Il linguaggio della politica: “progressista e regressista”
Alfio Pelleriti

Un mio amico riflettendo sull’uso del linguaggio in politica avverte la necessità di mettere in campo alcune considerazioni, in particolare sulla “appropriazione” della parola “progressista” da parte di un’area politica che si colloca nella Sinistra nazionale e internazionale, lasciando, dice, il suo contrario lessicale, “regressista”, ai rappresentanti del fronte politico opposto, ai quali si fa il torto di aver lasciato solo quella possibilità di autodefinirsi o di esserne indicati da chicchessia.
In realtà, dice il dizionario Treccani, il termine “regressismo o regressista” viene usato polemicamente da chiunque per indicare un individuo o un movimento politico o culturale che avversi qualsiasi proposta di riforma in senso democratico e popolare. In storiografia e nelle scienze politiche gli addetti ai lavori lasciano il suddetto termine alle schermaglie tra avversari politici nelle campagne elettorali, preferendo usare “conservatore” o, in casi estremi, “reazionario”. Del primo credo non se ne dolgano o non se ne diano pensiero i conservatori nostrani o i francesi, o gli inglesi, e negli Stati Uniti nessun “repubblicano” si sentirebbe defraudato dell’aggettivo “democratico” con il quale il partito antagonista ha scelto di definirsi. Credo che neanche certi “reazionari” oggi si sentirebbero offesi e vilipesi da chi li apostrofasse con tale termine, visto che in Italia una formazione politica (partito neoborbonico) guarda come modello al governo borbonico del Regno delle Due Sicilie auspicandone la rinascita, e in Sicilia, in particolare, negli ultimi anni posizioni pseudo storiche, fortemente revisionistiche, hanno come obiettivo l’indipendenza siciliana, sulle stesse posizioni di Finocchiaro Aprile e di Antonio Canepa.
Il tema implica non poche riflessioni che attengono oltre che agli ambiti della storiografia e della politica anche a quelli della psicologia, della filosofia e della linguistica. Diverrebbe davvero difficile stabilire buoni rapporti soltanto con coloro che, attenendosi solo al “vero”, adoperino il giusto lessico per definire sia la realtà che le intenzioni di agire su di essa e dunque in qualsiasi situazione, chi venisse colto in fallo tra il dire e il fare sarebbe dichiarato un “bugiardo” che ha voluto piegare ad interessi personali la lingua, bene prezioso di tutti, intoccabile, immodificabile.
È facile contestare tale assunto poiché proprio la lingua è in continuo mutamento ed è aperta a prestiti linguistici da altre comunità, dall’uso comune nei vari ambiti socio-economici, dai vari dialetti regionali; la lingua poi è condizionata dai neologismi provenienti dalla tecnologia applicata alla comunicazione, dalla pubblicità, dalle mode, da espressioni gergali, ecc. Inoltre sul rapporto tra l’uso del linguaggio e la realtà fattuale la cultura scientifica, storiografica, filosofica moderna si fondano su una procedura che contempla l’osservazione dell’evento da studiare, la raccolta di dati, la formulazione di ipotesi che poi al vaglio dell’esperienza, della ricerca sul campo, degli esperimenti di laboratorio, in parte o in toto, possono essere smentite o “falsificate”, direbbe Karl Popper. (Sempre Popper afferma di diffidare delle teorie che non possono essere falsificabili perché apodittiche e dunque facili a provocare in chi le accoglie atteggiamenti ideologici, fideistici, autoritari.)
Dunque, l’assunto iniziale non può essere accettato, a meno che non si voglia bloccare ogni attività umana, non solo la politica, o uscirne con le ossa rotte dopo scontri all’ultimo sangue nelle aule universitarie, nei laboratori scientifici o in quelli medici o astrofisici. La rigidità linguistica soffocherebbe i movimenti artistici e culturali che diventerebbero ambiti “diabolici” dove ci si azzufferebbe accusando gli altri di essere bugiardi o lontani dalla verità.
