Il romanzo-manifesto dell’esistenzialismo francese
Alfio Pelleriti

Con il termine “Nausea”, Jean-Paul Sartre, lo scrittore e maggiore rappresentante dell’esistenzialismo francese, indica lo stato in cui si ritrova l’individuo che osserva se stesso, gli altri e la realtà dopo avere analizzato ogni atto, ogni parola o gesto, ogni elemento della realtà in cui vive: un senso di vuoto e di impotenza lo avvinghia, percependo la sua esistenza come cosa tra le cose, ridotta a semplice contingenza che dà solo angoscia. Esistere allora è “esser lì”, in un contesto in cui non v’è niente di necessario o di necessitato, dove la contingenza è l’assoluto. Essa è “gratuita”, è lì e non vuole altri discorsi o spiegazioni.
Il romanzo, composto nel 1932 e riveduto più volte, fu pubblicato nel 1938. Protagonista della vicenda è Antoine Roquentin, studioso di storia che vive a Bouville, una città dal nome inventato ma che verosimilmente è Le Havre, lì dove Sartre visse in quegli anni. Roquentin, “Io narrante” e voce dell’autore, si reca quotidianamente in biblioteca dove conduce delle ricerche, lì dove si incontra con l’Autodidatta, dalle convinzioni antitetiche a quelle di Roquentin. Il romanzo si presenta sotto forma di diario in cui il protagonista segna le sensazioni che gli suscitano le persone che incontra, ma anche quelle che gli destano le piante, gli animali, l’architettura delle case, i muri e gli oggetti in generale. Per quanto riguarda le relazioni umane Roquentin sottolinea come tutti avvertano la necessità di essere coerenti con il proprio ruolo sociale e con le aspettative del gruppo di riferimento e dunque ognuno farà le sue scelte in funzione di tale ruolo, magari calpestando la libertà degli altri, la loro dignità; o mentirà, ordirà tranelli, pur di dare risposta a quell’Altro che lo abita e che scalcia, che irrompe giorno e notte nella sua vita e che diventa sempre più tirannico man mano che invecchia. Egli infatti non sorride più come da giovane e i discorsi del saggio, le omelie del sacerdote la domenica lo infastidiscono, anche se non le contesta, limitandosi allo sbadiglio, innocente, senza colpa, elegantemente trattenuto.
Le storie di uomini e donne, sembra dire l’autore, si appiattiscono e le differenze che ciascuno cerca di marcare sono soltanto velleitari tentativi di affermare vuote individualità, illudendosi di aver vissuto eroicamente e che i loro parenti conserveranno un ricordo del loro passaggio in questa vita. L’esistenza di ognuno diventa dunque una lotta per fermare degli istanti che si vogliono mettere insieme per bloccare pezzi di vita significativi, accadimenti ai quali si dà un valore eccessivo, li si riempie di senso che non hanno; li si vuole tirar fuori dal magma inarrestabile del tempo, invano: “La sua camicia di cotone azzurro spicca allegramente sulla parete color cioccolato. Anche questo dà la Nausea. O piuttosto, è la Nausea. La Nausea non è in me: io la sento laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt’uno col caffè, son io che sono in essa… Le pietre son dure e non si muovono…la stazione vecchia…una vecchia che si rialza il fazzoletto sulla testa…le tre segherie dei Fratelli Seleil…un rigagnolo…il manifesto stracciato…gente che beve e che gioca a carte nelle birrerie…il rombo delle automobili, le grida, gli abbaiamenti. La Nausea è rimasta laggiù, nella luce gialla.”[1] È triste e amaro questo romanzo filosofico di Sartre, con il quale vuole sottolineare la banalità del vivere, il dolore profondo che connota l’esistenza degli uomini che sono costretti a lottare anche contro la propria razionalità che, libera da condizionamenti, squadernerebbe loro la verità sulla loro finitudine, sui loro balbettii che codificano in formule, in versi, in trattati, ergendo monumenti a eroi costruiti, di cartapesta, solo per auto illudersi di potere conquistare l’immortalità in questo mondo o in una dimensione altra, trascendente la loro esistenza.

