“I Beati Paoli” di Luigi Natoli, Solo romanzo d’appendice?

di Alfio Pelleriti

I Beati Paoli, romanzo di Luigi Natoli, nacque come romanzo d’avventura o d’appendice e infatti fu pubblicato ad episodi dal Giornale di Sicilia tra il maggio 1909 e il gennaio del 1910, tuttavia si distinse subito dal romanzo popolare per l’alta caratura linguistica e l’armonica costruzione narrativa, evidenziate da critici letterari e intellettuali. Il romanzo presenta un documentato riferimento alla struttura urbanistica della città, con i suoi quattro settori principali: l’Albergheria, contenente il Palazzo Reale; il Capo, con la Cattedrale e dove l’autore suppone sia stato il Palazzo La Motta e la grotta dei Beati Paoli; la Kalsa, col Tribunale dell’Inquisizione vicino al Piano della Marina; la Loggia, con il carcere della Vicaria e il Castello a Mare.

Nel 1971 l’editore Flaccovio di Palermo pubblicò il romanzo e fu un successo oltre che l’inizio di un dibattito tra intellettuali sul testo.

Nel 1990 il critico letterario Jean-Noel Schifano, in un articolo pubblicato su “Le monde”, definì il romanzo di Luigi Natoli “il quinto monumento storico della letteratura italiana contemporanea, dopo “I Promessi sposi” di Alessandro Manzoni, “I Vicerè” di Federico De Roberto, “La storia” di Elsa Morante e “Il nome della rosa” di Umberto Eco”. Lo storico siciliano Rosario De Luca, del romanzo ha apprezzato l’attenta ricostruzione storica del periodo in cui si svolge l’azione: gli anni che vanno dal 1698 al 1719, ritenendo che il vero protagonista del romanzo sia “il Settecento siciliano dei grandi palazzi barocchi”, ovvero l’aristocrazia, legata soprattutto alla dominazione spagnola, che causò in quel periodo la mancata formazione di una classe borghese che potesse gestire un rinnovamento dell’assetto sociale e produttivo della Sicilia. Nel romanzo infatti emerge l’idea che in Sicilia non ci fu alcuna rivoluzione sociale, politica, culturale, e tale mancato tentativo di affrancamento dalla dominazione straniera avrebbe segnato lo sviluppo del popolo siciliano.

Leonardo Sciascia sostenne che “I Beati Paoli” è un romanzo che non si può fare a meno di leggere se si vuol cercare di capire qualcosa dell’”essere siciliani”. Infine,   Umberto Eco considera “I Beati Paoli” un romanzo popolare che getta una luce chiara e sapiente sull’assetto della società in cui si svolge la narrazione, per cui i personaggi, principali e secondari, il loro sentire, le vicende diventano un saggio sulla mentalità di quel tempo, sulle caratteristiche delle classi sociali, sulle scelte politiche dei governanti, sui valori di riferimento che le ispiravano.

Nella puntuale introduzione al romanzo edito da Sellerio nel 2016, Maurizio Barbato afferma che il romanzo di Natoli può e deve essere posto, per merito, accanto ai grandi romanzi storici della nostra letteratura, e inoltre riassume sapientemente il dibattito sulla esistenza storica piuttosto che sulla leggenda legata alla setta dei Beati Paoli: per alcuni essa era un’associazione segreta che cercò di fare argine allo strapotere della nobiltà siciliana e alle sue angherie sulle classi popolari (Luigi Natoli), per altri era una organizzazione dedita a ricatti e ruberie particolarmente spietata (marchese di Villabianca). La sua segretezza, i suoi processi sommari, e i giudizi senza appello nell’immaginario popolare posero la setta come una tra le prime forme di organizzazione mafiose. In realtà tale accostamento è azzardato, tuttavia si può parlare di “sentimento mafioso” che si farà strada tra gli strati popolari, secondo cui contro l’ingiustizia dei potenti e dello Stato, la giustizia al popolo possa venire solo dai rappresentanti dell’”antistato” e dalle consorterie.