E si tornerebbe indietro di secoli con i processi della Santa Inquisizione e i roghi degli eretici, delle streghe, e di certi filosofi nelle pubbliche piazze; gli scienziati e gli intellettuali sarebbero condannati ad abiurare le proprie tesi pena la reclusione o la condanna a morte: nota la costrizione di Galileo ad abiurare la tesi “falsa e bugiarda” che fosse il Sole al centro del sistema planetario e che la Terra gli ruotasse attorno. Oppure si potrebbero trasferire anche nella nostra consolidata democrazia situazioni distopiche e assurdamente repressive quali quelle dei processi farsa stalinisti degli anni Trenta o quelli più recenti contro gli oppositori dell’attuale governo russo che condanna a pene detentive molto dure proprio in relazione all’uso non corretto della lingua (usare il termine “guerra” per indicare il conflitto armato in Ucraina costerebbe 15 anni di carcere).
Certo le parole sono importanti ma non solo da esse si giudicano gli uomini bensì dai loro comportamenti, altrimenti ci potrebbe trarre in inganno il termine “nazionalsocialista” che, tradotto, dovrebbe indicare chi auspica, programma e si adopera per l’affermazione, nella propria nazione, dei principi del socialismo che fondarono Fourier, Owen, Proudhon, Saint-Simon e poi Marx ed Engels. I fatti concreti nella Germania voluta da Hitler, come sappiamo, non rispettarono quel termine e dal 1933 al 1945 i socialisti insieme agli ebrei, agli zingari, agli omosessuali, agli oppositori politici, furono trucidati. E così anche Stalin, definendosi comunista e nel nome del comunismo, non portò certo il “Sol dell’avvenire” nell’URSS ma instaurò un regime totalitario adoperando i Gulag, affamando milioni di persone con i suoi obiettivi inderogabili dei “piani quinquennali” o terrorizzando e poi uccidendo sospettati di attività antigovernativa con i processi degli anni 1936/37 e via esemplificando di tragedia in tragedia nel mondo, fino a quelle che interessano la nostra attualità.
E Berlusconi, a quale Italia pensava nel 1994, insieme a Dell’Utri, intitolando il suo partito “Forza Italia”? Le sue leggi ad-personam miravano al progresso dell’Italia tutta? E la Meloni, a quale fratellanza fa riferimento con “Fratelli d’Italia” quando declama con gli occhi fuori dalle orbite dai palchi in cui tiene i suoi comizi, attorniata da teste rasate che l’acclamano col saluto romano?
Il discorso poi si potrebbe estendere a tutto l’associazionismo dove la fantasia pone in essere definizioni le più strampalate. Ad esempio, gli amanti della caccia, i cacciatori, dice Robert Musil nel suo “L’uomo senza qualità”, non si sognano certo di definirsi “i macellai del bosco”, “bensì si proclamano amici degli animali e della natura, esperti nell’arte venatoria, così come i commercianti professano il principio dell’utile onesto e i ladri hanno lo stesso dio dei commercianti, l’elegante e internazionale Mercurio, congiungitore di popoli.”
È anche acclarato che nel periodare storico vi sono stati uomini e donne che hanno immolato la loro vita per le proprie convinzioni; che hanno vissuto per una sola fede, quella della libertà d’espressione. Per costoro nella nostra Italia del ventennio fascista, voluto e diretto dal “socialista” Mussolini, si scoprì che con qualche “cucchiaio di olio di ricino fatto sorbire a un idealista si possono rendere ridicole le più incrollabili convinzioni.” (Musil, op. cit.)
Bravissimo. La tua riflessione sulle distorsioni nell’uso politico del linguaggio, con quel giusto grado di ironia che le mette a una distanza sufficiente per non annegare nella disperazione, sono preziose. “Democrazia sfigurara”, ora più che mai. E ancora pensare è r-esistere. Grazie.
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Grazie a te Agata. “Resistere” è ancora l’imperativo.
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