Sartre/Roquentin descrive comportamenti di individui che cercano disperatamente la propria autoaffermazione, strumentalizzando gli altri: la moglie, il marito, l’amante, il politico, il funzionario statale, il capufficio, il regista, il produttore, il dottore, l’artista affermato, ecc., pur di salvare se stessi dall’anonimato, pur di avere qualche momento di gloria. Quei momenti gli basteranno per auto illudersi. Tuttavia ognuna di quelle “pedine” ha, a sua volta, un proprio progetto di vita, altrettanto crudele ed egoistico e amorale all’interno del quale gli altri sono soltanto cose, strumenti, e l’ipocrisia e la menzogna costituiscono il brodo di coltura essenziale per il raggiungimento della “vittoria”. “L’inferno sono gli altri” dirà uno dei quattro personaggi nell’opera teatrale “A porte chiuse” che Sartre pubblica nel 1944, un periodo in cui anche Pirandello muoveva da identiche considerazioni, approdando allo stesso amaro pessimismo, convinto dell’impossibilità per l’uomo di raggiungere una serenità esistenziale, se non indossando una maschera per poter svolgere un ruolo nel teatro della vita.
Sartre espone, attraverso Roquentin, il nucleo pulsante della sua filosofia: dopo aver esaminato la propria esistenza nella relazione con gli altri, con gli oggetti del contesto fisico in cui vive, con gli eventi storici e con fatti culturali (da notare le pagine sull’umanesimo e sull’esistenza), il suo eroe approda alla convinzione della mancanza di un Logos o di una qualsiasi Sostanza, assumendo solo la certezza della propria angoscia: “Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione d’esser lì, né gli uni né gli altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto, si sentiva di troppo in rapporto agli altri”.[2]

Viene il momento in cui il lettore si chiede se il suo pensiero o la sua fisicità possano costituire un punto di partenza, una certezza, per poi passare, di elemento in elemento, ad una costruzione logica, filosofica, che porti a una qualche struttura logica sottesa alla vita, con approdi materialistici, idealistici, spiritualistici, purchè, si trovi un fondamento su cui poi costruire un “edificio”, una visione complessiva. Come Cartesio, che partì dal dubbio radicale che faceva piazza pulita di tutte le certezze, anche del sapere matematico, ma che poi concludeva con il “Cogito ergo sum”, e da lì, mattone dopo mattone costruì la sua filosofia; così come Kant che, prima di costruire il suo sistema, criticò i paralogismi della ragione e le antinomie delle supposte verità indubitabili, ribaltando la tradizionale separazione e autonomia assoluta tra Soggetto e Oggetto, affermando il concetto di un Io “a-priori”, trascendentale, oltre le categorie di trascendenza e di immanenza.
Sartre supera tali posizioni mettendo in dubbio lo stesso rapporto mente/corpo. Il suo è un Io che non si identifica con il suo “corpo-contenitore”, che assume i connotati del grottesco e dell’assurdo, che va oltre il concetto del corpo come “prigione” del pensiero: le mani Roquentin le muove e gli sembrano due strani animali che vivono indipendentemente dal suo Io e così le altre parti del suo fisico: “Vedo la mia mano che si schiude sul tavolo. Essa vive – sono io. Si apre, le dita si spiegano e si tendono. È posata sul dorso. Mi mostra il suo ventre grasso. Sembra una bestia rovesciata. Le dita sono le zampe …”[3]. Sartre afferma inoltre l’indeterminatezza di qualsiasi astrazione intellettiva, che sembra luminosa alla mente ma ha la brevità del bagliore del fulmine in un cielo cupo dove si scatenerà la tempesta: essa appare e subito scompare. Lo scrittore, il poeta, il filosofo prendono la penna, inforcano gli occhiali, si mettono davanti il foglio bianco per segnarvi parole adeguate ma, quando finalmente scorre l’inchiostro, le parole si rivelano inefficaci e il già scritto sembrerà insensato, non corretto e ciò che rimane sarà ancora un senso di angoscia: “I pensieri, non c’è niente di più insipido. Ancora più insipido della carne”.

