Vasilij Grossman, “Vita e destino”, il romanzo capolavoro sui drammi del “secolo breve”

Alfio Pelleriti

PRESENTAZIONE

Il romanzo, pubblicato nel 1980 in Svizzera, doveva essere, nelle intenzioni dell’autore, un libro sulla seconda guerra mondiale, come il precedente, Stalingrado, e dunque una sua naturale continuazione. Grossman aveva tutti gli elementi per ricavarne due scritti importanti sia dal punto di vista letterario che storico, essendo stato per tre anni corrispondente di guerra sul fronte di Stalingrado con l’armata rossa. Fu lui infatti che per primo raccontò del genocidio degli ebrei nell’Europa orientale.

Vasilj Grossman

In realtà “Vita e destino”, rispetto al precedente, “Stalingrado”, assume una connotazione più politica, poiché presenta un atto d’accusa nei confronti dei due totalitarismi contrapposti, quello nazista e quello stalinista. Egli non solo non osservò il divieto di Stalin di tacere sulla Shoah ma mise sullo stesso piano i lager nazisti e i gulag comunisti. Alla pubblicazione del romanzo si oppose anche Nikita Chruscev sul quale Grossman ingenuamente confidava, credendo fosse venuto il momento di una svolta democratica in Unione sovietica.

Così, come “Il dottor Zivago” di Pasternak, anche “Vita e destino” fu messo all’indice e bandito dall’Urss e Grossman se lo vide sequestrato ed egli stesso fu spiato e controllato dal KGB fino alla sua morte, avvenuta per un tumore nel 1964.

Il libro poté essere pubblicato solo nel 1980 grazie ai coniugi Sacharov che lo avevano copiato ricavandone dei microfilm che fecero poi passare in Francia. Solo nel 1989, grazie ai radicali cambiamenti politici, ideologici ed economici introdotti dalla glasnost di Michail Gorbaciov, il libro sarà pubblicato e letto anche in Russia.

Non è un libro come un altro questo, no. È un capolavoro! E come tutti i capolavori è tale perché ciò che vi si racconta e il modo in cui viene raccontato riescono a rivelare l’anima di un popolo e in alcuni suoi capitoli, l’”anima del mondo”. “Vita e destino parla al cuore e alle menti dei lettori colpendoli, emozionandoli fino al pianto; illumina elementi della vita dell’uomo che insistono di solito in coni d’ombra assumendo toni drammatici o misteriosi o dolorosi: perché gli uomini si uccidono scatenando terribili guerre? Perché pochi uomini hanno deciso sulla vita e la morte di milioni di altri uomini? Quale relazione si instaura tra gli individui e il tempo loro concesso che finisce con la morte? Perché i genocidi nella storia dell’uomo? Perché provocare la morte di milioni di uomini per imporre un’ideologia e un potere bugiardo e barbaro? Come reagisce un uomo accusato ingiustamente di gravi crimini e poi condannato? E altri interrogativi sull’esistenza dell’uomo del XX secolo ma che d’un tratto diventano interrogativi universali, così come i poemi omerici, così come le tragedie di Shakespeare, così come i romanzi di Fedor Dostoevskij.

Un romanzo che approda all’epica, insomma! Che educa e contribuisce a formare le coscienze. Un romanzo da proporre nelle scuole superiori affinchè i ragazzi, insieme ai docenti, possano, leggendolo, costruire basi solide per una coscienza sensibile ai valori della democrazia, della libertà, della convivenza civile. 

Alba sul Volga
Lettera a Viktor
La madre sulla tomba del figlio Tolja

LA RECENSIONE:

Il libro è diviso in tanti paragrafi che servono all’autore per presentare al lettore uomini, donne, famiglie in momenti storici particolari: quello della guerra civile tra menscevichi e bolscevichi; quello prerivoluzionario, del totalitarismo stalinista; l’invasione nazista durante la seconda guerra mondiale, l’assedio di Stalingrado; i ghetti ebraici e la deportazione verso lo sterminio nelle camere a gas. Insomma non c’è un eroe o dei personaggi principali ma unico protagonista è il popolo russo. Certo la famiglia di Viktor fa da perno e da simbolo in questo grande romanzo sul popolo russo. E Ljudmilla Nikolaevna ne rappresenta l’anima e attraverso la sua sensibilità e il suo dolore il lettore può cogliere l’amore e lo struggimento di Grossman per la Russia.

