di Alfio Pelleriti
La filosofia ha una sua peculiarità, quella cioè di volere e di potere incidere sulla formazione dell’uomo e sulle sue relazioni sociali senza avvalersi di un unico mandato costitutivo e di un unico linguaggio con il quale trasmettere osservazioni, scoperte, “visioni del mondo”, idealità. Si può indagare la realtà con tutta la sua complessità e i necessari rimandi alla verità, alla giustizia, alla bellezza, all’escatologia con diverse tipologie espressive: letteraria, musicale, pittorica, architettonica, e altre ancora. Dostoevskij o Musil o Leopardi hanno scritto pagine memorabili sulla condizione dell’uomo così come Kant o Husserl o Heidegger. Sartre poi, è filosofo ma anche scrittore di romanzi, rispondendo ad un unico mandato quello dell’esplorazione ontologica dell’esistenza umana.

Così come tutte le altre discipline scientifiche, anche la filosofia, fin da Aristotele (opere esoteriche ed essoteriche), ha avvertito la necessità di non rivolgersi soltanto al pubblico ristretto degli accademici ma di arrivare a un pubblico più vasto e dunque di usare un approccio divulgativo nella comunicazione.
Tuttavia l’operazione non è affatto semplice e per cause spesso difficili da individuare, coscienti o meno, a volte si rimane ancorati rigidamente al proprio spazio disciplinare.
“L’universalità dell’ermeneutica. Porsi il problema della universalità dell’ermeneutica è ovviamente mutuare il presupposto diltheyano, che è però inevitabile, risultando coestensivo al concetto di ‘ermeneutica filosofica’. Accettato il pregiudizio, che assicura la presenza dell’oggetto, non restano che modificazioni interne. Più che di un percorso lineare, l’ermeneutica moderna testimonia piuttosto di fratture, quanto dire che la nascita dell’ermeneutica filosofica è più casuale e meno preordinata teleologicamente di quanto non paia a Dilthey, e questo a causa di sviluppi che Dilthey non poteva prevedere… La tematizzazione della distanza temporale. Mentre il filologo alessandrino esercita l’attività meccanica della glossa e del chiarimento, il filologo umanistico ritiene di trasporsi in una umanità rivolta e in una età obiettivabile…”
Perdoni il lettore la citazione ostica e indigesta anche ai palati abituati ai sapori forti. Ma mi sono chiesto, dopo la lettura di due saggi che attengono temi della filosofia del Novecento, se il mondo accademico nostrano non continui a soffrire del solito problema e cioè quello di voler essere autoreferenziale. Ci sono ancora docenti universitari che fanno a gara a scrivere saggi pieni zeppi di citazioni e di rimandi da un autore all’altro per dimostrare quanto vasto è il loro sapere e come conoscono a menadito la rete globale degli interventi su una certa problematica o su un autore di cui si occupano per decenni nei loro istituti universitari. Di tanto in tanto provano a dialogare con la realtà culturale esterna, quella che va oltre il loro percorso didattico, e subito si crea una difficoltà comunicativa con i “poveri lettori”.
La domanda che si pone chiunque legga tale saggio sull’ermeneutica, che non nutra tendenze maniacali o desideri di autolesionismo, è: “ma che roba è questa?” forse un linguaggio criptico creato in stanze segrete di una loggia massonica o di un servizio segreto che cerca di sviare le attenzioni del controspionaggio nazionale? Forse è un gioco linguistico da sottoporre, in un test psico attitudinale, a giovani medici che intendano specializzarsi in neuropsichiatria? Certo è evidente che si tratta del lessico della filosofia, alcuni termini lo rivelano: “ermeneutica”, “Dilthey”, l’aggettivo “filosofica”. Allora si pensa sia un testo tipico di una rivista scientifica o specialistica di filosofia.

No. Niente di tutto questo. Questo breve “assaggio” è tratto da un testo “divulgativo” di filosofia venduto nelle cartolibrerie e nelle edicole, distribuito in abbinamento con il Corriere della sera, dal titolo “FILOSOFIA, storia parole temi”, sottotitolo: Correnti e teorie del Novecento, a cura di Paolo Rossi (1923-2012), Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero (dei tre vive solo Fornero). Uno legge i nomi dei tre illustri filosofi e divulgatori della storia della filosofia che hanno scritto splendidi manuali per i licei e dice a se stesso che non si può perdere la pubblicazione. Dei tre, tuttavia, non c’è nessun intervento ma saggi di professori ordinari o associati di filosofia in diverse università italiane. Il primo saggio sull’empirismo e il neopositivismo lo si legge tornando spesso indietro, ma comunque lo si ingolla, ma il secondo, sull’ermeneutica, del professor Maurizio Ferraris (Università di Torino) da cui è tratto il brano presentato come incipit di questo intervento è veramente difficile da digerire, come lo è un piatto di lenticchie con le cotiche a ferragosto.
