Michail Bulgakov, “Il Maestro e Margherita”, ovvero, delle debolezze di un popolo incantato dai demoni del Male

Alfio Pelleriti

L’autore sceglie un argomento che attiene l’ambito della filosofia piuttosto che quello del genere narrativo classico per il romanzo al quale lavorò nell’ultima fase della sua vita, prima che una malattia lo stroncasse a 49 anni, nel 1940. Il focus della vicenda è costituito dalla presenza del male nella storia e nella vita degli uomini, nei più umili e semplici come anche nei potenti, nei ricchi, negli intellettuali. Nel romanzo si pongono le classiche domande a cui generazioni di uomini hanno cercato risposte: come si affronta la caduta nell’abisso? Come ci si orienta quando ogni luce si spegne e a dominare è l’oscurità? Ci si deve arrendere alla forza e cedere al terrore indotto dal maligno? O lottare con coraggio mantenendo viva la fede in Dio con lucidità, per quanto è possibile, con dignità, con la calma dei forti, senza indietreggiare?

Il Maestro e Margherita

Michail Bulgakov vive gli anni terribili della dittatura stalinista e manifesta tutta l’angoscia che può provare un artista vivendo in un contesto politico e sociale in cui non si è liberi di esprimere la propria visione del mondo, le personali convinzioni sull’uomo, sulla religione, sulla storia. Subì la rigidità della censura del regime, l’ottusità dei servitori dello Stato totalitario sovietico che cercavano di tacitare qualsiasi tentativo di espressione libera del pensiero.

Ecco allora che il suo romanzo necessariamente si sviluppa per metafore e per simboli e le storie si intrecciano e si complicano. Troviamo quella di un rapporto d’amore tra Ivan Nikalaevic, il Maestro, e la moglie, Margherita Nikolaevna, vicenda che viene attraversata da quella che scrive il Maestro sul processo intentato a Gesù Nazareno, dove il giudice, il governatore Ponzio Pilato, è incerto e angosciato, oppresso dal peso della responsabilità di dover giudicare e condannare un innocente e liberare, come chiedevano Caifa e il popolo di Gerusalemme, un terrorista, un assassino, Barabba. Strana debolezza questa in un giudice, rispetto a coloro che, nella dittatura stalinista, condannavano, senza remore morali e senza alcuna prova, centinaia di migliaia di potenziali “contro rivoluzionari”, considerati nemici dello Stato sovietico. Tali storie si sviluppano e si intrecciano in un contesto spiccatamente onirico, dai tratti lugubri, ossianici, volutamente cupi, così come doveva presentarsi ad un intellettuale il totalitarismo liberticida stalinista.

Sembra pensare, Bulgakov, ai cittadini russi che attraversavano i rigori di una dittatura in cerca di identità e di certezze dopo il disfacimento dell’impero zarista, dopo una rivoluzione sociale, economica, culturale, dopo le tante vittime del primo conflitto mondiale. Ecco allora che il “contesto” del romanzo diventa il vero protagonista e i personaggi cedono la scena ad atmosfere e personaggi surreali e grotteschi e cioè ad entità che sono solite muoversi nell’oscurità, stare nel buio, pronte a cogliere le occasioni propizie per seminare contrasti, gelosie, odio, dolore, morte e fare trionfare il Male. Satana e la sua corte di demoni, orridi e malvagi, con la loro forza occupano allora la scena con i loro travestimenti, con le loro menzogne che ribaltano la realtà, che negano la verità; oscurano la luce, indicano ai personaggi del romanzo la via dell’egoismo, della vanagloria, del facile arricchimento, nell’intento di trasformare gli uomini in demoni.

Woland è Satana che si muove con due suoi demoni-servitori di cui uno assume le fattezze di un grosso gatto nero che però si comporta come un umano. I personaggi si muovono in situazioni assurde e grottesche, in atmosfere da incubo che rendono tutta la narrazione come un’inesorabile discesa agli inferi, lì dove non si applicano più i parametri, i limiti, le caratteristiche della realtà e dove i sentimenti tipici degli uomini, diventano manifestazioni di menti malate. Ci muoviamo cioè in un mondo rovesciato dove la normalità viene messa tra parentesi, la libertà individuale conduce alla pazzia, il bene diventa qualcosa di astratto o di fantasioso e il male esercita il suo potere annullando ogni riferimento alla pietà, alla misericordia, all’amicizia, alla lealtà, all’amore. Una realtà orripilante dove la violenza e la morte sono la sostanza essenziale, dove gli esseri umani, sconvolti e terrorizzati, sono spinti da una potente forza esterna che invita a correre verso il baratro oscuro della morte.

presenze ammaliatrici

I confini del reale svaporano, diventano nebbia, pulviscolo, scompaiono e l’assurdo assume consistenza e il rosso cupo invade il campo del bianco e lo inonda e gli occhi si sgranano di fronte all’impossibile che accade e si sostanzia, dinanzi al crollo dei limiti dello spazio tempo, lì dove i suoni tenui scompaiono sostituiti dallo stridore dei denti, dagli acuti insopportabili di voci stonate, dai ghigni dissacratori di orribili orchi dagli occhi di fuoco.