Già dalle prime pagine dici a te stesso di aver fatto una buona scelta: la lettura è piacevole e interessante e vorresti fissare nella tua memoria tante sequenze, qualche periodo, una frase almeno per ogni pagina meritoria di essere ricordata, densa com’è di saggezza e di verità.

L’azione si svolge a Stalingrado durante l’assedio della città da parte delle divisioni guidate dal generale Von Paulus nel corso dell’operazione Barbarossa, cioè l’invasione nazista dell’Unione sovietica, lì dove si combatte casa per casa nella città assediata, tra le rovine o in trincee scavate e fortificate per resistere ai continui martellanti bombardamenti. Assieme a grandi eventi, nel romanzo sono presenti anche episodi piccoli, perfino banali, costituiti da incontri e scontri tra ufficiali, a cui si aggiungono storie ricordate e rivissute dai soldati relative alla loro vita lasciata qualche anno prima a Mosca, a Kiev, a Leningrado. Poi, con l’inizio di un altro capitolo, si apre un’altra storia, quella della mattanza degli ebrei russi sotto l’occupazione nazista che si avvale delle denunzie e dei tradimenti di tanti russi che, senza remore morali, con compiacimento perfino, vendono ai nazisti quegli ebrei con i quali avevano diviso il loro tempo libero o avevano lavorato insieme o si erano incontrati per anni nello stesso pianerottolo. “Molte persone mi hanno stupito. E non erano solo ignoranti, gente incattivita e rozza. Un vecchio insegnante, per esempio, un pensionato che mi chiedeva sempre di te, mi diceva di salutarti e ti definiva ‘il nostro orgoglio’. In quei giorni maledetti se mi incontrava non mi salutava, si girava dall’altra parte… Qui quelli che chiedono di liberare la Russia dagli ebrei si umiliano di fronte ai tedeschi e sono pronti a vendere la Russia per trenta denari nazisti”.[1]

Esiste una vasta letteratura sull’universo concentrazionista e il genocidio degli ebrei, ma questo scritto di Grossman è toccante, commovente, poetico nel denunciare il piano atroce perpetrato da Hitler e attuatosi grazie alla malvagità che alberga nel cuore degli uomini, pronta a venir fuori se opportunamente stimolata: “Mi ha commosso il cagnetto Tobik, un bastardino, che l’ultima sera mi ha scodinzolato più del solito. Se mai capitassi da queste parti, dagli qualcosa da mangiare per l’affetto dimostrato a una vecchia giudea.[2]

Grossman a Stalingrado

La descrizione dei campi di concentramento nazisti è analitica, puntuale, poiché per l’autore il nazismo e i lager sono facce della stessa medaglia e l’uno senza gli altri non si comprenderebbero. Grossman, con una prosa e uno stile superbi, presenta i suoi protagonisti nella miserrima condizione degli internati: il prete italiano Guardi, i russi Michail Siderovic Mostoskoj, Agrippina Petrovna. I loro dialoghi portano il lettore accanto a quegli uomini che resistevano per mantenere anche in quell’inferno una qualche dignità umana. In tale contesto è da segnalare una lettera a Viktor, soldato sul fronte di Stalingrado, che dovrebbe essere letta nelle scuole perché testimonia non solo il dolore della popolazione ebraica sotto il giogo della barbarie nazista, ma è anche una riflessione sull’uomo, su ciò che può scatenare di orripilante, se un dittatore ne fornisce la possibilità. È una madre che scrive al figlio al quale vuole spiegare ciò di cui sono capaci gli uomini: essi tradiscono, uccidono senza alcun motivo, fanno soffrire i più deboli per compiacersi del dolore dei sottoposti. È così realistica la lettera perché la madre scrivendola spera di rendere edotto il figlio sulla natura dell’uomo e su ciò di cui è capace, affinché egli si possa difendere dagli ipocriti e dagli arrivisti senz’anima. È una lettera struggente che induce al pianto e in quelle lacrime si aderisce emotivamente a quell’amore materno che nessuna dittatura potrà mai distruggere.