Già dopo le prime pagine ho pensato ad Armando Verdiglione e alla sua rivista “Spirali”, il giovanotto fresco di laurea in lettere e filosofia, che negli anni Ottanta, lasciata la sua Reggio Calabria per Milano, diventò psicanalista (senza o) “selvaggio”, divulgatore del pensiero di Lacan e di uno psicanalismo[1] misto ad esoterismo. Perché ho pensato a lui? Perché in quegli anni ero molto interessato alla psicoanalisi. Erano gli anni Settanta e tutto ciò che era stato posto tra parentesi dal neoidealismo e che era stato etichettato come “pseudoscienza” o “pseudo arte” veniva studiato e suscitava estremo interesse. La psicoanalisi era seguitissima, e a Catania si formò una cattedra, “Psicologia dinamica”, affidata alla professoressa Auteri che studiava la psicoanalisi sia nelle sue dottrine fondative freudiane che nelle altre che le seguirono: quelle della scuola junghiana e adleriana.
Fresco di laurea (tesi sugli ostacoli alla divulgazione della psicoanalisi in Italia dal 1908 al 1945), volevo intraprendere l’analisi didattica per iscrivermi poi alla scuola di formazione per psicoanalisti; avevo comprato Le opere di Sigmund Freud pubblicate da Boringhieri in nove volumi; e comprai anche alcuni numeri di quella rivista “Spirali” diretta da Verdiglione. Gli scritti di Freud, del creatore della psicoanalisi, erano chiari e comprensibili e lessi con interesse “L’interpretazione dei sogni”, Psicopatologia della vita quotidiana, “Le tre teorie sulla sessualità” e altri scritti sui vari complessi che caratterizzano l’evoluzione psicologica del bambino e dell’adolescente trovandoli interessanti e affascinanti come un racconto o una magnifica descrizione di un mondo sconosciuto, ma gli articoli di Verdiglione erano letteralmente incomprensibili.
Ricordo che con i miei amici ci si sfidava a spiegare o meglio a decrittare delle sequenze degli articoli del furbastro di tre cotte (sarà condannato per truffa e per una maxi evasione fiscale di 300 milioni di euro). E tra noi neolaureati in filosofia, in lettere, in medicina, di solito nessuno riusciva a vincere poiché credo che non ci fosse niente da capire in quei testi che erano soltanto un “fritto misto” di parole rubacchiate a Jung a Lacan a Deleuze, a Guattari, a Lukàcs.
Per fortuna con il terzo saggio del professor Rovatti sull’esistenzialismo cambia il registro comunicativo e si apre uno scritto chiaro e profondo, stimolante per ricchezza di ponderate riflessioni sui grandi autori del Novecento che sono stati chiamati in causa dalle problematiche ruotanti attorno al soggetto come ente storico, concreto, in carne ed ossa.
Ecco allora il dilemma già posto da Kierkegaard su come debba gestire l’individuo il suo tempo, quale senso egli deve dare alla sua vita, a quali valori fare riferimento nella ricerca affannosa di trovare risposte alle eterne domande che generazioni di pensatori si sono poste: la realtà è figlia di un disegno soprannaturale o invece viene dalla casualità? L’uomo è il solo protagonista del suo destino o c’è una finalità metastorica che lo guida e lo condiziona? In quali relazioni si pongono le dimensioni temporali: passato, presente e futuro? E il linguaggio quale ruolo gioca nella comprensione della realtà? E quale rapporto esiste tra parola e percezione dell’oggetto? Può esserci conoscenza piena senza un’intenzionalità della coscienza e quale peso assume quest’ultima nelle cosiddette definizioni “ultime”? Quale ruolo gioca il nostro “essere-per-la-morte” nelle relazioni sociali? E ancora si potrebbero far seguire altre domande per mettere in evidenza perché gli antichi sostenevano che tutte le scienze empiriche, seppur necessarie, erano da considerare “ancillae philosphiae”. La filosofia era il termine che indicava l’attività del pensiero, che poteva poi aprirsi alla scoperta di un ente trascendente e quindi alla pratica religiosa, alla definizione di “Bene” e quindi al pensiero etico e alle regole che dimorano in ogni coscienza e quindi alla morale; oppure quel pensiero avrebbe potuto esprimere la necessità della ricerca del Vero e declinandolo in tutte le sue possibili variabili ed esplicitandone tutti i vari condizionamenti.
Segue poi l’altrettanto interessante saggio sulla Filosofia analitica del professor Alessandro Pagnini che mette in risalto come la filosofia analitica, fino agli anni Ottanta, abbia condotto un’opposizione netta alla filosofia tradizionale, definita “vacua”, trascendente, del “senso comune”, idealistica, per passare poi ad una concezione della filosofia di tipo “scientifico”, nel senso che la filosofia avrebbe dovuto limitarsi ad una presa d’atto dei risultati della scienza, e quindi descriverli astenendosi dall’inferire conclusioni più o meno apodittiche. Negli ultimi anni si assiste ad un ritorno alla tradizionale speculazione kantiana del trascendentale e dell’epochè husserliana per giungere alle essenze che costituiscono il reale, quantificabile ed esperibile secondo il principio di “verificabilità”.
