di Alfio Pelleriti
Josef K., da un giorno all’altro, senza aver commesso alcun reato, anzi senza aver cambiato in nulla i suoi consueti comportamenti, viene informato da due funzionari della polizia di ritenersi in stato d’arresto e che su di lui era stato aperto un fascicolo e dunque si stava istruendo un processo a suo carico. Nessuna spiegazione gli viene fornita oltre a tali generiche informazioni e non saprà di più quando si sarà recato presso il palazzo ove si tengono gli incontri con gli uditori giudiziari. K. Dunque, si sente minacciato da un sistema assurdo, autoreferenziale, fuori da ogni rispetto di norme giuridiche tipiche di uno Stato di diritto, e da quel momento vive situazioni surreali e da incubo ad occhi aperti. Rispetto a tali atmosfere alquanto angosciose, la prosa di Kafka è chiara, semplice, non ridondante o marcatamente retorica. Ma tale scelta stilistica marca ancora di più le situazioni grottesche vissute dal protagonista, rese ancora più cupe e misteriose, dai tratti caratteriali dei personaggi che incontra: paurosi e alquanto vigliacchi; estremamente egocentrici, privi di alcuno spessore morale e facili alla corruzione.Da tutto ciò deriva un sentimento di estrema solitudine che comincia ad opprimere l’animo di K., che tende vieppiù all’ansia e al timore di essere caduto in un vicolo cieco da cui gli sarà difficile uscire.

Man mano che ci si inoltra nella vicenda di Josef K. e con lui si segue il problema che ormai gli occupa incessantemente la mente e che gli ha tolto inevitabilmente ogni serenità, ci si accorge che tutti coloro che il protagonista incontra sono cointeressati al suo processo, del quale egli capisce solo che gli sta cambiando la vita, anche se ancora non sa di cosa sia accusato e se davvero rischia una pena molto dura: “Gli sembrava di essere su una nave in mezzo a un mare in burrasca. Aveva l’impressione che l’acqua sbattesse contro le pareti di legno, e che dal fondo del corridoio venisse uno scrosciare come di acqua che irrompe.”[1]
Una cosa è comunque certa: non prende più alla leggera la questione per la quale è costretto a relazioni con individui che in teoria dovrebbero aiutarlo a risolvere il suo problema ma che in realtà gli complicano ulteriormente la vita: lo zio, l’avvocato, Leni, la ragazza interessata a lui che non perde occasione per avvicinarlo, circuirlo; l’industriale o il pittore Tintorelli, o ancora l’usciere e il suo vicedirettore. Una realtà ambigua, “liquida”, dove regnano il dubbio e l’incertezza, lo circonda e contribuisce ad allargare i confini del suo incubo e la paura comincia a dominarlo; il senso di colpa ad invaderlo, divenendo dominante nella sua interiorità e condizionante per le sue relazioni, per le sue scelte, per i suoi progetti. “…desista dal suo errore, la smetta di essere così poco arrendevole, tanto contro questo tribunale non ci si può difendere, bisogna fare la confessione. Solo allora c’è la possibilità di sgattaiolare, solo allora.”[2]

Josef K. avverte che se stesso e gli altri sono dominati da un Sistema invisibile, da un potere tirannico che si cela ai cittadini e nasconde il suo volto attraverso un’infinita scala gerarchica, per cui diventa impossibile risalire al responsabile politico, religioso, economico. Tutti sono subalterni a qualcun altro, né vi sono regole certe che mettano al sicuro dall’errore o che segnino con chiarezza il confine tra lecito e illecito, per cui tutti possono diventare colpevoli di qualcosa e la percezione della colpa è già sufficiente per cominciare a scontare la pena. Tutti sono dentro il Sistema: avvocati, industriali, artisti, impiegati, mogli e amanti, sacerdoti. Il popolo tutto sta dalla parte della Legge, anche gli imputati che acconsentono ad avere processi “apparenti”: “Gli atti del tribunale, soprattutto l’atto d’accusa, sono inaccessibili all’accusato e alla difesa, dunque in linea generale si ignora, o per lo meno non si sa con precisione, su cosa deve puntare la prima comparsa… per legge la difesa non è propriamente ammessa, bensì soltanto tollerata.”[3]
Il processo, il “suo processo”, occupa ormai il tempo di K., il quale, licenziato il suo avvocato, il suo inconcludente, autoreferenziale, egocentrico difensore, decide che sarebbe stato lui stesso a difendersi. Ma da che cosa? Da quale accusa? Si rende conto che, come tutti, è una vittima del sistema; capisce che di fronte all’accusa non è importante perdere tempo sulla ricerca di prove per dimostrarne l’infondatezza. Egli deve scegliere: stare col Sistema o contro il Sistema; accettare di diventare un individuo senz’anima, pedina e strumento di altri in un meccanismo reale ma invisibile che stritola, trasforma, uccide pensiero, logica, sentimento, valori; oppure, opporre coraggiosamente un “no!” forte, sicuro, eroico. Un no alla corruttela, alle bugie, al servilismo, alla morte spirituale; rimanere se stessi e andare incontro alla condanna, al sacrificio. Josef K non avrebbe voluto fare codesta scelta ma Kafka sembra rivolgersi al suo eroe, e dunque a se stesso, per ricordare che prima o poi tutti dovremo passare dall’”aut-aut”: stare tranquilli e assecondare la Legge oppure rispondere alla legge interiore per conquistare oltre la morte il chiarore dell’innocenza immortale dell’anima.