Di solito si citano “Il Processo” o “Le Metamorfosi” di Franz Kafka come le punte più alte del romanzo dell’assurdo, lì dove lo smarrimento della coscienza diventa palpabile, dentro l’incubo infinito di Josef K. e di Gregorio Samsa o i racconti di Edgar Allan Poe, dove protagonista è l’angoscia e l’istinto primordiale, ma è sorprendente come non venga citato Bulgakov con questo suo romanzo dove anche le premesse sillogistiche non danno le conclusioni che imporrebbero la logica e la linguistica. Un’aura grigia e tenebrosa invade ogni sequenza, ogni proposizione, ogni parola, e man mano che l’atmosfera della narrazione diventa cupa essa si trasmette al lettore che resta disancorato, poichè niente può accostare ad elementi delle sue conoscenze, del suo vissuto. Anche lui, divenuto “leggero e senza storia”, segue quegli eventi accatastandoli uno sull’altro e aspettandone, attonito, altri.

Molti personaggi cadranno vittime di Woland, che gioca con loro conoscendone la profonda debolezza e la mancanza di idealità; egli sa che facilmente può corrompere e ricattare, agendo sulla loro dimensione inconscia, lì dove hanno rimosso i desideri più accesi, i peccati più inconfessabili; lì dove si scatena una tempesta perfetta rinfocolata dal loro tribunale morale, dal loro Super-Ego che nei loro sogni, avendo assunto le forme più strane, giganteggiano sul loro Io diventato minuscolo, impotente, piagnucoloso, esterrefatto e pronto a confessare ogni delitto. Nessun tono “esilarante” dunque si nota nel romanzo di Bulgakov, così come afferma il curatore dell’edizione in quarta di copertina presentando il libro, semmai c’è da chiedersi se l’autore abbia conosciuto la produzione freudiana e la psicoanalisi, e dunque le dinamiche della psiche con la sua dimensione inconscia, poiché la narrazione tutta procede facendo leva su elementi onirici associati ad ambienti grigi e tenebrosi, nei quali elementi del reale perdono la loro consistenza e fissità per marcare di più la tensione della vicenda.

Michail Bulgàkov

Il romanzo è magistralmente costruito: tutti gli elementi si incastrano alla perfezione e il ritmo narrativo si mantiene alto, incalzante, quasi che l’autore tenga sempre presente l’imperativo di tenere desta l’attenzione del lettore, alzando vieppiù l’asticella degli elementi orridi e surreali, collocandosi a tratti sul crinale tra l’horror e il macabro, fino a rivolgersi direttamente al lettore scuotendolo e invitandolo a “seguirlo” giunto alla fine della prima parte: “Quello che successe ancora di incredibile a Mosca quella notte non lo sappiamo e non cerchiamo neppure di saperlo, tanto più che è ora di passare alla seconda parte di questa veridica narrazione. Seguimi, lettore! … Seguimi lettore! Chi ti ha detto che non esiste a questo mondo l’amico vero, fedele ed eterno! Al mentitore sia tagliata la malefica lingua. Seguimi, lettore. Solo me, segui. E io ti mostrerò un tale amore.”[1]

Con la seconda parte il romanzo subisce una brusca virata verso il fantasy noir e quel che rimaneva di realistico si assottiglia e scompare. Il grottesco si accentua e ci si comincia a chiedere cosa ci sia dietro tale montante groviglio di ipertrofici aspetti caratteriali e fisici dei personaggi, cominciando da Margherita, la protagonista: “Natasã raggiunse Margherita. Completamente nuda, coi capelli sciolti al vento, cavalcava un grosso porco che teneva stretta tra le zampe anteriori una cartella, e con quelle posteriori batteva selvaggiamente l’aria… Margherita l’osservò bene e riconobbe nel porco Nikolaj Ivanovic, e allora la sua risata echeggiò sopra il bosco, mescolandosi alle risate di Natasa.”[2]

Azazello, Korov’ev, Woland, il gattone nero, sono i demoni che spadroneggiano incontrastati su Mosca e sui suoi abitanti borghesi, su piccoli e supponenti artisti, su donne frustrate dagli ingordi desideri, su mercanti votati ad accumulare denaro. In questo romanzo si va oltre il sarcasmo, la critica sociale diventa invettiva contro un popolo che per l’autore ha smarrito qualsiasi ideale, ha azzerato tutti i principi etici e dunque è pronto a diventare massa acefala, manovrabile da un qualsiasi Woland o da un tiranno che con la sua azione volta alla sopraffazione, con l’arte della mistificazione e con l’uso continuo della menzogna ideologica, può manovrarlo strumentalmente per il raggiungimento di mete abiette. Il popolo russo, sembra dirci Bulgakov, non conoscerà mai la democrazia; solo una sparuta minoranza, destinata comunque ad essere sacrificata, conserverà una coscienza, una forma di moralità.