Ma è nella parte finale del romanzo che Sartre butta giù le sue carte e, dopo aver espresso al suo interlocutore/antagonista, l’Autodidatta, il suo parere del tutto critico sull’umanesimo, rivelandone ambiguità, velleitarismo, ipocrisia e contraddizioni, mette in chiaro il motivo per cui viene spesso invaso dalla Nausea, da un bisogno irrefrenabile di vomitare, dalla necessità di rigetto nei confronti di una realtà con tutti i suoi “enti”, animati o inanimati, tra cui uomini e donne, piante e animali e agenti atmosferici che contribuiscono a creare l’illusione dell’esistenza di un’energia vitale e necessaria, di una logica sottesa nel movimento portato dal vento, nello scuotersi degli alberi, nei mari in tempesta o sulla terra scossa dai terremoti. La vera essenza della vita è solo la sua contingenza, con la sua “gratuità”, cioè con la mancanza di necessità e men che meno di un Logos o di un Essere che necessita il Tutto: “Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione d’esser lì, né gli uni né gli altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto, si sentiva di troppo rispetto agli altri”.[4]
Di fronte a tale provocazione il lettore non può sottrarsi, deve dare una risposta e io non mi sottraggo. Anch’io mi sono trovato ad osservare la radice di un albero che invade un sentiero e sono rimasto sbigottito dalla forza invasiva di quell’esistenza, e perplesso sono rimasto nel vedere i tanti ninnoli e i costosi oggetti in ceramica che fanno mostra di sé sui mobili buoni di case borghesi, e anch’io ho assistito a barbariche manifestazioni di folle urlanti in abiti discinti sotto un enorme mascherone carnascialesco portato in processione come una divinità orgiastica, dove tutti obbligano se stessi ad essere allegri, e tuttavia non mi spingo fino alla condivisione dell’analisi di Sartre che, a tratti, sembra quella di un uomo che si è dato totalmente al “principe del mondo”, all’artefice del male che cerca, in ogni fase della storia dell’uomo, di spezzare l’armonia, di instillare veleno in corpi sani perché la malattia li corroda fino a trasfigurarli prima della loro morte disperata. Niente spiritualità, niente speranza, niente fede in Dio in questo romanzo che dipinge l’esistenza di uomini e donne come il mio amico Pippo Coco, con serpenti al posto delle lingue, con vermi al posto dei capelli, con folle di uomini simili ad automi, contenti delle loro semplicistiche conclusioni sulla loro vita grama.
E giunto quasi alla fine del romanzo ho voglia di dire basta con la Nausea. In questa vita c’è il male, quello sottile dico, quello di chi tradisce, quello dell’opportunista, quello del vile che invidia chi ha coraggio e lo vuole morto o a terra malmenato! Certo che c’è il male: quello del più forte che sfrutta e schiaccia il debole, quello che gode della sofferenza altrui, quello dei ricchi epuloni mai sazi di denaro, il loro Dio! Ma ora basta con la tua Nausea, con la maiuscola! Con le tue rivincite sui borghesi contro cui proponi l’angoscia dell’esistenza.
Non sento alcuna nausea al mattino quando il sole purpureo fa capolino tra i cirri e le sagome ondivaghe dei monti all’orizzonte; né la sento quando guardo gli occhi dolenti del cagnolino afflitto per la morte della sua giovane padrona; piango di commozione quando sul viale che costeggia il mare, due ragazzi si tengono per mano e guardandosi accennano a un sorriso pieno di gioia, di lealtà, d’amore; non sento la tua nausea quando sono nella casa del Signore e ai piedi della Croce trovo sostegno, amore, comprensione e guardando quelle piaghe scompaiono i miei dubbi, torna a battere il mio cuore e negli uomini vedo i miei fratelli e lo sguardo degli altri lo sostengo, non mi turba. Anch’io ho provato amare delusioni, anch’io dal dubbio sono attraversato e tormentato alquanto, durante notti insonni, ma in questo mio viaggio non sono solo. No, non m’accompagno con infingardi e traditor del vero, ci sono anche gli eroi che per quegli ideali, che tu deridi coprendoli di nero umore, hanno lottato e sono morti, e anche nel tuo tempo c’erano operai, contadini, giovani poeti e onesti borghesi che presero il fucile e si unirono nella lotta contro gli oppressori e affrontarono impavidi la morte, la tortura, sorretti da ciò che la coscienza suggeriva essere un dovere etico, morale: quello di lottare per la libertà e per la dignità delle persone. Erano uomini e donne che avevano una fede, padri e madri che lottarono per dare un roseo avvenire ai loro figli, senza lambiccarsi il cervello con nausee intellettualistiche. Anche tu l’hai capito quando sei entrato nella Resistenza, dando il tuo contributo per la liberazione del tuo popolo dal tiranno invasore.
[1] Jean-Paul Sartre, La nausea, Biblioteca del Novecento, Fabbri editore, pag.43
[2] Ibidem, pag.173
[3] Ibidem, pag. 135
[4] Ibidem, pag. 173