Alfio Pelleriti
Fedor Dostoevskij comincia a lavorare ai “Demoni” alla fine del 1869 pubblicandolo nel 1873. L’azione si svolge nei pressi di San Pietroburgo e la voce narrante è quella di un ex ufficiale Anton, amico di Stepan Trofimovic, che nel primo progetto dell’autore avrebbe dovuto essere il protagonista, ma che rimarrà invece in una posizione secondaria cedendo la scena ad altri personaggi più fortemente connotati.

Avverto nella lettura di questo romanzo, la solita difficoltà che ritrovo in tutta la letteratura ottocentesca data dalla necessità dello scrittore di fornire al lettore tutti gli elementi del contesto ambientale e degli elementi psicologici e caratteriali che connotano ciascun personaggio. Egli sente il bisogno di dare al lettore tali dati analizzando puntigliosamente ogni moto del cuore e della mente; ogni lieve cambiamento nei gesti e nel portamento; ogni pensiero che attraversa la coscienza dei suoi personaggi; e l’azione si svolge in un tempo che non ammette salti, in uno sviluppo lento e lineare. Si passa da un salotto all’altro attraverso fitti dialoghi tra personaggi che non esprimono pienamente la loro personalità poiché l’autore lascia sempre qualcosa in ombra, di “non detto”. Si richiede costanza al lettore che aspetta che accada finalmente qualcosa di interessante, di drammatico o di gioioso e invece no. Finito un incontro nel salotto di Varvara Pavlovna ne comincia un altro a casa di Julia Michajlovna von Lembke e così via.
Si arriva ben oltre la metà delle ottocento pagine del romanzo e si ha l’impressione di trovarsi ancora nell’antefatto, nell’introduzione di una storia che non si apre e ci si ritrova immersi in un continuo viavai di personaggi che scalzano quelli precedenti. Lo stesso protagonista Stepan Trofimovic, perde il suo ruolo a favore del figlio di Varvara Petrovna, Nikolay Vsevolodovič Stavrogin e poi si fa strada il figlio insurrezionalista di Stepan, Pëtr Stefanovic, e tutti si muovono in una atmosfera grigia, cupa, decadente, dove uno dopo l’altro crollano i valori, dove i dubbi sull’etica e sulla giustizia e sulla lealtà sono evidenti.
Ma come si fa ad affermare che un romanzo del grande Dostoevskij non avvince, che si fatica a leggerlo? Ma come si fa a non avere fiducia nel grande scrittore russo? Lo scrittore conferma infatti la sua grande abilità di narratore anche con “I demoni”, dove si toccano vette molto alte poiché egli, come pochi, riesce a dosare i vari elementi descrittivi fin quasi a rendere visibile il tipo umano di riferimento e soprattutto fornisce tutte le informazioni utili a dare una lettura della psicologia profonda di ciascuno. Tocca al lettore poi intervenire, raccogliere tali elementi e metterli insieme per capire fino in fondo contesto, azione, psicologia, temperamento, comportamenti fobici o diabolicamente malvagi.

Succede, dunque, che mentre il lettore procede un po’ stanco tra il vago e l’effimero della quotidianità, ad un tratto, così, quasi per caso, Stepan Trofimovic incontra un uomo che gli parla della vita e del suo significato profondo, del suicidio, di Dio, della paura della morte e ci si trova davanti ai grandi temi della filosofia.
Sì, più che con altri romanzi, con “I demoni” bisogna avere pazienza e aspettare che l’autore abbia presentato la sua variegata umanità che poi muove sulla scena come il puparo con i suoi pupi. È in questa seconda parte che l’autore alza gli occhi, si gira lentamente e li punta dritti verso quelli del lettore ponendogli delle domande su questioni vitali per trovare risposte al senso della vita e al rapporto con entità trascendenti la realtà; domande che mirano a questioni sempre aperte che attengono la libertà personale, le scelte esistenziali tra bene e male; il rapporto tra coscienza morale e struttura etica della società di riferimento; rapporto tra fede in Dio e fedeltà alla Terra, tra religione e scienza, che nella ragione vede il solo strumento per risolvere ogni questione individuale o sociale.
