Giuseppina Torregrossa, “Manna e miele, ferro e fuoco”

Tra atmosfere magiche e realismo, un romanzo struggente e ammaliante.

Alfio Pelleriti

Questo sì è un romanzo! Un romanzo in cui non una parola è fuori posto. La voce narrante, esterna alla vicenda, intreccia con gli eventi le sue riflessioni sagge e profonde; le analisi psicologiche dei personaggi si presentano leggere perché frutto di intuizioni e di empatia con loro, non perché codificate nei trattati di psicologia o di sociologia. Si percepisce insomma un narrare che è frutto di un’abilità naturale, di un talento che viene fuori e si fa strada, come avviene in ogni campo con i fuoriclasse. Ed emerge una visione del mondo che viene da lontano e attraversa tutta la tradizione della letteratura siciliana, e aleggia nel romanzo il vento ammaliante e leggero della sicilitudine che porta con sé, insieme alla sensibilità e all’intelligenza, all’ironia e al sarcasmo, il profumo di zagara e la dolcezza del miele che, come l’aria che sa ancora di salsedine, si insinua dalle coste e, passando attraverso i calanchi delle Madonie e dei Nebrodi, fino agli Erei, arriva fino alle piane dove incontra le spighe che si piegano a formare onde sinuose, trasformandosi infine in carezza fresca e leggera.

Nel romanzo si ritrovano immagini che sembrano venute da un mondo senza tempo; pensieri che si ha la sensazione che ti abbiano occupato la mente in tempi ormai lontani, e parole colte dal dialetto siciliano con la stessa delicatezza con cui si prende una margherita, una rosa, una camelia dalla pianta, scusandosi per aver osato tanto: “’nzà mà”, “moviti ddocu”, “gama di baci” e altre espressioni ancora che contribuiscono a rendere accattivante, sapido, familiare la lingua del testo, contribuendo non poco alla presentazione del contesto storico e sociale della Sicilia dell’Ottocento. E ogni sequenza, ogni frase pronunciata da ‘gna Maricchia, mi presenta l’immagine di mia nonna Maria, di mia madre Rosa, delle mie zie, oppure, con Tanuzzo, ricordo me stesso bambino, con le mie prime certezze, con i miei dubbi, con le mie tante paure.

Giuseppina Torregrossa

E poi si nota in ogni pagina il carattere gioioso, l’intelligenza vivace e arguta, con cui l’autrice coglie tutte le sfumature del reale, insieme problematico e accattivante, ammaliante e insidioso: “Il ragazzo calò la testa e rimase alla finestra a guardare suo padre e sua madre che univano le loro bocche così voracemente che sembrava volessero mangiarsi,[1]

Risuona la sua scrittura, con vibrazioni che provengono da quel sentire comune a chi nasce nell’isola dove la manna e il miele si uniscono al ferro e al fuoco, dove i frutti odorosi e succosi delle pianure stanno insieme alla sciara nera che sopporta solo il giallo della ginestra, lì dove il fuoco del vulcano travolge impietoso le meraviglie della natura e i manufatti supponenti degli umani, divenendo esso stesso sublime distruttore.

È la storia di personaggi che subiscono la malia del potere o che ne sono vittime sacrificali, ma tutti assolvono ruoli sociali che accettano come vere e proprie condanne esistenziali e le loro passioni sono primitive, e si piegano a quel vento che li attraversa, sballottati e trascinati come foglie al vento, accettando la sorte che un destino misterioso e incontestabile riserva loro. Alcuni però si ribellano a quella forza invisibile che di generazione in generazione li condanna a un gioco terribile e violento ora di vittime ora di carnefice. Alfonso Gelardi, è un “mannaluoro” e guadagna bene vendendo quel nettare insieme al miele che gli danno le api nere di Sicilia, ospitate da arnie che accudisce Maricchia, la moglie. Tanuzzo, uno dei tre figli maschi, si sottrae al destino di perpetuare quel ruolo; egli vuole vivere, vuole essere libero e va a combattere con Garibaldi per “Tàlia”, che lui credeva fosse la moglie del generale, come anche suo padre a cui era incomprensibile perché rischiare la vita per la donna di un altro.

