “scema” come gli altri, ma prese in mano il suo destino collaborando con i repubblichini prima poi con i partigiani e infine pagò con la morte, dopo una condanna sbrigativa e senza appello. Però prima di morire sorrise a Nuto, salutandolo con una “smorfia come quella dei bambini”.
Ora che sono arrivato alla fine del romanzo posso affermare che Pavese è riuscito a delineare la psicologia dei personaggi descrivendone le azioni, facendoli agire e parlare come fossero sulle tavole di un grande palcoscenico. L’autore si è identificato col protagonista della storia vestendone i panni, sentendone le emozioni, esprimendo le sue ansie. Ma per far questo non usa comode descrizioni da narratore ottocentesco in pantofole al caldo del camino, sorseggiando un Vermouth o un Rosolio di Torino. No! Fa parlare i personaggi come fossero in una grande tragedia greca, come in una stupenda sceneggiatura d’un film d’autore.