Dice Pietro Citati sulla prima parte del romanzo: “Nella prima parte, passeggiò amabilmente sulla superficie iridata dell’esistenza, ostentò futilità, ironie tenui e scintillanti, come se fosse diventato un altro scrittore… diventò un cronista provinciale, un modesto funzionario, un uomo limitato, difensore dell’ordine costituito; e gli attribuì il proprio fraseggio narrativo, dietro il quale avvertiamo uno spirito abissale.”
Molto interessante è il capitolo sul carattere “maligno” dei russi che godono delle disgrazie altrui. Una caratteristica che va aldilà della semplice curiosità e della mormorazione conseguente. Il riferimento tocca una corda più profonda che attiene il desiderio di annullare l’altro, di ucciderlo lentamente, con sadica lucidità. Una componente umana che di solito si cerca di nascondere o di camuffare con atteggiamenti, azioni o con linguaggio opposti al desiderio represso sottostante. Un sentimento che porta all’aggressività verso chi rivela qualità non comuni con le quali suscita invidia, gelosia.
Si potrebbe anche considerare il romanzo un saggio sul rapporto tra il carattere dei russi e la loro storia condizionata dalla mancanza di un ceto medio e quindi dalla polarizzazione sociale conseguente tra aristocrazia e popolo. La prima in decadenza, priva di qualsiasi iniziativa economica o di stimoli culturali che non siano feste, giochi, ricerca del piacere, l’altro polo, il popolo, stagnante da secoli nella povertà e nell’ignoranza, succube di pregiudizi e di false convinzioni e quindi facilmente manovrabile dalle volpi di turno. Anche l’improvvisa apertura della narrazione alla preparazione di un movimento rivoluzionario risulta ammantato da un grigiore di fondo e da un distacco dell’autore da un evento percepito come velleitario sebbene violento come tutte le insurrezioni.
Queste mie considerazioni le trovo anche nell’illuminante saggio di Citati, “Il male assoluto”. Dice infatti il critico letterario: “Dostoevskij aveva compreso che la società russa era minata. Il caos politico, il disordine amministrativo, la leggerezza delle classi dirigenti corrodevano ogni cosa: le cloache della città stavano per spalancarsi; il fanatismo ossessionava le anime dei giovani più ingenui. Tutto era pronto a incendiarsi, come le tetre case dei borghi artigiani e operai; e fra poco l’incoscienza e la volontà avrebbero acceso una fiammata, dove sarebbero bruciati insieme i giusti e gli ingiusti, gli innocenti e i colpevoli.”[1]

Leggendo il giudizio di Pietro Citati sul romanzo e sul suo illustre autore si ha l’impressione di aver trovato il proprio “Virgilio” cui stare accanto perché ti illumini su ciò che sconosci o su ciò che credevi di sapere. Così ho appreso che Dostoevskij nel 1867 si trovava tra Dresda e Ginevra con la sua seconda moglie, la ventenne Anna Grigor’evna, innamoratissima di lui, attenta a tenere un diario non su di lei o su di loro ma solo sullo scrittore, annotando scrupolosamente tutto ciò che diceva o faceva o i suoi silenzi, le sue ansie, i suoi momenti di irascibilità.
“I demoni”, fu scritto in un periodo molto critico della vita dello scrittore. In quegli anni infatti il gioco lo aveva totalmente preso e condizionato. La roulette era divenuta la sua ossessione e ad Amburgo, a Baden, a Basilea giocò e perse tutti i suoi risparmi, impegnando poi i gioielli di lei, la pelliccia e il cappotto. Soffriva di crisi epilettiche ed era convinto che quella sua malattia che lo sconvolgeva nel fisico e nella mente fosse il segno di una possessione del demonio.
Nel settembre 1869 a Dresda, Anna partorì la seconda bambina, Ljuba, dopo che la prima, Sonja, era morta. Dostoevskij fu felice grazie a quella bambina sempre sorridente, ed ebbe a scrivere in un appunto: “Perché non avete bambini? Vi giuro che sono i tre quarti della felicità terrestre, tutto il resto non è più di un quarto.”
Quegli anni trascorsi in Europa furono un vero precipitare nel peccato, uno sprofondare continuo nelle debolezze e nel vuoto del nichilismo. Poi, in una notte trascorsa vagando nella città di Wisbaden, alla ricerca di una chiesa ortodossa, all’improvviso avvertì che in lui qualcosa era cambiato: quella sua incombente necessità di cercare il volto di Cristo, quel suo tendere la mano verso il Salvatore, fecero scattare in lui un cambiamento radicale e da quel giorno non giocò più. Fu come avere allontanato i demoni dal suo cuore, come successe all’indemoniato del Vangelo: erano entrati nel gregge dei porci gettandosi nel lago e affogando. Fu libero da quel giorno e poteva dedicarsi, dicembre 1869, alla scrittura dei “Dèmoni”.
