Albert Camus, “La caduta”

di Alfio Pelleriti

L’11 agosto 1971 lessi le prime pagine di questo libro che poi lasciai. Lo ripresi altre volte ma senza mai completarlo. Solo ora lo sto apprezzando e non perché oggi non soffro l’inedia dell’adolescenza ma semplicemente perché Camus non è autore per giovani ma per individui che abbiano almeno superato i sessant’anni, cioè per coloro che hanno avuto il tempo di provare cocenti delusioni, di sperimentare sconfitte e cadute, e dunque possono capire e apprezzare questo splendido libro edito nel 1956.

Jean Clamence, avvocato, uomo probo e incline al rispetto delle regole sociali e sempre attento a mettere in campo azioni coerenti con i propri valori umanitari, confessa, in un lungo monologo, che in realtà egli risponde al suo egocentrismo che manifesta cercando la soddisfazione di piaceri semplici, sottili, in una scelta edonistica senza limiti. Dopo aver preso coscienza di tale contraddizione tra visione ideale del mondo e comportamento concreto, assume le vesti del profeta o del giudice di se stesso, indicando agli altri tale sua amara “scoperta”, questo suo limite. La sua tuttavia è una confessione che mira a fare emergere anche nei suoi interlocutori una presa di coscienza sulla loro “naturale” tendenza all’autoaffermazione che calpesta negli altri ogni autonoma scelta esistenziale. “La caduta” personale del protagonista diventa allora una visione del mondo il cui focus sta nella certezza che l’uomo in quanto tale sia destinato alla sconfitta e ad una esistenza grigia e disperata.

La prima parte del libro può considerarsi un romanzo breve che volge a tratti al saggio, poiché l’autore conduce un’analisi del comportamento umano che tende a dimostrare che esso è condizionato dal senso comune e da istinti egoistici che lo allontanano da scelte esistenziali positive, solidali, amorevoli verso gli altri. Poi la stessa analisi antropologica viene continuata attraverso racconti brevi i cui protagonisti si muovono in diversi ambienti e a tutte le latitudini; appartengono alle diverse categorie sociali, ma tutti sembrano smarriti e soli ad affrontare i marosi della vita, tutti risultano perdenti nel perseguire l’istintivo bisogno di affermare il proprio Ego.

Nella seconda parte del libro Camus toglie via dalla sua riflessione sulla vita il superfluo e mira al nocciolo della questione, rivolgendosi al lettore, senza perifrasi e senza ammorbidire l’espressione che continua ad essere dura e cruda nel presentare le sue “verità”. Al lettore tocca rifiutarle o elaborarle con riflessioni personali che metterà in relazione alle proprie scelte, alle difficoltà incontrate o anche ai risultati positivi che hanno caratterizzato il suo cammino esistenziale.

Le interpretazioni del comportamento umano dell’autore sono espresse in un flusso continuo di una comunicazione che evita spesso le regole della sintassi o della punteggiatura o dell’ordine logico del discorso, per dare spazio ad una sequenzialità di fatti, luoghi, tempi e cause degli eventi, ai suoi punti di vista, ai suoi giudizi sull’uomo, che sono caustici, senza appello, apodittici.

Un esempio tra i tanti: “Ha notato che soltanto la morte ci ridesta sentimenti? Come vogliamo bene agli amici che ci hanno lasciato, vero? Come ammiriamo quei nostri maestri che non parlano più, e hanno la bocca piena di terra. Allora l’omaggio viene spontaneo, quell’omaggio che forse avevano atteso da noi tutta la vita… nei nostri amici amiamo il morto fresco, il morto doloroso, la nostra emozione, noi stessi insomma!”.