A tal proposito si legge nel romanzo: “I Beati Paoli apparivano ed erano come una forza di reazione moderatrice: essi insorgevano per difendere, proteggere i deboli, impedire le ingiustizie e le violenze: erano uno Stato dentro lo Stato, formidabile perché occulto, terribile perché giudicava senza appello, puniva senza pietà, colpiva senza fallire. E nessuno conosceva i suoi giudici e gli esecutori di giustizia. Essi parevano appartenere al mito più che alla realtà. Erano dappertutto, udivano tutto, sapevano tutto, e nessuno sapeva dove fossero, dove s’adunassero. L’esercizio del loro ufficio di tutori e di vendicatori si palesava per mezzo di moniti, di lettere, che capitavano misteriosamente. L’uomo al quale giungevano, sapeva di avere sospesa sul capo una condanna di morte.

Come erano sorti?… Donde? Mistero. Avevano avuto degli antenati: quei terribili ‘vendicosi’, che ai tempi di Arrigo VI e di Federico II erano diffusi per il regno e il cui capo era un signore, Adinolfo di Pontecorvo; i proseliti migliaia; il loro compito quello di vendicare le violenze patite dai deboli.”[1]

Già dalle prime pagine “I Beati Paoli” si rivela un romanzo straordinariamente avvincente, pieno di “suspence”, senza però scadere nel vacuo; esso emoziona e coinvolge in un’azione che non concede tregua al lettore, svuotandolo del suo presente e trasportandolo nella realtà virtuale del romanzo il cui tempo è quello dei primi decenni del Settecento nella Sicilia dei Viceré, tra la dominazione spagnola di Filippo V e quella sabauda di Vittorio Amedeo II.

La vicenda si presenta chiara fin dall’inizio: da una parte i “buoni” e dall’altra i “cattivi”: uomini fedeli e leali contro violenti e traditori, ricchi aristocratici contro poveri popolani. Tanto che man mano che procedo in questa lettura che avvince, mi capita di provare le stesse sensazioni che mi accompagnavano negli anni della mia adolescenza durante la visione di film d’avventura al Cinema Stella, quando, seguendo le vicende dei miei eroi, spadaccini abilissimi e coraggiosi o eroi mitologici, trascorrevo quel tempo passando da un’emozione all’altra. Quelle stesse emozioni riprovo quando donna Aloisia, rimasta vedova del conte don Emanuele Albamonte, ucciso da pirati algerini, rischia di essere avvelenata dal cognato Don Raimondo che vuole mettere le mani sul vasto patrimonio del fratello. È un grande, stupendo romanzo scritto con una prosa chiara ma elegante, essenziale e focalizzata sull’azione che costringe il lettore a non distrarsi, invitandolo a non perdersi alcun particolare.

Edizione Flaccovio de I Beati Paoli

Dovrei cercare nel dizionario Treccani il termine “straordinario” e capire di poi tutti i sinonimi e trascriverli uno dopo l’altro per poter dare sfogo al sentimento che mi occupa totalmente mente e cuore durante la lettura di questo romanzo di Luigi Natoli, di cui generazioni di studenti non hanno mai avuto sentore se non di un romanzo popolare e dunque non meritevole d’attenzione se non dai frequentatori delle sale dei barbieri o nelle botteghe dei ciabattini, come accadeva nel corso dei due secoli passati, l’800 e la prima metà del 900. Nei primi due anni di liceo, allora il ginnasio, si leggevano “I Promessi sposi” di Alessandro Manzoni eletto a romanzo “nazionale”, modello linguistico e di stile letterario, ignorando che altri stilemi espressivi si sarebbero potuti valutare nelle scelte degli strumenti didattici.

Non c’è pagina in questo romanzo che non attragga per eleganza espressiva e per sapiente dosaggio di poetiche descrizioni, di dialoghi avvincenti e di interventi del narratore a commento o a chiarificazione della vicenda. Non c’è pagina che non coinvolga il lettore che deve dire a se stesso di non esagerare con la velocità di lettura e che limiti il suo entusiasmo, che trattenga i moti del cuore nel passare di emozione in emozione, scorrendo voracemente le pagine. Per un lettore siciliano, poi, la lettura del romanzo significa andare a ritroso nel tempo e rituffarsi nelle tradizioni laiche e religiose caratterizzate da una partecipazione popolare totale, sentita, gioiosa, festante, esperienze ormai quasi perdute. “Per tutta la lunghezza del Cassaro ondeggiava quel rumore indistinto e confuso di migliaia di passi e di migliaia di voci, simile allo sciabordio della marea, che ora saliva, ora s’ammorzava, per riprendersi poco dopo con un improvviso scoppio, come sospinta da un soffio di vento. A un tratto una notizia partiva da un punto del Cassaro, si propagava via via per la lunghezza della strada: tutte le teste mareggiavano, si voltavano, si agitavano.”[2]

