Quando la modernità la scopri già nell’Ottocento
Alfio Pelleriti
Rimandavo da tempo la lettura di questo romanzo e in un pomeriggio particolarmente uggioso mi sono deciso a tirarlo fuori dal suo spazio nella libreria in alto per poggiarlo sul tavolo del mio studio. Ho cominciato a scorrere le prime pagine senza tanti entusiasmi, convinto di trovarvi prima o poi dei personaggi che si avvicinassero al mio umore che stava raggiungendo livelli infimi. Aspettavo insomma di scaricare la mia tensione con l’autore del romanzo che pensavo dovesse avere una visione alquanto cupa della realtà per avere scelto un titolo che non apriva ad alcuna prospettiva positiva. Ma quale stupore nel constatare che, leggendo pagina dopo pagina, mi sentivo rilassato oltre che interessato alla storia, ambientata nella Russia zarista di metà Ottocento. Si è creata subito una vera e propria empatia con lo scrittore che, con garbo, spesso si rivolge al lettore anticipandogli quel che pensa sul protagonista e sulle sue scelte, oppure si scusa quando presenta un personaggio, una situazione o descrive uno scorcio del paesaggio lasciando in sospeso il racconto.

Pavel Ivanovic Cicikov è il protagonista della vicenda, un uomo furbo che intende farsi strada nella società russa sgomitando e aggirando le convenzioni, le leggi e la voce della coscienza. Insomma, un arrivista senza scrupoli che vuole entrare nel bel mondo dell’aristocrazia eliminando tutti i possibili ostacoli con furberie, menzogne, tranelli.
Lasciato il lavoro di impiegato, cerca di diventare ricco e potente ricorrendo ad un piano truffaldino che gli possa consentire in pochi anni di diventare un possidente con centinaia di servitori alle sue dipendenze: si farà concedere dei prestiti dalle banche o dai privati presentando come garanzia la proprietà di centinaia di servi della gleba, come se fosse un grande proprietario terriero. Inizia dunque un viaggio nel vasto territorio di Pietroburgo presentandosi ai proprietari terrieri come un uomo d’affari e proponendo, dopo aver carpito la loro fiducia, l’acquisto delle loro “anime morte”, cioè di quei servitori deceduti, non ancora censiti, che risultavano ancora formalmente in vita. Insieme a Cicikov, prototipo dell’arrivista senza scrupoli, si incontrano tanti altri personaggi minori: proprietari terrieri, generali in pensione, governatori di provincia, pubblici dipendenti, servitori, tutti più o meno corrosi interiormente, privi di riferimenti morali e di coscienza civica, tanto che nel corso della lettura spesso a tale umanità si tenderebbe di affibbiare l’espressione “anime morte” a sottolinearne la totale mancanza di fremiti ideali.[1]
I tempi della narrazione, scanditi da capitoli non troppo lunghi, aiutano il lettore e non lo stancano, come sa bene il bravo affabulatore che sa come dosare i vari elementi che costituiscono il racconto. E il lettore ricambia tale benevolenza con un dolce sorriso che certo può improvvisamente mutare con un abbassar di ciglia o con un improvviso strabuzzar degli occhi, ma non scompare del tutto, come non scompare il fuoco nel camino sotto lo sguardo vigile del padrone di casa che ha rispetto per l’ospite che gli ha fatto visita: “In marcia, in marcia! Via la ruga dalla fronte, via dal viso l’ombra severa! Gettiamoci a testa bassa nella vita, con tutto il suo sordo scricchiolio e le sue sonagliere, e vediamo cosa fa Cicikov.”[2]
Il romanzo, pur essendo stato scritto alla fine degli anni Trenta dell’Ottocento, possiede una forza interna tipica del romanzo contemporaneo, tanto da poter essere definito di “denuncia” o espressionistico nella parte finale. Così come è da sottolineare la modernità nella costruzione della vicenda che avvicina il romanzo ad una sceneggiatura: il lettore sarà informato sulle note biografiche del protagonista solo oltre la metà della storia, fino a quel momento egli si limita a seguire le indicazioni dello scrittore e registrare le azioni di Cicikov sospendendo il suo giudizio, ma obbligato a memorizzare le sue azioni, i suoi incontri, le sue scelte.