Il professore Girolamo Cotroneo analizza la grande corrente dell’Idealismo, dalle sue radici nel platonismo, all’idealismo “classico” tedesco, al neoidealismo italiano, fino alle ultime posizioni tra esistenzialismo e fenomenologia[2].
L’idealismo permane tra le pieghe del pensiero del Novecento, ora perché lo si vuole confutare ora perché lo si avalla tenendolo come base per ulteriori radicalizzazioni in campo teologico, sociale, morale, fino al neoidealismo italiano che cerca di opporsi alla cultura dominante positivistica.

Si ripropone dunque l’eterna diatriba tra scienza e filosofia e le correnti filosofiche che si affermeranno crederanno di chiudere con l’esperienza filosofica iniziata con Bacone, con Cartesio, fino a Kant, concludendo un percorso iniziato con il mito della caverna di Platone, con il quale il grande filosofo ateniese voleva dimostrare che a sicuro errore porta l’affidarsi cieco all’esperienza sensibile, senza che intervenga l’elaborazione intellettuale. Tale importante passaggio non significa certo rimanere ancorati ad un idealismo “soggettivo”, poiché il soggetto, come affermava Hegel, deve rimanere attento alla sua storia in un rapporto dialettico.
In realtà, dice Hegel, siamo ancora in una dimensione trascendentale, dove i due termini realtà-pensiero sono legati l’uno all’altro, senza che il Soggetto possa mettere le ali. Ciò potrà avvenire con la filosofia di Hegel, con lo “Spirito” che diventa autosufficiente e assoluto.
Ma il vero idealismo, che diventa “spiritualismo”, si afferma con Schelling, che ipotizza una Natura non inerte ma con una logica interna che gli è stata fornita da uno Spirito che l’ha ordinata e necessitata, e a partire da essa, “preistoria dello Spirito” o “coscienza pietrificata”, si svilupperà l’Io individuale, il Soggetto che darà la sua impronta allo sviluppo che si definisce come identità di Spirito e Natura, di Soggetto e Oggetto, di conscio e inconscio, di attività teoretica e pratica. Tale approdo sarà poi contestato da Hegel: “la notte buia in cui tutte le vacche sono nere”. Il vero, dirà Hegel, va ricondotto non già alla sostanza che annulla le differenze ma al soggetto che coglie l’intero, ma nel suo sviluppo, nella sua dinamicità. L’Assoluto è dunque un “Risultato” e la filosofia è il “Sapere assoluto” che Hegel paragona alla “nottola di Minerva” che inizia il suo volo sul far del crepuscolo.
E poi l’originale, la splendida articolazione dinamica dell’essere che “risulta costituito dai vari momenti di ogni figura individuale dotata di una propria, anche se momentanea, ‘verità’. Dette figure saranno destinate a venire negate in forza delle elementari leggi della dialettica” e costituiscono, in ogni passaggio, un “intero momentaneo”, che sarà poi superato, divenendo “non-essere”, onde costituire una nuova figura altrettanto momentanea e così via.
Nella Fenomenologia si assiste ad un percorso dell’Autocoscienza che dal punto più basso, il suo rapporto con le cose, giunge, insoddisfatta, in un rapporto con le altre autocoscienze (rapporto “Signoria-Servitù” – parte preponderante nella prima, la spiritualità; la vita biologica nella seconda – ); e poi successivamente le figure dello Stoicismo, dello Scetticismo e della Coscienza Infelice. In ogni tappa l’Autocoscienza crede di aver trovato la propria essenza, la propria verità. Infine, essa diventerà Ragione e scoprirà il mondo dell’eticità (famiglia, società civile, Stato), prima di raggiungere l’”In sé” originario attraverso il mondo etico, la religione e il Sapere assoluto.
[1] Il termine “psicanalismo” viene usato dalla scuola francese di psicoanalisi: da Robert Castel in “Lo psicanalismo. Psicanalisi e potere”, Einaudi editore, Torino 1975; da Gilles Deleuze e Felix Guattari in “L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi editore, Torino 1975.
[2] Husserl respinge le mere scienze dei fatti e afferma la “necessità di rendere comprensibile la teleologia insita nel divenire storico della filosofia”.
Heidegger, molto sinteticamente, sosterrà che nella filosofia si afferma un impulso più radicale di quello della fondazione del sapere e cioè quello di “oltrepassare il sapere finito nell’acquisizione del sapere infinito”. La filosofia diventa “libera” cioè filosofia che si pone un problema fondante ed essenziale: “cosa è l’essente?” tale concetto sarà ripreso dall’Esistenzialismo francese, dalla cultura marxista (Gramsci) e dal neoidealismo italiano (Croce, Gentile, Spaventa).