Alfio Pelleriti

Si evidenzia, nella seconda parte del romanzo, un passaggio graduale ma significativo verso una riflessione ancora più profonda sull’uomo e sui suoi comportamenti. E si chiede il Nostro in che misura essi siano il risultato di scelte libere o determinate invece da forze che vanno oltre la volontà dei singoli individui. In tale contesto l’affannarsi dei suoi personaggi intorno al salotto di Diotima e all’associazione “Azione parallela” o “Patriottica”, come la definisce di tanto in tanto, non è affatto importante, anzi il lettore comprende che è stato semplicemente un espediente narrativo, un’impalcatura attorno alla quale fare sfilare i suoi personaggi per trarre spunto per ciò che invece lo scrittore ritiene essenziale: il rapporto tra libertà e determinismo e insieme una riflessione sui sentimenti. Un’altra convinzione dello scrittore che spesso emerge dalle considerazioni di Ulrich, il protagonista con il quale Musil si identifica, è che la realtà di una comunità nazionale si sviluppa secondo regole antiche, ancestrali, che vanno oltre le parole degli intellettuali o dei politici idealisti, i quali si illudono che le formule astratte che vengono prese a prestito dalla filosofia o dalla morale o dalle interpretazioni storiografiche, possano portare a cambiamenti significativi nella gestione economica, sociale, culturale di una comunità. Tale pretesa spesso evapora di fronte a governi o perfino ad individui che agiscono secondo quanto detta loro l’energia pulsionale più profonda, istintuale, egoistica. Si agisce allora non tenendo conto dei valori ideali; si va oltre l’etica e la morale, si saltano a piè pari i valori religiosi, quelli che magari si usano come strumenti per spostare il consenso popolare guidandolo verso il potente che governa i popoli come un Leviatano. E l’individuo entra nell’anonimato della massa assumendo un’altra pelle un altro sentire. “Non può ritenersi più malsicuro l’albero che lotta nel bosco protetto dal bosco di quanto gli uomini sensibili oggi non sentano l’oscuro calore della massa, la sua forza motrice, gli invisibili processi molecolari della sua inconscia coesione, i quali a ogni respiro ricordan loro che né il più grande né il più piccolo sono soli.”[1]
Il romanzo allora assume tutte le caratteristiche di un trattato di filosofia, lasciandosi andare lo scrittore ad analizzare le pieghe più profonde delle reazioni sentimentali o semplicemente emotive che scattano tra individui e nel sottolineare tutte le variabili che entrano in gioco nel rapporto tra il singolo e la comunità.
“…quanto più uno è capace di dimenticare se stesso, di cancellarsi, di guardarsi con distacco, tanto più cresce in lui la forza disponibile per la comunità, come se fosse liberata da un legame sbagliato; e nello stesso tempo, più egli s’avvicina alla comunità più deve diventare se stesso… salire verso gradi sempre più alti di partecipazione e di dedizione, forse fino al grado sommo di una comunità di perfetti Senza-Io.”[2]
E ancora degna di nota la riflessione sull’uomo borghese che in fondo anela ad inserirsi nella mediocrità in cui è immersa la massa. Diventare “normali” è il grande desiderio, perfino la speranza: “Augurava di superare ancora in mediocrità la grande mediocrità umana su cui si regge la vita, senza accorgersi della contraddizione contenuta in quel voto.”[3]
Lo scrittore del dubbio si potrebbe definire Musil, o il letterato filosofo così come Kierkegaard o Schopenhauer o Nietzsche o Leopardi o Montale. Le riflessioni sullo “spirito”, per esempio, sono esternate con tono serio e vibrante: niente ironia, nessuna ambiguità, ma giudizi taglienti e senza appello rispetto al governo della cosa pubblica e del ruolo di ciascun individuo nella edificazione e nello sviluppo della società. Analisi, invero, pessimistica ed elevata di un intellettuale, oltre che di un superbo scrittore. Del resto si può affermare senza tema di smentita che questo romanzo non è per tutti i palati: è difficile e complesso, elegante ed aristocratico, alto quanto a riflessioni psicologiche, politiche, filosofiche. “Quando si ama tutto è amore, anche se è dolore ed orrore. Il ramoscello sull’albero e il vetro pallido della finestra nella luce crepuscolare diventarono un’esperienza profondamente celata nell’intimo.”[4]