Questa tecnica narrativa in cui il lettore viene continuamente coinvolto e al quale Gogol chiede di seguirlo con attenzione poiché poi sarà chiamato ad un giudizio finale, sorprende e coinvolge insieme. «Sì, cari i miei lettori, voi non vorreste veder ritratta la pochezza umana. “Perché”, dite voi, “a che serve? Forse non sappiamo anche noi che nella vita c’è molto di spregevole e sciocco? Raccontateci piuttosto qualcosa di bello, di divertente, fateci distrarre un po’!”»[3] e subito gli preme però dire ai suoi lettori qual è la sua idea sulla creatività, sulla letteratura, sul ruolo dell’intellettuale: «Perché nascondersi dietro un dito? Chi, se non l’autore, deve dire la sacrosanta verità? Voi temete uno sguardo troppo penetrante, avete voi stessi paura di scrutare troppo in profondità, vi piace sfiorare le cose con occhi distratti. Magari ridete di Cicikov, o perfino lodate l’autore dicendo: “Certo bisogna convenire che in provincia c’è gente davvero strana e anche farabutti niente male!” Ma chi di voi, ragionando tra sé nei minuti di raccoglimento, saprà rivolgere a se stesso con umiltà cristiana la difficile domanda: “Non ci sarà anche in me qualcosa di Cicikov? Ma lascia che in quel momento gli passi accanto un conoscente, subito darà di gomito al vicino e gli dirà, quasi soffocando dal ridere: “Guarda, guarda Cicikov! Sta passando Cicikov!”».[4]
Cicikov rappresenta quella parte di russi che si sottrae alla responsabilità di un buon governo, dandosi all’individualismo i cui effetti sono inevitabilmente la corruzione, la concussione, la mancanza di riferimenti etici, ma rappresenta anche ciascuno di noi o per lo meno quella parte del nostro Ego che, lasciato in balia delle pulsioni più basse, dimentica il bene per votarsi completamente ad una vita monotona e greve.
Gogol prende subito le distanze dal suo “eroe” deridendolo con elegante ironia che sortisce effetti anche comici, ma che spesso diventa caustico sarcasmo, sfiorando anche il grottesco. Cicikov, alle tentazioni non oppone alcuna resistenza e sceglie la via più facile per ottenere risultati, quella cioè di rinunciare all’onestà e alla dirittura morale, agli ideali civici e religiosi, tacitando la voce della coscienza e praticando deliberatamente il male. Ma proprio quando crede di avere raggiunto il suo scopo ecco giungere la “punizione” per l’uomo che credeva di poter mettere nel sacco chiunque fidando ciecamente nella propria furbizia: è scoperto ed è arrestato perdendo tutto quello che aveva accumulato. E siamo alla seconda parte del romanzo e al momento in cui Gogol rivela al lettore la sua visione del mondo e cosa gli arde in cuore in quel periodo della sua vita, gli anni ’40 dell’Ottocento, quando la fede in Dio gli occupa mente e cuore. Parla per bocca di Murazov, un possidente illuminato e un fervente cristiano che vuole salvare Cicikov, scoperto e arrestato, disperato e piangente, suggerendogli di affidarsi a Dio, cercando di fargli capire che scegliere la via del male conduce a sicura sconfitta e alla disperazione ma che tuttavia un sincero pentimento può portare ad una conversione e alla scoperta che la via maestra indicata da Gesù, la pratica del bene, cambia il proprio essere e gli altri non si percepiranno più come nemici o semplici pedine insignificanti ma come fratelli da aiutare, se occorre.

Attraverso le sue parole l’autore lascia il suo testamento spirituale: “Pavel Ivanovic, l’importante non sono gli averi… stabilitevi in un angolino tranquillo, vicino a una chiesa e a gente semplice e buona, sposatevi con una brava ragazza povera, abituata a lavorare e risparmiare… voi non amate il bene: fatelo senza amarlo, a forza! Ve ne sarà dato merito ancora maggiore di quello che spetta a chi compie il bene amandolo…Pavel Ivanovic, fino a quando la gente non si preoccuperà della propria ricchezza interiore, smettendola di occuparsi delle cose per le quali ci si azzuffa e ci si sbrana qui sulla terra, non ci sarà nessuna ricchezza e nessun benessere terreno…Non pensi alle anime morte pensi alla sua anima immortale e vada con Dio per un’altra strada.”[5]
“Le anime morte” è un grande romanzo con forti tratti di modernità. Il richiamo all’onestà, al rigore nello svolgimento del proprio lavoro, sono elementi che aprono ad un rinnovamento culturale, al tentativo di scuotere le coscienze da una passività patologica, da una rassegnazione cronica alle ingiustizie: si notino in proposito le denunzie nel testo contro gli addetti alla pubblica amministrazione e ai cattivi insegnanti che preferiscono una buona condotta e la disciplina alla partecipazione intelligente in classe, ai risultati didattici, alla qualità dell’istruzione e della formazione[6].