I custodi del Sistema che terrorizzano con i processi, costituiscono la maggioranza e tra essi ci sono i rappresentanti di tutte le categorie sociali, come appurerà K., anche i sacerdoti: “Il sacerdote lo invitò con un cenno del dito… e con l’indice abbassato perpendicolarmente indicò un posto proprio sotto il pulpito…’Sei accusato’ disse il sacerdote ‘lo sai che il tuo processo va male? … Non bisogna credere che tutto è vero, bisogna solo credere che tutto è necessario.’ ‘Un’opinione desolante’ disse K.”[4]
Siamo in una realtà distopica, sottilmente e tremendamente tirannica, opprimente, che angoscia e ottunde, annulla e uccide. Le scelte che finalmente decide di intraprendere K. finiscono per ritorcersi contro di lui, poiché entrano prepotentemente in ballo tutte le variabili possibili atte a condizionare quella sua decisione. Sono possibilità teoriche, sono quelle che si introducono con la congiunzione e la particella “e se…” che, in un contesto in cui siano fissate regole certe, si lascerebbero cadere quasi automaticamente dopo un veloce esame sulle probabilità di successo o di insuccesso, di convenienza o di danno, di accettabilità sociale o di infrazione all’etica universalmente condivisa. Codeste variabili a K. si presentano invece con lo stesso valore e peso e dunque aumenta in lui ansia, paura, angoscia.
Tuttavia un’altra interpretazione è possibile: Kafka, sotto le sembianze di accadimenti più o meno normali subiti dal suo protagonista, in realtà passa al microscopio e con i tempi del “rallenty” ciò che avviene nella mente di un uomo quando si trova ad affrontare qualcosa di insolito, di inatteso. Quella situazione nella quale valutiamo, prima di decidere, quali possibilità di rischi vi siano per la conservazione del nostro benessere basico senza il quale potremmo avviarci alla labilità mentale e psichica e alla perdita della sicurezza o dell’accettabilità sociale.

È ciò che accade, del resto, nelle relazioni sociali, nell’incontro con l’Altro che può rappresentare, come sostiene Jonas, la possibilità di mettere in atto il personale patrimonio valoriale, mettendo alla prova la nostra capacità di essere coerenti con gli imperativi della coscienza morale realizzando il nostro progetto per gli altri, per la comunità, divenendo così protagonisti di un progresso umano e civile; oppure, come sostiene Sartre, gli altri diventano il “nostro inferno”, poiché ogni individuo programma un personale progetto di vita dove gli altri non sono che strumenti per le personali finalità esistenziali, così che, quando incontriamo lo sguardo degli altri, aggiunge Sartre, percepiamo che noi stessi siamo pedine e strumenti per i loro progetti di vita. Allora cadono tutte le certezze insieme ai valori e rimane in noi solo un senso di smarrimento e di nausea.
Certamente “Il processo” è un libro che dovrebbe essere letto da tutti i giudici, i magistrati, gli avvocati, gli studenti iscritti alla facoltà di giurisprudenza, poiché è un compendio di tutto ciò che costoro non dovrebbero mai fare o dire o semplicemente pensare. Sarebbe un esercizio proficuo per mettere in sequenza tutti i comportamenti che non si devono assumere se non si vuole tradire la propria deontologia professionale, oltre che la propria coscienza morale e i principi su cui si fonda lo Stato di diritto. In ogni pagina viene tradita l’etica della responsabilità con cui Max Weber voleva legare ogni individuo alla comunità d’appartenenza, alla sua storia, alla sua cultura.

Kafka mette in crisi il concetto di identità personale e di capacità di scelta consapevole tipica di ogni uomo, e certamente su tali convinzioni avrà inciso lo studio approfondito che riservò a Soren Kierkegaard e in specie al concetto di “scacco esistenziale”[5]: ogni volta che l’individuo, esaminato nella sua singolarità, sceglie la soddisfazione delle pulsioni istintuali (scelta estetica[6]) o quella dell’adeguamento ai valori della tradizione (scelta etica) e perfino quella riservata a pochi, quella religiosa, non ha salvato se stesso dall’angoscia, poiché “anche i martiri al cospetto divino proveranno timore e tremore.”[7] L’”aut- aut” esistenziale, l’incapacità di scegliere di Josef K. rappresentano la fragilità dell’uomo nella sua tragica singolarità che non potrà mai togliersi di dosso l’ambiguità dell’esistenza.
[1] Franz Kafka, Il processo, editore Rizzoli, collana “I capolavori”, Milano 2010, pag. 87
[2] Ibidem, pag. 120
[3] Ibidem, pag. 126
[4] Ibidem, pagg. 216/227
[5] Quindi dalla categoria della necessità a quella della possibilità: libertà di essere librato tra essere e nulla.
[6] La vita estetica: l’esteta si nega a una qualsiasi scelta, non si lega a nulla: il seduttore. La noia e la disperazione sono gli sbocchi di tale scelta.
La vita etica: si sente la necessità di scegliere e di assumersi responsabilità. La famiglia, il lavoro, l’amicizia. (il marito). Si risolve nella ripetitività, nell’ipocrisia e nel pentimento, nel riconoscimento della propria colpevolezza.
La vita religiosa: la figura di Abramo che infrange la legge e va oltre ogni affetto.
[7] Soren Kierkegaard, Timore e tremore.