Il romanzo si presenta come un’epopea di cui lo stesso scrittore è il protagonista e che si svolge come un viaggio attraverso la psiche dell’uomo. Dunque non un trattato asettico di psicologia, né l’esigenza di uno storico che voglia, con la pervicacia dello studioso, esaminare atti d’archivio, infinite bibliografie sull’argomento da trattare, e neanche costituisce uno strumento che consenta all’autore di lasciarsi andare con la fantasia e con l’estro del narratore, interessato a meravigliare con arguzie, passaggi poetici, intrecci delle vicende, il lettore. È un viaggio attraverso l’uomo e attraverso se stesso, sebbene non come l’Ulisse omerico che è quello dell’eroe saggio che sa leggere il reale senza farsi dominare dall’istinto per potere aggirare perfino l’ira degli dei e potere infine raggiungere la sua meta: Itaca. Non è neanche l’Ulisse dantesco che riprende il viaggio dopo il ritorno in patria con quella “compagnia picciola”, “per divenir del mondo esperto”. E infine, non è l’Ulisse di Joice che fa consistere il suo viaggio nel darsi alla vita per osservare se stesso in un giorno qualsiasi senza aspirare a nulla se non a registrare la reattività agli stimoli esterni, prestando attenzione al flusso ininterrotto della coscienza.
E poi la parte più affascinante, splendida, poetica di tutto il romanzo, quella finale, quella dell’amore impossibile tra Ulrich e la sorella Agathe, che comincia con lo sconvolgimento emotivo di lei che pensa al suicidio, invasa da un senso di colpa che la opprime: “La chiesetta suburbana scampanava già da un bel pezzo, ma Agathe se ne accorgeva solo ora, e tosto sentì quanto quei suoni inutili, che solcavano appassionatamente l’aria, esclusi dalla buona fertile terra, fossero affini con la sua vana esistenza. In fretta riprese il cammino e lasciandosi indietro le ultime case, sempre seguita dallo scampanio che adesso non le usciva più dagli orecchi, giunse ai piedi delle colline che in basso erano coperte di vigne e di radi cespugli che bordavano i sentieri, mentre in alto occhieggiava il verde chiaro del bosco… le sembrava di non aver mai sentito suonare le campane in un giorno qualunque. Ma di tutte le lingue della città dalle mille voci quest’era l’ultima che le parlava, e aveva qualcosa di travolgente, come se dovesse sollevarla e portarla su per il monte, ma poi ogni volta la lasciava andare e si perdeva in un piccolo rumore metallico, per nulla superiore agli altri rumori della campagna, ronzii, stridi, sussurri.”[5]
Del resto, l’interesse e l’apprezzamento per il romanzo dipende in massima parte dallo stato d’animo del lettore. Se egli rimugina pensieri ossessivamente gravi e angosciosi, se la sua mente è occupata da un problema che l’assilla, non potrà certo entrare nella dinamica della narrazione, non potrà apprezzare né le ambientazioni e neanche le vicissitudini dei personaggi, e oltremodo pesanti e baroccheggianti gli sembreranno gli interventi dell’autore che commenta l’azione delle sue creature. Oggi, ad esempio, che mi sento in pace con il mondo, che i fantasmi della notte si sono dissolti al lucore delle foglie baciate dal sole insolitamente caldo, seguo con interesse e preoccupazione Agathe che vaga per le campagne austriache in cerca del posto giusto per porre termine alla sua vita, distratta dai gesti semplici e sapienti dei contadini e dalle meraviglie naturali che sembrano fare da cornice a quel suo incedere non deciso, non distratto, non distante dalla vita. “Immaginava un risveglio dopo la morte, vicino a Dio, verso forze pronte ad accoglierla, o semplicemente a lato della vita verso un’estinzione delle idee e un trapasso a selve e prati di immagini: non aveva mai capito bene di che si trattasse! Così adesso si sforzò di rammentare quelle antiche immagini. Ma le tornò alla memoria soltanto un’amaca sospesa tra due gigantesche dita, e dondolata da un’infinita pazienza; poi qualcosa che la sovrastava in silenzio, come alti alberi fra i quali ci si sente sollevare e sparire; e infine un nulla che aveva un contenuto incomprensibilmente tangibile.”[6]
