di Alfio Pelleriti

“Patria”, romanzo dello scrittore spagnolo di San Sebastian, Fernando Aramburu ha registrato un grande successo in Spagna nel 2016 e nel 2017 anche in Italia, aggiudicandosi il Premio Strega europeo e il Premio letterario internazionale Tomasi di Lampedusa nel 2020 (Patria, Editore Guanda, Padova 2021, pagg. 632). Aramburu piega la lingua alle necessità espressive, non tanto per tentare innovazioni e sperimentazioni formali quanto piuttosto per dare la giusta luce ai personaggi della vicenda del romanzo ambientato nei Paesi Baschi nel periodo drammatico degli attentati dell’ETA contro chi si opponeva al piano indipendentista. Aramburu vuole rappresentare la tragedia del suo popolo immerso in una guerra civile che miete vittime e semina dolore, presentando la storia di due famiglie, prima legate da una profonda amicizia e poi divise dalla violenza fisica e ideologica che investì quella comunità.
Con rara abilità l’autore piega il tempo della storia con anticipazioni o ritorni indietro, ruotando soprattutto attorno ad un episodio che condizionerà la vita di tutti i personaggi del romanzo, colpiti a vario titolo dalla perdita violenta di una persona cara, Txato, che è padre, marito, amico degli altri protagonisti del romanzo: Bittori, la moglie dell’imprenditore basco; Nerea, la figlia che studia a Saragozza e vive la sua giovinezza assaporandola fino in fondo, vivendo un amore tenero e romantico col giovane e bel tedesco suo collega di corso; Xabier, il figlio, medico, di cui era segretamente innamorata Arantxa, appartenente alla famiglia destinata a diventare rivale di quella di Txato, dedito al lavoro nella sua azienda di trasporti e preso di mira dall’ETA che lo minaccia, lo taglieggia e infine lo uccide.

I colori del romanzo sono grigi e il dramma si respira anche quando si presentano situazioni leggere che piegano all’allegria. I cieli sono plumbei come quelli che pesano su un popolo infelice, invaso dall’odio che scatta inevitabilmente nelle guerre civili, per cui si diventa nemici anche se si condivide lo stesso lavoro e si esce insieme in bicicletta nel tempo libero, come Taxto e Joxian. Quest’ultimo regge l’altra famiglia: marito di Miren, che ogni mattina si incontrava al bar con Bittori per la colazione, come in genere fanno le grandi amiche, almeno prima che lo Txato non fosse preso di mira dall’ETA. Cultura basca contro cultura spagnola, Guardia Civil contro ETA, attivisti rivoluzionari per l’indipendenza del popolo basco contro unionisti.
Giunto a metà di un romanzo, in genere, diventi amico dei personaggi, li conosci ormai, soprattutto se chi te li ha presentati è un vero, autentico narratore come Fernando Aramburu, che a piccole dosi, con delicatezza, con sapienti pennellate, ti ha saputo introdurre nella mentalità basca che non è molto distante da quella italiana, e capita che quando decidi di sospendere la lettura e la rimandi a sera o all’indomani, sorridi soddisfatto, e se non fosse un po’ assurdo, saluteresti pure Nerea o suo fratello Xabier, strizzando l’occhio e dando ad intendere che stai dalla loro parte. E anche con la lingua basca, l’euskera, prendi confidenza, aiutandoti col dizionario essenziale che l’autore ha inserito in appendice al romanzo.
“Patria” è un romanzo vibrante, forte, che presenta un popolo orgoglioso e combattivo disposto ad immolare anche i figli, le amicizie, il lavoro, ogni remora morale, per l’affermazione dei propri ideali. È un magma sempre pronto a risalire da canali sotterranei ed invadere il reale e di tale portentosa energia sono attraversati i personaggi del romanzo. Ecco spiegato il ricorso alle continue espressioni “euskera”, ed ecco perché man mano che ci si inoltra nella storia, l’autore entra nell’azione, diventa personaggio, interviene nei dialoghi approvando o meno con battute, non restando fuori, esterno alla storia. Egli dà la sensazione di non conoscere come si svilupperà l’azione e vive insieme al lettore gli eventi dei personaggi della storia condividendone sentimenti ed emozioni e con loro si indigna, soffre e piange.