Albert Camus eleva la sua orazione funebre sulla natura umana mettendone in evidenza le caratteristiche con cui tutti noi, chi più chi meno, facciamo i conti e che, come si diceva una volta, ci fanno entrare in crisi esistenziale. Negli anni Settanta si amava mettere in discussione tutto, in una ricerca affannosa di una verità che sfuggiva di mano quando sembrava essere stata raggiunta. Problemi sociali, politici, religiosi, psicologici venivano analizzati lì seduti sul muretto nelle lunghe e calde serate estive. Anche oggi facciamo a gara nel teatro della vita a calcare la scena col ruolo di protagonista. Siamo felici solo quando qualcuno ci dice chiaro che siamo stati bravi o buoni o generosi oppure veri e propri santi. Il vero egoista allora dice “no!”; che non è vero; si schernisce e mostra subito tanta modestia per fare emergere un’altra qualità, quella più rara, quella degli eroi, l’umiltà. Ma fino a che punto siamo sinceri? Non stiamo forse recitando ancora una volta una parte? Magari siamo sinceri in quel momento ma dopo, a mente fredda, strizziamo l’occhio al nostro grande Io, che inspira profondamente ed empie d’orgoglio polmoni cuore testa, annichilendo lo Spirito.

A. Camus, 1913 – 1960

“L’inferno sono gli altri”, ripetiamo con Sartre! Si tratta di una gara con i nostri simili e non possiamo perderla, poiché si rischia di smarrire la propria autostima e il proprio orgoglio. Come si potrebbe stare in piedi allora e sorridere agli altri, incontrarli e comunicare con loro il “nulla” fingendo di stare spendendo bene il proprio tempo?

In realtà, l’egoismo è la sostanza primaria d’ogni nostro agire, ci dice Camus; il desiderio inconfessabile è di volere gli altri ai nostri piedi, pronti ad ossequiarci e a riconoscere le nostre supposte virtù. Il vero nemico, quello che davvero temiamo, è la normalità di una vita senza “Logos”, dove le singolarità si annullano in una massa di individui schiacciati sul presente e che dunque condividono l’identico destino connesso a tale amara realtà: l’oblio, l’essere dimenticati senza lasciare traccia alcuna. Tale “necessità normalizzante” agisce in maniera subdola ma spietata nei confronti di colui che voglia uscire fuori dai confini segnati dalla tradizione e dalle consuetudini; che voglia superare il muro del conformismo e del materialismo, si accorgerebbe infatti che i suoi tentativi sono destinati allo scacco inesorabile con l’effetto di un totale isolamento sociale, e gli sarebbe riservata la stessa considerazione che si concede al folle, il compatimento o l’irrisione.

Quando accade che qualcuno caparbiamente non intende vivere in conformità alle scelte della maggioranza, allora “i normali” mettono in atto una tecnica sopraffina per rendere inefficace l’azione di chi vuole essere originale e anticonformista: la tattica del “silenzio e della distrazione”. Nel nostro ambiente, ad esempio, è costume consolidato non motivare mai il dissenso sulle opinioni e sulle attività altrui o sulle iniziative messe in campo da qualcuno che cerca di andare “contro corrente”, né si avanzano proposte alternative. Non siamo abituati all’esercizio della lealtà e del dialogo.

Il metodo invalso da secoli in questo popolo dal piglio superbo e orgoglioso ma senza alcuna sostanza che ne giustifichi tale burbanza, è il silenzio, l’astensione, il parlare d’altro giusto per distogliere l’attenzione da persone o da argomenti lontani dal “senso comune”. Siamo maestri, in questa terra, nel decretare la morte civile al “Don Chisciotte” di turno, semplicemente tacendo o distogliendo lo sguardo dal “pazzo” e puntandolo più in alto sui tetti o in cielo a guardare le nuvole oppure in basso giocando a riporre il piede al centro della basola, evitandone le congiunzioni o fingendosi distratti o sovra pensiero.

Siamo artisti nella dissimulazione, tanto da negare l’evidenza di quanto vedono o sentono i nostri sensi, riuscendo, con le parole, a darne comunicazione contraria rispetto al percepito. E così il bianco diventa nero, il quadrato diventa cerchio, il rumore assordante diventa silenzio paradisiaco, la trasgressione delle regole diventa anelito libertario e sana allegria goliardica.


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