Che cos’è questo romanzo? quale il tema di fondo? E quale collocazione dare a Gogol con questo suo unico romanzo e con i suoi racconti e commedie (Taras Bul’ba, Racconti di Pietroburgo, Arabeschi)? Si potrebbe rispondere che Gogol sia nostalgico di un governo paternalistico e dunque fautore di un assetto politico conservatore ma abbastanza forte da aprirsi alle innovazioni e ad una apertura alla borghesia e alla mentalità imprenditoriale, permettendo alla Russia uno sviluppo economico rapido e in grado di mettersi al pari dell’Occidente. Insomma un’apertura al capitalismo sebbene diretto dall’alto, con un potere forte garante dei valori tradizionali. L’altra interpretazione possibile si coglie nella seconda parte del romanzo e in quella conclusiva: un messaggio di un fervente scrittore cristiano che vuole indicare agli uomini i valori della carità e della solidarietà, della temperanza e della giustizia, oltre che la presentazione di una visione mistica del mondo con un ruolo preponderante dato alla preghiera, alla liturgia delle celebrazioni, dell’apertura al prossimo che vive nel peccato e che viene attratto dalle tentazioni di costruirsi un paradiso in terra, con l’accumulazione di ricchezze, con la conquista e la gestione del potere, godendo del lusso e dei piaceri, senza remore morali, in un completo e radicale individualismo.
Pagine stupende sono quelle dedicate dall’autore alla Russia che descrive dopo essersi arreso alla commozione, a un sentimento nostalgico e struggente che lo avvicina al “realismo magico” di Gabriel Garcia Marquez in “Cent’anni di solitudine”. Descrive la vastità degli spazi, privi degli incanti di paesaggi colmi di estatici particolari, di incantevoli colori, di magiche sonorità. La sua Russia, invece, si presenta con i suoi silenzi e la sua omogeneità immensa al visitatore che può soccombere a quella vastità senza limite. Ma chi vi è nato sente nel suo essere tutte le drammatiche vicende della sua storia, percepisce la bellezza profonda di quella vastità da cui gli arrivano i palpiti, le sofferenze, le disillusioni del popolo russo, sempre in cerca di una guida: “Niente può attrarre e incantare l’occhio. Eppure che forza nascosta, misteriosa attrae verso di te? Perché echeggia silenziosa all’orecchio la tua malinconica nenia, che risuona da un polo all’altro, da un mare all’altro? Cosa c’è nel tuo canto? Chi chiama, chi singhiozza, chi mi prende il cuore? Quali suoni dolenti accarezzano la mia anima e aleggiano intorno al mio cuore? Cosa vuoi da me, tu vecchia Russia mia? Quale incomprensibile, ascoso legame è tra noi?”[7] Questa sua dichiarazione d’amore per la Russia è una pagina che da sola basterebbe a fare abortire ai tanti “apprendisti stregoni”, qualsiasi velleitario progetto di scrivere un romanzo. Tuttavia il suo sentimento non è quello di un innamoramento cieco e ottuso che gli impedisca di cogliere i limiti e le contraddizioni della sua patria, i comportamenti ipocriti e amorali dei suoi conterranei. Tale esigenza moralistica approda ad una significativa tensione mistica che indica nella fede in Dio e nella preghiera la soluzione ai profondi problemi esistenziali degli uomini. L’ironia ancora la si ritrova ma stilla lacrime amare e anche il lettore avverte infine il dolore e la rabbia dell’autore e gli si mette accanto a sorreggerlo e a concedergli quella solidarietà di cui aveva bisogno il quarantenne Gogol’ che soffriva di una grave psicosi maniaco depressiva che lo faceva passare da momenti di forte entusiasmo a gravi depressioni che lo porteranno a bruciare la seconda parte del romanzo e alla drammatica decisione di non alimentarsi, avviandosi verso un suicidio “bianco”. Morirà a Mosca il 4 marzo 1852.
Breve biografia
Nikolaj Gogol’ nacque nel 1809 a Poltava, attuale Ucraina, da una famiglia benestante. Manifestò fin dagli anni liceali la passione per la scrittura che affinerà nel tempo divenendo uno dei maggiori scrittori russi. Particolarmente apprezzato da Bulgakov e da Dostoevskij. Il suo genere preferito fu il racconto e la commedia. Scrisse un unico romanzo: “Le anime morte”. Lavorò nell’amministrazione pubblica ed ebbe una breve esperienza di insegnamento come professore associato di storia all’Università di Pietroburgo. Lasciata tale esperienza lavorativa si dedicherà esclusivamente alla scrittura a partire dagli anni Trenta. Dal 1835 al 1842 viaggerà in Europa recandosi in Francia, in Svezia, in Germania e soprattutto in Italia, (si stabilirà a Roma), fino al 1845. Da quel momento in avanti entrerà in una depressione psicologica accentuata da incomprensioni con gli editori e con la critica. Morì a Mosca nel 1852 dopo aver bruciato la seconda parte del romanzo, che sarà ricostruita attraverso i suoi diari e gli appunti.