La denuncia di Grossman, tuttavia, non riguarda soltanto il nazismo ma anche il totalitarismo sovietico: la sua è infatti una tra le più amare e coraggiose analisi dello stalinismo: “Sagojdak aveva scritto che la carestia era colpa dei kulaki che seppellivano espressamente il grano e non mangiavano, si gonfiavano e morivano a villaggi interi: vecchi e bambini compresi, e tutto per nuocere allo Stato.” (Cosa non si direbbe o farebbe per la propaganda, compiacendo il padrone!!).

La disfatta nazista a Stalingrado

 “Vita e destino” è straordinariamente attuale e rivelatore di quali caratteristiche entrino in scena quando un dittatore si impadronisce del potere e gestisce dispoticamente una comunità. Allora quella miseranda nazione patirà le vessazioni di uno Stato totalitario e ogni individuo sarà chiamato a rispondere alle direttive sempre con un sì. Il romanzo di Grossman sembra essere stato scritto per la situazione drammatica che stiamo vivendo in questo nostro presente con la guerra che si combatte in Ucraina invasa dalla Russia. Una guerra che non si può definire tale in Russia ma “operazione militare speciale”; un’azione militare che, secondo la propaganda ufficiale, non sarebbe un’aggressione di uno Stato sovrano ma un’azione per la “liberazione dell’Ucraina dalle forze naziste”; un’operazione di “denazificazione”, sostengono i Russi, contro ogni evidenza concreta. E a patire tale distruzione totale, con città rase al suolo, ospedali, scuole e impianti industriali distrutti, sono famiglie annichilite e private di tutto ciò che erano riuscite a creare nel tempo precedente l’attacco ferale.

E gli Ucraini ancora patiscono come nel 1930, quando lo Stato sovietico impose loro la collettivizzazione e milioni furono le vittime per fame. E poi ancora altri drammi nel 1937, con i processi farsa e le condanne spietate e ancora il 1941, con l’invasione tedesca, e ancora uccisioni e vittime civili, con i pogrom antisemiti e i prigionieri di guerra nei lager.

È un romanzo quello di Grossman ove si incontrano pagine che lasciano senza fiato, profondamente poetiche; vere, perché colgono l’essenza del reale e puntano al cuore del lettore, poiché focalizzano sentimenti sempiterni: la pietà e la generosità, la compassione, come Ljudmilla che si accosta al cieco evitato dai più, guidandolo e aiutandolo a prendere il tram mentre intanto si chiedeva perché “la nostra povera Russia sterminata, dava la sensazione di non sapersela cavare nella tundra della vita”.

“Vita e destino” è, oltre che uno splendido romanzo, un trattato sulla storia e la cultura russa, sul rapporto non sempre idilliaco tra le varie nazionalità che composero l’Unione sovietica dopo la rivoluzione del 1917, e tenuta unita con il totalitarismo stalinista. Grossman mette davanti al lettore tutti gli elementi per poter comprendere la sensibilità russa, ma anche comportamenti spesso contraddittori: l’antisemitismo, la repressione delle minoranze etniche e religiose e del dissenso interno; i processi farsa degli anni 1936-1937 con i quali si eliminarono tutti i quadri al vertice dell’esercito pochi anni prima dell’invasione delle armate di Hitler. Non fa sconti l’autore nel presentare Stalin che continuò a tenere il popolo russo in una condizione di minorità rispetto ai grandi passi verso la democrazia che aveva fatto l’Occidente. Ai russi la visione della realtà si concedeva filtrata da regole censorie che riguardavano soprattutto l’espressione artistica: sì al realismo socialista, no al “decadentismo artistico” occidentale, tacciato di “individualismo” e dunque di essere sobillatore delle coscienze.