Trovò nella “Gazzetta di Mosca” il caso di Sergej Necaev, allievo di Bakunin, organizzatore di una cellula terroristica tra gli studenti di Mosca e che, su suo ordine, era stato ucciso un giovane affiliato che voleva abbandonare il gruppo. Necaev avrebbe ispirato il personaggio di Pëtr Stefanovic.
Citati analizza uno ad uno i personaggi principali del romanzo e ne sviscera le caratteristiche, le contraddizioni, il ruolo nel contesto dell’epoca, il rapporto con lo scrittore, tuttavia supera se stesso quando presenta, Pëtr Stefanovic: “Chiacchiera, chiacchiera, insidia, maligna, corrode, calunnia, mente, inganna, arruffa, ostenta, mistifica, salta di palo in frasca; insinua un inciso dentro un inciso, e poi spezzetta, spezzetta… il suo vero padre è l’uomo del sottosuolo. Dostoevskij vedeva in lui un Mefistofele moderno: ora fanatico ora buffone da operetta. Ama fare il male, e disprezza il male. Ride malignamente, sorride velenosamente, ghigna malvagiamente. Non crede in nulla: nemmeno nella rivoluzione; deride ogni filosofia, ogni ideologia, ogni idea, sebbene sia una vittima della ragione.”[2]
Procedo lentamente nella lettura de “Il male assoluto” di Pietro Citati da cui attingo il commento ai “Demoni” per godermelo, poiché ogni suo capoverso è un disvelamento, una interpretazione che diventa luce chiara e lieve. E ti assale allora il desiderio di riprendere il libro e rileggerlo per poter gustare anche quelle pagine che non avevi pienamente digerito, di cui non riuscivi a capire quale ruolo giocassero nell’economia del romanzo. Dice Citati: “La sovrana e vertiginosa architettura: l’intreccio romanzesco, che Dickens avrebbe invidiato: la leggiadra eleganza dell’inizio, e poi il furibondo diapason drammatico e grottesco, quella accelerazione progressiva del racconto, quella spirale ascendente e infine la nuda tragedia senza commento: il rapporto tra i personaggi: i sublimi dialoghi filosofici… l’orchestrazione delle voci dei personaggi di cui conosciamo il suono, il peso e il colore – non c’è aspetto dei Demoni che non incarni l’immagine della perfezione.”[3]
Altro protagonista del romanzo è certamente Nikolaj Vsevolodovic Stavrogin, un ufficiale abituato a vivere nel bel mondo dei salotti aristocratici ma anche avvezzo a frequentare taverne d’infimo ordine. Istruito e conoscitore dei settori culturali che contano per avere una visione della realtà profonda, non disdegna tuttavia frequentare individui loschi e pronti ad ogni tipo di azione malvagia. È un personaggio misterioso che pare voglia sfidare il senso comune, giusto per affermare la sua personalità oltre ogni convenzione sociale, oltre anche il limite della legge o degli imperativi etici della sua coscienza.
Lasciamo ancora la parola a Pietro Citati che così delinea con magistrali pennellate Stavrogin, esempio di come anche la critica letteraria possa dare molto allo sviluppo ermeneutico della creazione artistica raggiungendo vette alte con soavità e leggerezza poetica: “Stavrogin è un mondo, un universo, un concentrato della letteratura universale. Ora è Amleto, ora il principe Harry, ora don Giovanni, ora Faust… ecco lo spleen: la noia; la nostalgia dello straniero, che non è mai qui, prigioniero del carcere della vita. Ecco la selvaggia sfrenatezza: l’amore della turpitudine: il desiderio di seduzione: la passione dell’abisso, dove si getta a capofitto. Il demone dell’ironia… egli condivide tutti i sentimenti opposti, il male e il bene, la luce e le tenebre… cosa lo occupa, senza quasi lasciarlo respirare, è il vuoto: in lui soffia il vento gelido e vertiginoso, illimitato e senza confini, ubiquo e irraggiungibile.”[4]
Stovrogin è il Male, vive nel male, ne gusta il sapore, l’odore, la visione. Viola una bambina che poi s’impicca e lui la lascia fare per gustarne l’orrido spettacolo di lei che penzola attaccata alla corda in una squallida soffitta: “è una pagina terribile, che si legge con malessere e angoscia, tanto Dostoevskij varca ogni limite e ci sembra di abitare dentro il Male”.