A tal proposito sono da segnalare i due capitoli che Natoli dedica alla visita di Vittorio Amedeo, nuovo re del Regno di Sicilia che sostituiva il governo spagnolo di Filippo V e ancora le stupende pagine dedicate agli amori teneri e appassionati come quello tra Blasco da Castiglione e Donna Gabriella, giovane moglie di Don Raimondo.

Un romanzo splendido e ammaliante come una colonna sonora di Ennio Morricone; bello e struggente come un film di Tornatore; giusto ed eroico il suo protagonista, Blasco da Castiglione, come Nembo Kid o Capitan Miki, come Ettore alla difesa delle mura di Troia. Blasco è impavido, pronto al sacrificio per fare trionfare l’ideale che gli occupa interamente la sua anima: stare dalla parte dei deboli; lottare contro ogni sopruso o arroganza dei potenti; egli è naturalmente generoso e disponibile ad ogni nobile impresa, disposto anche a giocarsi la vita o a rimetterci tutti i suoi denari, come Don Chisciotte; ardimentoso e a tratti fosco come Michelangelo Merisi, detto Caravaggio. Nel capitolo che chiude la prima parte del romanzo, ad esempio, Blasco irretisce il principe di Iraci, già suo avversario, che lo sfida a duello e nella piazza antistante il Palazzo Albamonte, i due fanno incrociare le loro spade. Una stoccata dopo l’altra, Blasco irride il giovane principe che infine viene disarmato e ingloriosamente, senz’arma, cacciato via. Blasco provoca con battute sarcastiche l’avversario ed è naturale pensare a Ciranò de Bergerac che gioca con i suoi avversari prima di stenderli. Anche Blasco irride gli avversari, para, attacca, canzona ad un tempo, e poi tocca:

“… Abbiate riguardo, perché la collera è cattiva consigliera…specialmente nelle condizioni in cui vi trovate…voi siete del paese delle savoiarde, non è vero? …gustose le savoiarde! Adesso ve ne regalerò una, sulla guancia destra; state attento…si capisce che non vi farò sangue…un piccolo buffetto… Là! Eccolo!”[3]

Blasco è l’eroe “senza macchia e senza paura”, sempre pronto a lottare a favore dei deboli contro tiranni e malfattori d’ogni risma; egli non indietreggia mai e affronta ogni rischio pur di rispondere alla chiamata dei suoi ideali che sono ancora quelli dei cavalieri medievali o dei guerrieri che rispondono ai doveri che impone la coscienza morale, in un tempo in cui i deboli erano costretti a subire umiliazioni e soprusi da una ristretta casta di nobili arroganti. Nella sequenza che segue il racconto si muta in denunzia sociale: “Blasco osservava ogni scena con una disposizione d’animo che lo inclinava alla pietà; tutta quella miseria gli si rivelava sotto un aspetto nuovo, come il prodotto di una società divisa nettamente in due grandi classi, una di privilegiati, sui quali cielo e terra avessero condensato tutti i loro favori, ricca, potente, prepotente, arbitra di fare e disfare, oziosa, impune: olimpo di dei, ai quali tutto era concesso: l’amore, la gioia, la spensieratezza, le belle follie, gettare denaro, mandare la gente in galera, farla bastonare, farla impiccare dai propri giudici o ammazzare dai propri sicari, e alla quale l’elemosina, le messe, i lasciti ai conventi e alle chiese, riserbavano, ultimo privilegio, il paradiso; l’altra miserabile, oscena sopraffatta, perduta, rifiuto del cielo e della terra… la società del popolo, quella della miseria e delle sofferenze invisibili e taciturne; quella che non conosceva altro della vita se non ubbidire e servire e che non chiedeva più di un po’ di pane di buon peso della ricchezza altrui…tutta gente che si agglomerava nei vicoli bui, umidi, fra le immondizie ammucchiate, nonostante i bandi, qua e là in piccoli cumuli, fra i rigagnoli d’acqua sporca, che stagnavano negli avvallamenti del terreno male acciottolato: che viveva senza sole e senza aria nei ‘catodi’.[4]