L’apoteosi del macabro e del non-sense si raggiunge nel capitolo dedicato alla serata del gran ballo o della festa di Satana quando come regina è eletta Margherita e il re-padrone è Woland che beve dal cranio delle sue vittime e che sacrifica spie e delatori bevendone il sangue. Certo ancora una metafora di quanto accadeva nella Russia staliniana del 1936-1938 con le “grandi purghe” attraverso processi farsa che si concludevano con pene capitali o detentive e ai lavori forzati nei gulag. Gli invitati al ballo sono una massa enorme che entra in una realtà capovolta dove ciò che di solito è impossibile diventa realtà: scimmie che suonano musica jazz, pappagalli che intonano canti melodiosi ed altre “amenità” descritte con abbondanza di particolari, in una saga di streghe e di maghi di lungo corso: “Nude streghe, balzate fuori da dietro i salici, si misero in fila e cominciarono a fare inchini e riverenze con atteggiamenti da cortigiane. Un tipo con i piedi di capra le volò accanto e le baciò la mano… il grassone e quello dei piedi di capra aiutarono Margherita a salire ed ella si abbandonò sul sedile posteriore della macchina sacra. La macchina rombò e si sollevò fin quasi alla luna, scomparvero la riva e il fiume, e Margherita volò verso Mosca.”[3]

Il Maestro e Margherita è dunque un romanzo che potremmo rappresentare prendendo a prestito “L’urlo” di Munch o “Guernica” di Pablo Picasso o l’angosciante “Trionfo della morte” di Palazzo Abatellis a Palermo o i dipinti surrealisti di Renè Magritte o di Salvador Dalì, il visionario deturpatore del reale e del Bello che amava esprimersi per simboli per fare emergere le pulsioni che generalmente stanno rimosse nell’inconscio, individuale o collettivo. Oppure possiamo accostare al romanzo le tante istantanee degli inviati di guerra che immortalano brandelli di case nella martoriata Ucraina, cadaveri lasciati lungo le strade o affastellati dentro fosse comuni e altre ancora di donne e di bambini, di vecchi piangenti e annichiliti dal ghignante passaggio del Male nei loro corpi e nelle loro anime.

Solo nel 1973 l’opera fu interamente pubblicata, poiché la prima edizione del 1966 era stata censurata e mancava di 150 pagine. Bulgakov non poté seguire tali pubblicazioni poiché il 10 marzo del 1940 una sclerosi renale lo condusse alla morte.


[1] Michail Bulgakov, Il maestro e Margherita, Milano 1977, RCS Libri, Edizioni “I Capolavori”, 2009, pagg.274-275

[2] Ibidem, pagg. 307-308

[3] Ibidem, pagg. 312-313

Michail Bulgàkov. Note biografiche

Michail Afanas’evic Bulgàkov nacque a Kiev il 15 maggio 1891, primo di sette figli di una agiata famiglia borghese: il padre era professore universitario di storia e critica delle religioni presso l’Accademia Teologica di Kiev.

Michail si laureò nel 1916 in medicina presso l’Università di Kiev e cominciò subito un’intensa attività professionale. Visse a Kiev gli anni turbolenti della guerra civile dopo il 1918 e due anni dopo, nel 1920, abbandonò l’esercizio della professione medica per intraprendere l’attività di giornalista e scrittore, non senza andare incontro a ristrettezze economiche.

Michail Bulgakov

Nel 1921 si trasferì a Mosca iniziando una collaborazione con una importante rivista berlinese edita in lingua russa. A Mosca cominciò anche una ricca produzione drammaturgica, ma iniziarono anche i problemi con la censura sovietica: “Cuore di cane”, “Diavoleide” furono ritirate dalla vendita. Nel 1926 subì la prima perquisizione nella sua casa a Mosca e il sequestro dei diari.

Nel 1931 non gli fu concesso il permesso di lasciare l’Unione Sovietica, ma Stalin gli offrì in cambio la direzione del Teatro Accademico dell’Arte di Mosca. Non riuscirà mai ad uscire dall’URSS per andare a trovare i suoi fratelli che vivevano a Parigi. Dal 1934 si dedicò alla scrittura de “Il Maestro e Margherita”, l’opera che gli darà notorietà e fama (soltanto negli anni Ottanta). Morì a 49 anni nel 1940.


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