La sequenza è splendida, poetica, visionaria, romantica. È l’immagine di una trasmutazione nel passaggio dalla vita alla morte in un essere senziente in perfetta armonia con gli elementi del cosmo che gli permettono di ritornare alla vita, ma in un nuovo stato, in pura simbiosi con la Natura, nel silenzio magico di una spiritualità eterna oltre la bellezza e la volontà dei viventi.
I due fratelli diventano amanti entrando in un rapporto simbiotico, un rapporto d’amore proibito ma totalizzante, per il quale avevano vinto tabù ancestrali e che aveva permesso a due esseri umani di poter volare librandosi leggeri oltre il tempo e gli spazi, oltre i limiti delle convenzioni culturali e tutti i loro simili, pur lontani dal loro sentire, erano amati e compresi. Tutte le creature ai loro occhi erano belle e buone e assumevano valore profondo e per loro gioivano e soffrivano insieme. Vivevano nel loro amore l’Amore cosmico e Dio era nel loro cuore a riempirlo e intenerirlo.
“E quantunque essi non trovassero certo per ciascun individuo e per il mondo intero i sentimenti che provavano l’uno per l’altra, sentivano però ricadersi sul cuore l’ombra leggiadra del “come sarebbe”, e il cuore non poteva né credere pienamente alla soave illusione né pienamente sottrarvisi, qualsiasi cosa gli accadesse.”[7]
Ulrich, l’uomo senza qualità”, adesso si commuoveva per tutto e per tutti. Era come se fosse indispensabile per lui riportare tutti gli elementi della realtà al suo essere profondo, come se la percezione delle cose lui le riempisse di senso. E la successiva appercezione di tale meccanismo psicologico gli permetteva di librarsi in alto a dominare e capire il Tutto rimanendo se stesso, senza insuperbirsi, restando Ulrich, il mediocre Ulrich. Tutto, insomma, lo commoveva più che egli non potesse capire (1348)
Il romanzo si chiude con delle riflessioni sull’amore e poi sull’uomo da cui emergono le tesi che hanno tenuto in piedi il romanzo dall’inizio alla fine e cioè la differenza tra l’uomo competitivo, volitivo, nichilista vicino all’idea nicciana dell’eterno ritorno dell’uguale e l’uomo contemplativo, religioso, che cerca sempre di dare risposte alla voce della coscienza. Il primo tipo sembra incarnare Ulrich almeno fino al momento in cui si lascia andare al sentimento d’amore incestuoso con la sorella Agathe. Allora crollano le certezze e il superuomo diviene “uomo senza qualità”, per il quale tutte le opzioni diventano possibili e le certezze incrollabili divengono relative. La sua visione eroica del mondo cede a quella del dubbio e dell’incertezza in cui si pone al centro il concetto di possibilità e di “mediocrità”, intesa come medietà tra il materialismo scientista e il misticismo spiritualistico. “… precipitarono. E il vuoto li sorresse. L’attimo si arrestò, senza scendere né salire. Agathe e Ulrich provarono una felicità che non sapevano se fosse tristezza, e solo la certezza di essere eletti per vivere l’Eccezionale li trattenne dal piangere… Vedevano senza luce e udivano senza suono. La loro anima era smisuratamente tesa, come una mano che perde tutta la sua forza, la loro lingua era come mozzata. Ma era una sofferenza dolce come una viva meravigliosa chiarezza. E dopo si avvidero che le forze limitatrici non si perdevano affatto, ma in verità s’erano come rovesciate, e con esse s’erano rovesciati tutti i limiti. Si avvidero che non erano diventati muti, anzi parlavano, ma non sceglievano le parole: erano le parole che sceglievano loro; nessun pensiero si muoveva nella loro mente, ma tutto il mondo era pieno di mirabili pensieri, ed essi potevano credere che loro due e così pure le cose, non fossero più corpi chiusi che si combattevano, bensì forme aperte e alleate.”[8] (1394)
Stupenda pagina in cui si descrive l’amore totale, sensuale dei due fratelli che vivono ormai come fossero un unico corpo e un’unica anima, in istanti sublimi che avevano tutto il sapore dell’eternità.