Sarei tentato di affermare che questo romanzo si fa interessante solo nella terza parte e negli ultimi capitoli in particolare, quando il lettore comprende la ragione della scelta del titolo, “I demoni”. I demoni agiscono in personalità disturbate e invase da sentimenti negativi come l’odio di classe, l’arrivismo, l’invidia, la sete di potere, il sadismo, l’avidità. Tutti coloro che si lasciano prendere da tali sentimenti e che non si misurano con la morale e il senso religioso della vita possono diventare strumenti del malvagio.
Dunque il focus del romanzo è un’analisi della malvagità umana osservata in una storia, una delle tante storie che potevano accadere in Russia, un luogo speciale e particolarmente versato per accogliere tali individui. Costoro sono coinvolti nell’organizzazione di una insurrezione, ma non tanto per trovare senso alla loro vita o per la realizzazione di un progetto politico, quanto piuttosto per dare libero sfogo ad istinti aggressivi e malvagi seguendo un “cupio dissolvi” che è l’esatto contrario della vita.
Nell’ultima parte del romanzo Dostoevskij oppone a tale oscura concezione della vita un’altra possibile scelta, quella della vita prospettata dal Vangelo, con i suoi ideali dell’amore, del perdono, della generosità, della fratellanza. Tuttavia, tali ideali, sembra affermare il Nostro, non si potranno mai affermare se non si passa attraverso una riflessione seria, interiore, mistica, monacale per potere scoprire la dimensione spirituale, l’unica che concede gioia, pace, realizzazione piena. E finalmente la paura scompare dalla vita degli uomini quando la Parola li libera rendendoli autentici figli di Dio, degni di potere godere della Bellezza del Creato, degni di potere entrare nel Circolo Eterno della Creazione al di là della morte, divenendo, come afferma il teologo Vito Mancuso, delle “luminose note musicali” che conserveranno per sempre la loro identità pur essendo una parte dell’Intero.
IL DEMONE DEL XXI SECOLO
Non si può non cogliere un’assonanza tra il tema trattato ne “I demoni” da Dostoevskij e la guerra scatenata in Ucraina dal presidente russo Vladimir Putin. Una guerra totale giustificata, secondo la sua versione, dalla “necessità” di difendere i confini russi da chi voleva avvicinarsi al modello democratico europeo per organizzare la vita della comunità nazionale.
Non pago dall’essersi già annesse alcune aree ucraine (Donbass, Crimea), Putin, novello Hitler, attacca, bombarda, rade al suolo città, uccide civili inermi, assolda tagliagole ceceni e siriani, infiltra sabotatori che uccidono nell’ombra. Dostoevskij che leggeva “La gazzetta di Mosca” fino all’ultimo rigo, non avrebbe certo mancato di inserire tale demone che fa impallidire il suo Stavrogin, che, prima di impiccarsi, comunque si ricorda del messaggio evangelico e vive una forma di pentimento col suo gesto estremo.
Putin si muove in perfetto stile demoniaco, ribaltando la realtà con una propaganda realizzata con spudorate menzogne. Si autoproclama liberatore non invasore e uccisore di civili inermi tra cui bambini. In perfetto stile dittatoriale convoca la sua folla oceanica per aizzarla con le sue false promesse, con le sue minacce volgari, con i suoi blasfemi riferimenti al Sacro testo.
La differenza sostanziale tra questo malvagio del XXI secolo e quei dannati di fine 800 di Dostoevskij sta nel fatto che costui è a capo di uno dei più potenti eserciti della Terra e che tra i suoi arsenali vi sono armamenti atomici con i quali già minaccia una terza guerra mondiale che porterebbe a sicura catastrofe globale.
[1] Pietro Citati, Il male assoluto, Adelphi edizioni, Milano 2013, pag. 291
[2] Ibidem, pag. 292
[3] Ibidem, pag. 289
[4] Ibidem, pag. 296