“Patria” per fortuna è lungo 630 pagine e così ho avuto tutto il tempo di sentirli vicini i personaggi, di capirli come il suo autore e degli uni e dell’altro sono diventato amico. Della scorbutica Miren, del fanatico terrorista Jose Mari che sta marcendo in un carcere duro, di sua sorella Arantxa che un ictus le toglie quella gioia di vivere che era stata la cifra più evidente della sua giovinezza e che ora la costringe a vivere su una sedia a rotelle senza poter parlare nè mangiare se non con una sonda; e di Joxian che vuole chiudere gli occhi su quella realtà così amara e si dà totalmente al suo orto; di Gorka, il figlio bravo e studioso che scrive poesie e che decide di vivere con un ragazzo dando vita ad una coppia omosessuale.
Le due famiglie sono tenute insieme dall’uccisione di Txato da un gruppo di terroristi dell’Eta in cui militava Jose Mari. Bittori aspetterà caparbia la richiesta del perdono da chi gli aveva ucciso il marito per poi cedere al cancro che la stava corrodendo pian piano, e potere quindi andare in pace nel suo posto, accanto al marito, nella tomba di famiglia. Dice infatti a Xabier:
– “Visto che siamo in sincerità, ho saputo che stai cercando di far sì che il figlio di Miren ti chieda perdono e che Arantxa ti sta dando una mano. È vero!”
– Perché credi che sono ancora viva? Ho bisogno di quel perdono. Lo voglio e lo pretendo, e fino a quando non lo avrò non penso di morire,”
– “hai un orgoglio da far paura.”
– Non è orgoglio. Non appena metterete la lapide sulla tomba e sarò con il Txato, gli dirò: quell’idiota si è scusato, adesso possiamo riposare in pace.”
Vite di gente comune che combattono ogni giorno contro la rete invisibile che la tradizione, la storia, la cultura del popolo basco aveva costruito per soffocarli imprigionarli e annichilirli.
Aramburu a un certo punto si inserisce anche lui nei dialoghi virgolettati dei suoi personaggi e non si preoccupa di aver varcato il confine tra la sua realtà e quella virtuale del romanzo. E io? Cosa devo fare? Piango con Miren e con Joxian e anch’io poggio le mani sul vetro del parlatorio insieme a quelle di Jose Mari e anch’io chiamo Bittori “ama, ama!” per confortarla.
Infine dico a me stesso che quella sequenza del romanzo non posso abbandonarla lì nella carta come le altre perché mi è entrata dentro; ho avuto compassione per Jose Mari, per Arantxa e per il loro padre Joxian; ho capito la loro sofferenza; ho pianto con loro. No, non può finire così e chiudo il libro, lo ripongo nello scaffale. Allora prendo la penna rossa e sottolineo come tutte le altre sequenze che mi sono entrate nel cuore, trasformandolo e arricchendolo. Anche Aramburu non vuole chiudere la sua storia e dice a Bittori: “Bittori deve andare al cimitero a trovare il marito ma piove: piove forte e tu non sali da sola a Polloe, ti ci porto io con la mia macchina.” Non è più il narratore! Egli non è né esterno né interno! Nessuna focalizzazione rispetto al romanzo. Aramburu si colloca dentro la storia, ha eliminato qualsiasi barriera e il suo presente è entrato in quello di Bittori che stringe tra le mani la lettera che Jose Mari le ha scritto chiedendole perdono. Anche se sta morendo si sente felice e finalmente è pronta per andare lì dove l’attende il suo amato Txato. Il romanzo è dunque un ammonimento a non cedere ai falsi ideali del nazionalismo e dei superbi arroccamenti in convincimenti di superiorità storica, culturale, o peggio, razziale, poiché essi porterebbero a sicure tragedie. Nessuna speranza per quel popolo che affida alla violenza la realizzazione delle proprie aspirazioni, ma solo lutti e pianti.