Musil è uno scrittore del ‘900 che sembra usare i canoni narrativi dell’Ottocento. Ma è solo un’apparenza! In realtà, egli vuole andare oltre il romanzo, oltre la stessa vicenda per lasciare il dilemma razionalità-irrazionalità al centro della narrazione.
Manovra come un grande architetto muovendosi da ricercatore più che da narratore. Ecco perché la riflessione sovrasta la narrazione e i rimandi alla psicoanalisi e alla teologia sono continui, poiché il suo intento è quello di illuminare l’interiorità profonda dell’uomo e l’ordine cosmico a lui esterno che in qualche modo lo determina nelle sue scelte.
[1] Robert Musil, L’uomo senza qualità, Giulio Einaudi Editore, Torino 1957, pag.736
[2] Ibidem, pag. 737
[3] Ibidem, pag. 794
[4] Ibidem, pag. 838
[5] Ibidem, pag. 1193
[6] Ibidem, pag. 1339
[7] Ibidem, pag. 1340
[8] Ibidem, pag. 1394
Non so se commentare Musil o la proposta di leggerne l’opera avanzata dal prof. Pelleriti.
La prima cosa per me è ostica e impossibile perché a stento e solo per obbligo scolastico (carpire un misero 7 in Italiano) ho letto a 16 anni I promessi sposi e I Malavoglia, la seconda cosa mi sembra più approcciabile perché filtrata dalla conoscenza personale e dalla stima reciproca del professore.
In quest’ultimo caso mi avventuro a domandare perché, se si vuole promuovere la sana abitudine della lettura, non si possa partire da Autori e opere più popolari, a portata di mano, elementari, forse anche apparentemente banali, eppure famose e largamente conosciute, come Le avventure di Pinocchio del Collodi, I ragazzi della via Pal di Ferenc Molnar, Centomila gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi, Se questo è un uomo di Primo Levi, Fontamara di Ignazio Silone, ecc. Credo, e probabilmente mi sbaglio, ma sarebbe più facile incoraggiare la voglia di leggere e forse anche apprezzare lo stile narrativo, la poetica e perfino la particolare filosofia della vita sottesa al contenuto di ogni libro, se ciò si facesse.
Sarà che io pecco di pretese didattiche fuori luogo per deformazione professionale di maestro elementare, ma non posso competere nella maratona o nel salto in alto quando riesco appena a reggermi sulle gambe per fare quattro passi.
L’obiettivo, e il percorso, che mi si propone è piuttosto alto, duro e accidentato, per quanto nobile e desiderabile.
Vorrei mantenermi terra terra e accontentarmi di più umili fiori di campo. Ciononostante, il Prof. mi sospinge a mirare alto! Perciò devo pur cogliere qualcosa di prezioso dalla sua proposta che sia all’altezza delle mie capacità di comprensione dell’opera di Musil.