Blasco dunque, è un eroe a tutto tondo nel cui animo domina un formidabile equilibrio tra ricorso alla forza e risposta ai sentimenti dell’amore che in lui diventa rispetto per l’altra, protezione, dedizione. Così l’amore per la giovane e bella Violante è lieve, angelico, e sovrasta ogni terrena passionalità, qualsiasi istintuale pulsione. E agli identici alti ideali risponde l’amicizia affettuosa, leale per Coriolano della Floresta, con il quale condivide il sentimento di vicinanza con gli afflitti, tormentati dalla miseria e dai soprusi. “Mi mancate, Antonio, mi mancate! Io vi amo!” Scriveva Leopardi ad Antonio Ranieri, senza misurare o soppesare le parole ma dando loro il giusto significato e liberandole poi perché esprimessero interamente il sentimento sotteso ad una amicizia così profonda da venire assimilata all’amore. E tale sentimento forte e appassionato è nel rapporto tra Blasco e Coriolano. Dice Coriolano al suo amico e protetto con una certa amara ironia sullo stato della nobiltà siciliana: “…Che cosa fanno tutti i giovani cavalieri e anche i vecchi? Vanno di qua e di là a conversazione, compiono i loro doveri religiosi, frequentano qualche bella donna, fanno della scherma, bastonano la povera gente, ogni tanto vanno a caccia, ogni meriggio al passeggio fuori Porta Nuova o alla Marina, e tutte le altre ore del giorno sbadigliano. Così fanno a Palermo e così fanno altrove. Ignoro se nelle piccole terre, nei castelli, faranno qualche cosa di più; forse faranno man bassa sopra le figlie e le mogli dei vassalli e faranno bastonare quei poveri diavoli che osano protestare con sottomissione. Che altro possono fare? Essi non hanno altro dovere che mangiarsi comodamente le rendite del loro patrimonio…”

“Ma questa non è vita!”

“Lo so; ma non ce n’è un’altra per noi. Siamo nobili per questo. La sola cosa di ordine diverso che possiamo fare è di imparare a comporre un sonetto, con l’aiuto di un abate o del nostro vecchio maestro, e recitarlo in un’accademia, in qualche occasione; il che può darci la reputazione di spirituali.”[5]

E non mancano sequenze in cui emerge la poeticità e l’eleganza, oltre che la sapienza costruttiva della narrazione. Eccone un esempio: “Erano gli ultimi di marzo; un pomeriggio tiepido e roseo, come ce n’è soltanto in Sicilia, e tutte le campagne verdi e i mandorli bianchi; nell’aria un odore di cose ignote che infondeva nel sangue una mollezza, una specie di lassitudine piena di desideri, una malinconia dolce e sognatrice.

Le anime che vivono nella solitudine sentono in queste giornate primaverili l’orrore del vuoto che le circonda, e sentono nel cuore una felicità a ricevere le impressioni e a chiudersi alla commozione e alla tenerezza.”[6]

Giunto alla fine del romanzo constato che mi ero abituato a trascorrere parte del mio tempo con Blasco, con Coriolano, con Donna Gabriella, con Andrea, con Violante e con gli altri personaggi de “I Beati Paoli”. Ora dovrò fare a meno di condividere le loro emozioni e le loro grandi passioni inserite in un tempo in cui agivano fortemente spinte ideali e radicali egoismi. Devo rientrare nel mio presente, ma il senso della Giustizia, il valore e il coraggio di Coriolano della Floresta rimarranno indelebili ad occupare un posto nel mio cuore; così come l’ardimento e la generosità di Blasco d’Albamonte, conte della Motta.

Non si può non riscontrare che molte pagine del romanzo diventano spesso un inno per i cuori nobili che hanno sete di verità e di giustizia, di pace e di bellezza. Per costoro esso diventa un’epopea di un cavaliere indomito che lotta contro il male, che s’affida a Dio quando il suo cuore è in tempesta e s’impaura e nella fede trova ancora forza per resistere contro ogni avversità.