Anche Francesco scappa da suo padre, un miserabile maniscalco di Cefalù, Angelo Serafino, e il destino sembra arridergli poiché, adottato da Don Vincenzo Ventimiglia diventerà Don Francesco Ventimiglia, quindi ricco e potente. Tuttavia sperimenterà a sue spese che la felicità non si può comprare, né si può fuggire impunemente al proprio destino segnato fin dalla nascita in quella Sicilia dell’’800, bellissima e violenta, dolce come il miele, dura come il ferro e terribile come il fuoco.

Don Francesco rimarrà solo dopo la morte del padre Vincenzo a spadroneggiare nei suoi vasti feudi, dispensando violenze e morte a piacimento sui servi e sui contadini, godendo d’essere sfuggito a quella miseranda sorte che gli sarebbe toccata se fosse rimasto il figlio del fabbro, destinato anche lui a battere il ferro e a proteggere gli zoccoli delle cavalcature.

Alfonso e Maricchia presentano caratteristiche positive, insieme ai figli Nino, l’artista, che si realizza creando dal legno figure, oggetti dalle forme più varie; Mariuzzo, introverso e amante della lettura e della scrittura e infine Romilda l’amata, la bella, l’ammaliatrice perfino delle api che chiama “sorelle” e che ai suoi richiami accorrono ubbidienti: “Poi all’improvviso il ronzio si trasformò in un concerto: dietro ai vetri un intero sciame premeva per entrare. Romilda le lasciò entrare. Assaggiò il dono di nozze delle sue sorelle e si sentì felice.[2] È lei, Romilda, la vera protagonista del romanzo che tiene insieme i destini di tutti gli altri personaggi; è lei che sposerà, ancora giovanissima, Don Francesco e vivrà nell’agio e nel lusso, non smarrendo però la propria identità, anzi, avrà la forza di dominare gli eventi, assumendosi la responsabilità di scelte radicali pur di rimanere fedele alla legge della Natura che richiede amore, delicatezza per ogni esistenza, anche quella che sembra la più inutile, così come le aveva insegnato suo padre. È lei che, come una sacerdotessa, conosce e custodisce i misteri della vita.

Vincenzo Amato e Filippo Pucillo in
Nuovomondo di E. Crialese

Alfonso e Maricchia reggono la prima parte del romanzo: sono forti, instancabili, hanno le idee chiare, sono simpatici al lettore: sono ironici, buoni e dediti al lavoro e alla famiglia. Alfonso soprattutto si muove e parla come Vincenzo Amato nel ruolo di Salvatore nel film “Nuovomondo”, e Tanuzzo, il figlio ribelle, riporta alla mente Filippo Pucillo, nello stesso film, del regista Emanuele Crialese, attori straordinari per la loro freschezza recitativa e la naturalità dell’interpretazione. Ecco, nei dialoghi secchi, essenziali, nella serietà con cui difendono le loro certezze, si possono cogliere quelle stesse espressioni dei due attori siciliani.

‘Mmmammmannamma’

“Ha detto ‘mamma’” urlò Maricchia, commossa.

“ ‘Manna’ “ la corresse Alfonso, serio serio.

“ ‘Mamma’!” ribadì sua moglie, stizzita.

“A mia sembrò ‘manna’.”

A metà del romanzo le due storie si incrociano: quando Romilda è una bambina di 9 anni che ha già manifestato intelligenza e bellezza fuori dal comune, si trovava al mercato di Cefalù con Alfonso, e lì viene notata dal barone Francesco Ventimiglia che invita Alfonso a portargliela quando sarebbe diventata donna. Era stato colpito dalla grazia della fanciulla e la pretendeva, lui che sempre aveva disdegnato le donne.