Sono libero o predeterminato da cieche ed oscure forze esterne, socio-ambientali, o emergenti da profonde e recondite energie pulsionali? Sono un borghese massificato, un anonimo Senza-Io, spiaccicato nella “normalità” e nell’aurea mediocrità o un Individuo ben individuato?
Queste domande di fondo che il narratore- filosofo Robert Musil mi propone, non sono di poco conto, specie in questo tempo di rigurgiti irrazionali travestiti da tecnologica razionalità manipolatoria che soffoca ogni umana libertà.
Questo scrittore-filosofo del dubbio aiuta a ragionare e soprattutto a non dubitare almeno di questo: solo la consapevolezza di una vita interiore sofferta e illuminata può affermare il valore etico dell’uomo ed il senso autentico della sua esistenza.
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Grazie al professore Neri per il commento che apre una questione fondamentale per un blog che si fonda soprattutto sulla circolazione di idee attinenti l’etica, l’estetica e gli aspetti culturali in generale.
Per chi cura questo sito, assumendosi l’onere oltre che il piacere di pubblicare settimanalmente un articolo, è sempre gradito un commento, poiché esso consente di dare inizio ad un confronto sul tema in oggetto, utile ai due interlocutori e a quanti leggono, seppure non vogliono partecipare direttamente al confronto.
Salvatore Neri, da bravo docente, richiama nel suo intervento un aspetto didattico che dovrebbe guidare le scelte del sottoscritto, allo scopo di coinvolgere i più giovani alla lettura, prima delle recensioni e poi del libro/i in questione, magari cominciando dalle opere “più semplici”. E, volendo essere più preciso, Salvatore suggerisce dei testi importanti che occupano un ruolo rilevante nella storia della letteratura, da Collodi con il suo Pinocchio a Ignazio Silone, a Primo levi, a Bedeschi.
Le mie recensioni si fondano sul fatto che non hanno nessun intento di sponsorizzazione di un autore o l’ultima proposta di questa o quella casa editrice e dunque esse non sono marcatamente agiografiche, celebrando il libro sempre e comunque, né di blandire il lettore con testi brevi, allo scopo di non tediarlo né di stancarlo, considerando che già una, due sequenze che occupano mezza cartella, dicono gli esperti, annoierebbero i lettori e con un clic, in una frazione di secondo, abbandonerebbero il sito.
Le mie recensioni vogliono comunicare le mie valutazioni sulla vicenda presentata dal romanzo o le analisi di un saggio sociologico, filosofico, politico, vogliono mettere in evidenza la costruzione formale e linguistica del testo, la sua profondità connotativa; vogliono comunicare le emozioni che mi ha suscitato la lettura e presentare i possibili interrogativi che mi ha posto l’autore rispetto alle mie scelte esistenziali. Comunicando tali elementi spero di creare un canale comunicativo che mi consenta di crescere insieme ai miei lettori.
Penso che tali presupposti già abbiano in sé una rilevanza didattica, nel senso almeno di indicare un possibile percorso di approfondimento culturale e di crescita personale. Se poi sia rilevante dare priorità a Collodi piuttosto che ad Elsa Morante o a Stefano D’Arrigo, a Vito Mancuso piuttosto che Antonio Scurati, non ritengo sia altrettanto importante. Penso che quando si sente la necessità, al primo tepore primaverile, di fare una passeggiata in campagna inoltrandosi in un sentiero che porta in un prato fiorito, i sensi tutti si appagano con quei colori, con quei profumi, con quelle sonorità soavi che creano un’armonia d’insieme che infonde serenità, appagamento, leggerezza. In quei magici momenti non ci interessa, pena la fine dell’incantamento, distinguere i papaveri dalle robinie, le primule dalle campanule, o il cinguettio del cardellino dal frinio di grilli e di cicale. Tutto è importante in quella meraviglia.
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