È un romanzo questo che regala forti emozioni, che forma ed educa chi già possiede anima plasmabile ai nobili ideali.


[1] Luigi Natoli, I Beati Paoli, Sellerio Editore, Palermo 2016, pagg. 169-170

[2] Ibidem, pag. 208

[3] Ibidem, pag. 454

[4] Ibidem, pagg. 412-413

[5] Ibidem, pag. 392

[6] Ibidem, pag. 306

PERSONAGGI PRINCIPALI

– Don Emanuele La Motta, marchese d’Albamonte

– Don Raimondo La Motta, suo fratello

– Donna Aloisa, moglie di Don Emanuele

– Emanuele, suo figlio

– Andrea Lo Bianco, servitore di Don Emanuele

– Maddalena, serva e custode di Donna Aloisa

– Giuseppico, sgherro e galeotto al servizio di Don Raimondo

– Blasco da Castiglione, figlio illegittimo di Don Emanuele, cavaliere “senza macchia     e senza paura;

– Matteo Lo Vecchio, birro violento e crudele, spia e doppiogiochista, al servizio di Don Raimondo e nemico acerrimo di Blasco:

era un uomo sulla trentina, magro, ossuto, nero, con un volto volpino e due occhi di gatto; una espressione di astuzia e di ferocia, di simulazione e di cinismo, di doppiezza e di avidità. I suoi movimenti avevano l’elasticità dei felini, ma le mani lunghe e scarne sembravano artigli di rapace.” (157)

– Coriolano della Floresta, cavaliere e amico di Blasco; capo dei Beati Paoli:

“…Io studio! … Non sui libri, badiamo. Io studio gli uomini; un gran libro inesauribile, dove la natura ha scritto e scrive tutte le genialità più inimmaginabili, le scoperte delle quali produce delle sorprese spiacevolissime. Così, mentre in apparenza io conduco la stessa vita degli altri cavalieri, in realtà esercito continuamente il mio spirito in una occupazione dilettevolissima.” (393)

– Don Girolamo Ammirata, componente di una cellula dei Beati Paoli, borghese

– Francesca, sua moglie

– Donna Gabriella La Grua, bella e giovane moglie di Don Raimondo:

“…Bruna, coi capelli nerissimi, gli occhi ancora più neri, profondi, ombreggiati da lunghe ciglia vellutate, le labbra tumidette con gli angoli segnati da una lieve peluria di pesca; aveva sulla mobilità del volto tutte le espressioni del fascino: vivacità, malizia birichina, languore, passione, le quali si alternavano, si confondevano, talvolta specchio fedele dei vari stati per i quali passava l’animo suo. Era piccolina, sottile, ma non magra, e, nonostante la rigidezza delle vesti, volute dalla moda, aveva nei movimenti seduzioni feline. Pareva che il desiderio e la voluttà l’avessero plasmata e si fossero dilettati di lasciare la loro impronta sul suo corpo, per tormento degli uomini.” (181)

– Violante, figlia di primo letto di Don Raimondo e figliastra di Gabriella

– Don Nicolò Placido Branciforti, principe di Butera

– Don Ottavio Lanza, principe di Trabia

Note storiche: con la pace di Utrecht – 1708 – si pone fine alla guerra di successione che aveva visto contrapposte Austria, Olanda e Inghilterra contro Francia e Spagna. La Spagna tornò a Filippo V e Lombardia, Napoli e Sardegna all’imperatore d’Austria; la Sicilia al Piemonte di Vittorio Amedeo.

Luigi Natoli

Luigi Natoli, (Palermo 1857 – 1941), scrittore e giornalista, apparteneva a una famiglia dove forti erano gli ideali risorgimentali. Lavorò, dal 1888, come professore di storia a Palermo e poi in altri licei italiani. Fu repubblicano mazziniano e massone. Autore prolifico, scrisse 25 romanzi ambientati tutti in Sicilia e apparsi a puntate su giornali e riviste. Il più noto è certamente “I Beati Paoli” che costituì il primo romanzo di una trilogia cui appartiene “Coriolano della Floresta” e “Calvello il bastardo”.


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