Disse Sokolov: Vede, per qualche motivo a noi Russi l’orgoglio nazionale è vietato, altrimenti finiamo subito tra le Centurie Nere.[3]

Mad’jarov: Iniziamo rispettando, compatendo, amando l’uomo, altrimenti non ne verrà nulla. È questa la democrazia, la democrazia mai nata del popolo russo. In mille anni i russi ne hanno viste di tutti i colori, hanno visto la grandezza e la megalomania. Una cosa non hanno mai visto, invece: un sistema democratico…la democrazia vera, la democrazia dell’uomo non si addice ai sovietici.”[4]  

Giunto quasi a metà del ponderoso romanzo di Vasilij Grossman, resto sempre più meravigliato di quanto sapiente e profondo sia questo scrittore. Egli si colloca, secondo me, nell’ambito della tradizione narrativa russa, caratterizzata dall’esigenza di scendere in profondità nell’analisi delle vicende umane. Grossman, come Dostoevskij, dunque, non si limita a scavare nelle zone buie dell’animo dei personaggi; non vuole soltanto aggiungere osservazioni sul sottosuolo dell’inconscio per approfondire il concetto di sostanza antropologica ovvero per delimitare i raggi d’azione dell’uomo, osservato nella sua singolarità, con le sue scelte esistenziali che lo portano spesso a scacchi ed amare disillusioni. Grossman aggiunge elementi a tali analisi, che rimandano ad uno spettro più ampio: rimandi storici, militari, ideologici, psicologici, antropologici perfino (sulla natura degli slavi) e il tutto egli lo porge sotto forma di racconto denso di personaggi, fitto di dialoghi, di considerazioni filosofiche (splendido il capitolo sull’amicizia); attualissime le considerazioni politiche sul totalitarismo, sulla burocrazia, volutamente ottusa e autoreferenziale, che diventa arma sottile per piegare il naturale anelito alla libertà dell’uomo.

Da leggere nelle scuole

Il romanzo è come una rosa rossa: il colore rappresenta l’ideale cui si ispira l’autore e cioè quello di mettere in luce il valore della libertà e della giustizia condizioni indispensabili per il rispetto della dignità di ogni persona a prescindere dalla razza, dalla confessione religiosa, dall’etnia. I petali rappresentano tutte le storie che si incrociano ed intersecano, avendo però quei valori come denominatore comune.

La terza parte del romanzo si apre con l’arresto di Krimov da parte di un commissario politico sul fronte di Stalingrado. Lui, che era stato un comunista della prima ora, che aveva conosciuto Lenin e ricevuto gli encomi di Stalin, che si era distinto al fronte per coraggio e abnegazione, ora veniva arrestato e condotto alla Lubjanka (sede dei servizi segreti sovietici e russi: la Ceka, il KGB e l’FSB, oggi) a Mosca come un traditore della patria. Sono pagine drammatiche sulle accuse ingiuste e inventate a suo carico che lo privano delle libertà personali, che lo umiliano come persona, che, con le torture sistematiche, gli tolgono speranza, certezze, precipitandolo in una realtà assurda e capovolta dove non si risponde alla logica consueta, normale. L’accostamento al Processo di Kafka viene spontaneo. Tuttavia, se l’elemento che accomuna i due romanzi è la sottolineatura della orrenda, drammatica situazione in cui un uomo si trova a vivere sotto le grinfie di un sistema repressivo con i suoi tanti ingranaggi sociali e politici che diventano meccanismi burocratici privi di qualsiasi umanità, la differenza fondamentale consiste nel fatto che “Vita e destino” non si basa su elementi fantastici o su un’astrazione filosofica ma su una cruda e drammatica realtà storica, su un’orrida dittatura, su un ferale totalitarismo che beffa il popolo con l’uso di un linguaggio “rivoluzionario” e “comunista”. Una dittatura che fu responsabile dell’uccisione di decine di milioni di persone senza colpa.

I prigionieri restavano in cella otto mesi, un anno e mezzo: la durata dell’inchiesta…Molti dopo la Lubjanka sparivano per sempre. La Procura comunicava ai parenti la condanna – dieci anni senza diritto alla corrispondenza -, ma nei lager quei detenuti non arrivavano mai. Dieci anni senza corrispondenza significava per forza qualcos’altro: fucilato…Intanto le macchine continuavano a portare nuovi prigionieri: centinaia, migliaia, decine di migliaia di persone sparivano oltre la porta della prigione interna della Lubjanka.”[5]


[1] Grossman Vasilij, Vita e destino, Editore Adelphi, Milano 2012, pag. 69

[2] Ibidem, pag. 70

[3] Ibidem pag. 244

[4] Ibidem, pag. 243

[5] Ibidem, pp.543-546


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