Modalità possibili nel prendersi cura del giardino

di Alfio Pelleriti

Prima modalità: approccio libertario

Penso che il caldo, la calura di un luglio tanto torrido si possa misurare dall’intensità del canto delle cicale. In realtà è alquanto azzardato definirlo “canto”, poiché il loro è un suono che s’avvicina a un vecchio elettrodomestico che funziona ormai a stento e a fasi alterne e con ritmi incostanti.

Il prato è molto secco e il giallo scuro prevale su qualche isola di verde; i colombi invano si muovono accanto alla fontana riarsa anch’essa fino alla sua base, dove di solito permane qualche traccia d’acqua e d’umidità. Eppure c’è spazio per il fiore del tarassaco, altrimenti detto “dente di leone”: si presenta nel prato con il giallo dei suoi petali e degli stami attorno alla corolla, anch’essa dello stesso colore. Accoglie come ospiti graditi piccolissime formiche che lo invadono inebriate dal suo profumo e dal suo nettare. Quando poi arriva l’ape le si concede, dando tutto il suo polline a chi si prenderà cura di consentire la nascita di altre piante. Accanto, appartenente alla stessa famiglia, cresce la pianta che darà non fiori ma “soffioni”, così li chiamano i bambini, che si divertono a raccoglierli per poi, con un soffio, far volare i tanti stami che lo compongono formandone una bianca, leggera, trasparente forma sferica.

La siepe sempre verde spande d’intorno un dolce profumo coi suoi fiori a grappolo bianchissimi, prima di rinsecchire anch’essi vinti dal calore. Svetta lì in mezzo, nato lì per caso, un fico, ancor piccolo ma già alto in cerca del suo spazio.

Oltre il confine, nel giardino accanto, un coacervo di piante: una palma da datteri, un nespolo, un cipresso, dei tigli, un melograno, un banano con le sue foglie enormi, e al centro, un prato tutto verde, ben curato con acqua in quantità, ad onda della siccità e dell’ordinanza della civica autorità. Un pastore scozzese dal pelo baio e lungo corre dietro a una ragazza che passa di fretta gridandogli “Vieni!”, poi lascia la padroncina e, a passo cadenzato come fosse un cavallo al trotto, attraversa il suo prato e giunto sul melo alza la zampa e fa uno spruzzo, segno che quel prato e la sua casa e gli umani che vi abitano, sono il suo mondo, la sua patria, la sua famiglia, il senso del suo stare in vita.

…Finalmente, il terreno riarso ha bevuto grazie a una pioggia insistente, abbondante, che ha saziato orti, distese di mais, piante assetate. Ora qui, nel giardino, un merlo impudente viene fin quasi ai miei piedi, a beccare tra l’erba e tra i primi fiori che svettano teneri e piccoli ancora, qui e là nel prato che ha ripreso vigore.

Seconda modalità: approccio repressivo

Ecco, tutto questo non si trova nel prato ben curato, perfetto di Amedeo, un piccolo borghese che, travestito da contadino, armato di pompa caricata con diserbante, uccide il suo acerrimo nemico: l’erba che fa appena capolino nello spazio sterrato antistante il suo “palazzo”. Certo il segreto consiste nel colpire sul nascere quell’invadente tarassaco, quelle fastidiose margherite, quegli insignificanti papaveri rossi (il rosso poi lo odia), quel calicanto con le foglie verde rame dove vanno di solito le lumache dopo un temporale. No, lui preferisce il marrone del secco; gode nel constatare che la sua azione precisa, previgente, farà morire sul nascere quel noioso narciso, quegli stupidi colori che puntellano agli angoli quello spazio che un contadino vero avrebbe reso un giardino con piante, fiori, delle aiuole con tante qualità di rose e avrebbe riservato uno spazio anche all’orto. No, lui è un borghese ed odia il prato e l’erba non la toglie, lui l’avvelena.

C’è un’altra modalità con cui si può curare un giardino ed è quella di un uomo ordinato, che nulla lascia al caso o alla libera iniziativa della Natura: per Mario sarebbe come lasciare al caos il suo giardino e una sua sconfitta esistenziale.

Terza modalità: approccio programmato

Mario è un ottantenne proprietario di un casolare ben ristrutturato, di un appartamento adiacente con giardino annesso e di un caseggiato donato alla figlia, di più recente costruzione.

Al centro un ampio giardino delimitato da ben curate piante sempreverdi e da alberi da frutta; e poi un ampio orto, una legnaia, una casetta in legno per gli attrezzi da lavoro, un pollaio, la cuccia per il suo pastore scozzese. Lo intravedo passare e ripassare sempre affaccendato nel lavoro, e infatti in questo microcosmo tutto è sempre in ordine, tutto è ben curato, tutto al suo posto, perfino la moglie che, due tre volte al giorno, attraversa il giardino lungo il viale piastrellato che taglia in perpendicolare il prato. Quando passa la signora, una donna non più giovane ma alta, perfetta nel portamento da dama del Seicento, l’accompagna saltellando felice il cane; lui, invece, Mario, non alza il capo, non accenna a un saluto o a un semplice sorriso, non si distrae col suo tagliaerba o col suo tubo di gomma intento ad annaffiare il prato, o con la forbice mentre taglia qualche ramo secco. No, non si distrae, il suo intervento è sempre giusto, attento, professionale, come il chirurgo col paziente in sala operatoria, come il microbiologo che studia i suoi vetrini; come l’astronomo col suo cannocchiale tra nebulose, ammassi stellari, galassie lontane nello spazio/tempo.

Mario, del resto, non ha tempo da perdere se vuole mantenere in ordine il giardino, perfetto in ogni sua parte. Non ride Mario, ha sempre la stessa espressione, il viso sempre identico a se stesso; egli lavora in tutte le stagioni con quella stessa maniacale precisione, con lo stesso ritmo di esecuzione dato ai suoi interventi: con meno dieci gradi o con 40 gradi all’ombra: unica differenza sta nel copricapo: d’inverno berretto di lana che copre anche le orecchie; d’estate, cappello di paglia e camicione di cotone. Non sorride Mario, neanche di fronte al prodotto del suo lavoro: alle splendide zucchine, ai peperoni, ai pomodori rossi e polposi o alle campanule della siepe e agli eleganti fiori di Ibiscus che s’intravedono ai lati della casa. Il cane da tempo conosce il suo padrone e gli scodinzola quando annaffia il prato in piena estate e allora approfitta per rinfrescarsi il pelo o per una bevuta fuori programma; nemmeno l’ombra dei nipoti: del resto Mario parla poco, solo quando occorre e a voce bassa, poche parole, quelle necessarie. Il suo cervello invece penso che sia sempre occupato da ciò che gli comunicano i sensi: un ramo della siepe fuori posto, qualche punto giallo in un angolo del prato; una foglia rinsecchita, i filari dell’orto da concimare, una processione di formiche sul tronco del pesco o del susino. L’imperativo categorico che Mario ha dato a se stesso è quello di tenere sempre tutto sotto controllo: non importa se un asse del pollaio o un filo d’erba cresciuto di qualche centimetro rispetto al resto del prato. Niente tarassaco coi suoi denti di leone o margherite nel suo prato, ma tutto è omogeneo, dello stesso colore verde. Insomma, il signor Mario è un perfetto “uomo senza qualità” direbbe Robert Musil.


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