[1] Ascolta il file sonoro inserito in coda all’articolo “relazioni sociali di un burocrate”
[2] Nikolaj Gogol’, Le anime morte, Gruppo editoriale L’Espresso, Roma 2013, pag. 132
[3] Ibidem, pag. 243
[4] Ibidem, pag. 244
[5] Ibidem, pag. 364
[6] Ascolta il file sonoro “Il cattivo maestro”.
[7] Ibidem, pag. 220 Ascolta il file sonoro in coda all’articolo “La Russia”
Non si può che essere grati al prof. Pelleriti per le riflessioni che egli ci offre prendendo spunto dalla lettura del romanzo di Gogol, e ancora più grati allo scrittore che più mirabilmente ha creato nel romanzo il terreno fertile su cui l’intelligente lettore può specchiarsi. E allora leggere non deve essere guardare e curiosare dalla finestra sul mondo, come per pettegolare, bensì specchiarsi nel libro per riflettere su sé stessi e metabolizzare un rinnovato senso di esistenza.
Modernità? Certamente, anzi contemporaneità già presente nell’Ottocento per la tensione alla scalata sociale del protagonista, Cicikov, spregiudicato arrampicatore ipocrita e falso, come tante “anime morte”dei nostri giorni, chiuse nel proprio tronfio individualismo, terrorizzate anche solo al pensiero di scrutarsi dentro troppo in profondità perché scoprirebbero di essere individui vuoti e assenti a sé stessi.
In verità già prima di essere arrestato, Cicikov era in prigione nel baratro del proprio egoismo, nella gabbia del calcolo fraudolento e meschino, dietro le sbarre della menzogna e della finzione, per cui l’arresto non è stato che l’epilogo manifesto e visibile di quanto da tempo si consumava giorno dopo giorno nella morte della sua anima.
Possiamo perciò dire che davvero non tutti i Cicikov stanno in galera, che anzi i più trascinano la loro monotona, greve e vuota vita per le strade, i palazzi e i mille luoghi delle nostre città, salvo divenire visibili, a volte, nelle cronache, destando, ohibò, scandalo nei ben pensanti!
Certamente curiosità di conoscere e di conoscersi, anche voglia di tirarsi fuori dalle secche dell’accidia dell’anima; anelito, soprattutto, a migliorarsi interiormente e civilmente, sono ottime motivazioni a leggere, a leggersi dentro e a relazionarsi con l’altro senza sbranarsi da nemici, secondo lo spirito dell’homo homini lupus.
Ma chi, e fino a che misura, un amministratore pubblico o privato è disposto a confrontarsi con senso critico e autocritico con romanzi siffatti?
Quale commercialista o medico o datore di lavoro o partita IVA o semplice dipendente può sopportare tale lettura attiva di confronto incisivo e doloroso con la propria condotta civile e relazionale, senza rivoltarsi contro la proposta medesima accusando chi la fa di donchisciottismo utopistico e irrealista?
I “fremiti ideali”, caro Prof., oggi sono diventati un lusso, perla rara, e la sola pratica del bene per la quale vibrano cuore e mente è quella per i propri appetiti insaziabili di potere egemonico sugli altri!
Ecco perché mi torna ancora sempre più attuale il detto di un vecchio socialista francese di nome Charles Peguy, secondo il quale la “la rivoluzione o sarà morale o non sarà affatto”, perché deve sostanziarsi di tensione spirituale, umana, empatica, personale, perciò di preghiera, sacralità e servizio umile e fraterno.
In alternativa a tale tensione resta l’annientamento individuale e collettivo, la catastrofe finale che nega e cancella il futuro per noi e per i nostri figli.
Povero Cicikov, povera disperata Umanità!
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Grazie al prof. Neri per il suo commento e per la sua appassionata, costante attenzione alle nostre pubblicazioni.
Nel merito delle sue considerazioni non posso che condividerle. In particolare, sulla questione morale e sulla necessità di porre attenzione alle questioni culturali in tutte le variabili possibili, usciranno degli articoli a breve, poiché ritengo siano problematiche prioritarie per chi ha responsabilità educative e amministrative.
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