Alfio Pelleriti
Siamo tutti scossi dalla guerra in Ucraina. Non si può rimanere insensibili guardando il piccolo in braccio al papà soldato che piange disperato colpendolo sull’elmetto, novello Astianatte in braccio al padre/Ettore, non accettando quell’innaturale partenza di un suo vitale riferimento, pilastro importante per la sua esistenza che è appena iniziata. Come non piangere insieme alla madre che si stringe al petto il figlioletto dopo l’esplosione del missile che ha sconvolto l’ospedale pediatrico di Mariupol? Come non rimanere esterrefatti guardando la madre e i suoi figli uccisi mentre scappavano in cerca di salvezza e rimasti sul selciato? Come non sentirsi coinvolti guardando le migliaia di sfollati che hanno perso tutto e fuggono inseguiti dalle bombe scagliate dagli invasori? Forse ora più che in passato si ha la percezione di cosa significhi vivere una tale esperienza, uscendo da tutti i filtri retorici che l’hanno da sempre accompagnata, il cui maggior veicolo comunicativo fino a qualche decennio fa è stata la scuola.

La guerra intesa come epopea dei popoli, o come strumento indispensabile per forgiare lo spirito di un popolo veniva presentata a noi, alunni degli anni 50 e 60 dello scorso secolo, come il teatro dove si misuravano gli eroi della patria, la scena dove atti eroici individuali diventavano il paradigma caratteriale, genetico di un popolo. Era la guerra che dava sostanza con il suo contributo di morti e di sangue, di distruzione e di sofferenza ai valori cui si richiamava la comunità nazionale. Primo tra questi l’ideale di “patria”, per il quale non è ammessa alcuna precisazione o alcun distinguo, pena l’essere additato come un insensibile gretto individualista. L’idealismo filosofico tedesco ha contribuito notevolmente a fondare le basi ideologiche del nazionalismo europeo: Fichte, con i suoi “Discorsi alla nazione tedesca” del 1807/1808 e soprattutto Hegel che porta fino alle estreme conseguenze logiche, sociali, politiche il focus della sua filosofia, la dialettica, intesa come contrasto tra opposti che si superano e si conservano fino alla piena realizzazione del “Weltgeist”, dello “Spirito del mondo”, che in una fase precedente si presenta come “Volkgeist”, “Spirito di un popolo”, che a sua volta si attua grazie alla cosiddetta “Astuzia della Ragione” la quale si avvale dei grandi eroi storici e della guerra per portare a compimento le linee di sviluppo della storia. A tal proposito è nota la frase che avrebbe espresso Hegel alla vista di Napoleone dopo la battaglia di Jena: “Ho visto lo spirito del mondo a cavallo!”

Il nazionalismo imperante nell’Ottocento e poi nel Novecento ha coltivato tale sentimento per imbellettare e giustificare una politica aggressiva ed espansionistica a danno delle popolazioni più deboli, per sottometterle e per depredarle delle loro risorse, senza voler andare ancora indietro nel tempo, all’età dell’imperialismo portoghese e spagnolo, dopo la scoperta nel 1492 delle Americhe, quando i bianchi, civili e cristiani europei commisero inenarrabili nefandezze a danno di popolazioni inermi. Dalla Francia, all’Inghilterra, dal Portogallo alla Spagna, dalla Germania all’Austria, alla Russia prima all’URSS dopo, agli Usa, all’Italia fascista, al Giappone, pochi sono gli Stati che possono tirarsi fuori da tale pernicioso, mortifero elenco.
Del resto, se la retorica della guerra su cui costruirono le loro fortune il poeta “vate e guerriero” Gabriele D’Annunzio e i gli scrittori e poeti futuristi, gran sacerdoti del Dio della guerra, che inneggiavano al “suono” della mitragliatrice e insieme gli “Alalà” dei tagliagole degli arditi del Piave si affermarono, si deve al lato oscuro e ferale dell’animo umano che si conserva ancora selvaggio come lo era nel tempo “della pietra e della fionda… delle ruote di tortura e delle forche”.
Ho ancora vivido il ricordo delle esclamazioni di gioia, delle urla guerriere di non pochi che davanti allo schermo della televisione si alzavano alla vista dei bombardieri americani che scaricavano le loro micidiali bombe sulle città irachene o su colonne di automezzi dell’esercito che saltavano in aria spezzando vite di giovani uomini.
Oggi attraverso gli inviati di guerra e la possibilità di fare arrivare in tempo reale anche solo dei fotogrammi della realtà bellica, quell’orrore entra nelle nostre case e quelle case distrutte, quelle esplosioni, quei volti disperati di madri, quegli occhi smarriti di bimbi ci interrogano e vogliono dalla nostra coscienza risposte, chiare, non ammantate da ipocrite analisi volte alla fuga da una riposta personale non più rinviabile. È impossibile distrarsi, né si può procrastinare un giudizio. Quelle immagini ci chiedono di tornare al passato e di annullare l’idea romantica e bugiarda della guerra per scoprire il sentimento della compassione e del compatimento e per provare finalmente a staccarci dall’idolatria del denaro tentando di scoprire la gioia che viene dalla capacità del gesto solidale, amico, fraterno, generoso, cristiano.

A Quasimodo e all’uomo del mio tempo
Ancora si uccide, ancora guerra
e le madri piangono i figli
ingannati dal tiranno.
Ancora le ali sono maligne
e non risparmiano gli inermi.
Ancora le parole nascondono l’inganno
di chi trasforma i prati in un deserto.
Le case bruciano e i vecchi
sono al gelo disperati;
i bimbi hanno perso i loro giochi
ed entrano negli incubi
la notte, squassata dall’urlo
degli allarmi, dai boati
feroci delle bombe.
Ancora crollano i palazzi,
ancora il fuoco spazza via
ogni bellezza e nei giovani
svanisce ogni certezza,
crolla in loro la speranza
ch’era grande con il “sì”
pronunciato al sacro altare.
Ancora non c’è spazio per l’amore
e su questo Tuo creato, Signore,
si combatte tra fratelli e poi si muore.
Salgono ancora le nuvole di sangue
dalle città, dai campi, lì dal fiume.
Il cuore dei figli è lì che langue:
con un fucile li han mandati
ad uccidere giovani soldati
e in quell’aria che raggela
si chiedono perché son nati.
Alfio Pelleriti