A questo punto si ha l’impressione che la narrazione assuma le caratteristiche di una favola in cui Romilda assume il ruolo di una vera e propria fata, sia per la bellezza che per la capacità di sapere incidere positivamente su uomini e cose. Ed è questa, credo, la parte più emozionante del libro: il momento che precede l’incontro tra Romilda e Don Francesco. Alfonso, quasi a voler vivere intensamente questo suo ultimo tempo con la figlia, le confida di apprezzarla più dei suoi fratelli, di credere nella sua intelligenza e nella sua capacità perfino di poter apprendere il segreto del suo mestiere. Ed è a lei, infatti, che rivela i segreti della sua arte a cominciare dall’uso sapiente e intuitivo insieme dello “ntaccaluoru”, che serve per incidere sulla pianta di muddiu e ricavarne il prezioso frutto, la manna. E ancora una volta ho dovuto chiudere il libro, sopraffatto dall’emozione e certo, come è successo in precedenza, rallenterò il ritmo della lettura, perché non voglio finire troppo presto questo viaggio magnifico. “La ragazza si fermò interdetta. Suo padre era fatto di carne e di ossa come lei, perché allora sul sentiero c’era un’unica lunga fila di piccolissime impronte, le sue?…’Romilda, è difficile capire, ma ti prego di credere a quello che ti dirò.’ Fece una pausa, sollevò il dito verso l’alto: ‘Io non lascio impronte perché mi comporto bene’. La leggerezza di Alfonso era la diretta conseguenza della sua etica.[3]

Una superba, splendida sequenza che si conclude con il giuramento di Romilda di continuare il lavoro del padre che le affida, come dono delle sue prossime nozze gli strumenti del suo mestiere. E “Romilda ascoltava incantata quel racconto che aveva la magia della fiaba.”[4]

Se vale il romanzo che stai leggendo, al quale dedichi parte del tuo tempo e della tua attenzione, allora quella storia diventa anche parte della tua storia, e quei personaggi ne fanno parte come amici importanti, poiché con loro hai condiviso emozioni, gioie e dolori. E quello che sto leggendo è un romanzo che vale, e allora succede che piango apprendendo, così all’improvviso, che Alfonso è morto, il mannaluoro che accarezzava grato i suoi muddii per la manna che gli davano abbondante, e che a loro volta lo ringraziavano per le sue attenzioni, per le sue cure amorevoli. Romilda apprende la notizia della morte del padre che l’apprezzava più dei suoi figli maschi e, insieme a lei, ho sentito una fitta al cuore, e con lei ho pianto, e parimenti, anche per sua madre Maricchia, costretta senza più forze a rimanere a letto, proprio lei che di coraggio e resistenza ne aveva da vendere. E come non commuoversi per Nino, l’artista, solo come sempre con i suoi legni, che con intarsi e con colpi sapienti sarebbero diventati statue, oggetti, utensili, solo come era sempre stato, in una casa ormai diventata troppo grande. E quando poi compare nella stanza Tanuzzo e incontra Romilda, che aveva lasciato bambina, devo chiuderlo il libro ancora e rimandare la lettura a dopo, perché non distinguo più un rigo dall’altro, una parola dall’altra, perché si muovono tremule e ondeggiano e non riesco a metterle a fuoco.

Le ultime cento pagine del romanzo sono davvero straordinarie. Si entra “nto cuntu” e Giuseppina Torregrossa diventa una “cantastorie” come lo erano gli aedi, con la stessa arte ammaliatrice di Ciccio Busacca, con la stessa capacità affabulatoria di mio nonno che ascoltavo incantato quando mi raccontava di Robinson Crusoe, ed estasiato lo spingevo a continuare quando tergiversava con “e ppoi? Nannu, e ppoi?”. Il ritmo si fa sempre più veloce, gli eventi si sommano agli eventi, faccio delle ipotesi che possano anticipare l’azione; le preoccupazioni per la sorte di Romilda o di Tanuzzo occupano cuore e mente, e gli occhi non si staccano dal testo, correndo di pagina in pagina.


[1] Giuseppina Torregrossa, Manna e miele, ferro e fuoco, Mondadori editore, Milano 2011, pag. 49

[2] Ibidem, pag. 267

[3] Ibidem, pag. 198

[4] Ibidem, pag. 200

Alfonso e Romilda
Verso il bosco dei Muddii

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