Carlo Levi, “Le parole sono pietre”. Tre giornate in Sicilia

di Alfio Pelleriti

Un resoconto di viaggio nella Sicilia della prima metà degli anni Cinquanta: sono pagine da incastonare come diamanti per la levità e la profondità tipiche degli autentici poeti. Carlo Levi mostra il volto tragico e dolente di un popolo in cui spesso si confondono vittime e carnefici; egli si muove in una natura anch’essa piena di contrasti, priva di colori tenui e senza sfumature, ma dove dominano invece manifestazioni estreme e dove si passa subitamente dal buio fitto ad abbaglianti luminosità. Continua Carlo Levi, dopo la pubblicazione di “Cristo si è fermato ad Eboli”, l’analisi della realtà sociale del Mezzogiorno d’Italia che presenta una endemica arretratezza economica e un analfabetismo diffuso oltre che uno sfruttamento del popolo da parte di gruppi di potere senza scrupoli.

Solo un resoconto di viaggio, ma colui che si muove non è un semplice turista intento a soddisfare curiosità estetiche o intellettuali, ma è attento a cogliere parole, gesti, caratteristiche dell’ambiente umano e naturale lì sulle pendici dell’Etna, da Taormina a Catania, da Paternò ad Adrano, da Bronte a Randazzo e poi nell’altro versante, nella caotica, abbagliante, ipnotica festa di Santa Rosalia a Palermo, tra Via Maqueda e Viale Libertà, fino alla “Vucciria”; egli scoprirà non solo le bellezze architettoniche e naturali o gli antichi fasti della storia millenaria dell’isola, ma mostrerà anche di essere un sapiente scrutatore di anime, soprattutto quelle dei minatori di Lercara Friddi che avevano trovato il coraggio di ribellarsi allo strapotere del proprietario della zolfara protetto dagli sgherri mafiosi o dei contadini di Bronte che vivono in dieci in un tugurio maleodorante senza luce e senza servizi igienici con i bambini col ventre gonfio perché colpiti dalla malaria e non curati.

È un viaggiatore Carlo Levi che sa usare le parole e le sa comporre e mettere insieme in modo tale che diventino dure, dure come le pietre e ancora, a distanza di settanta anni, fanno male, creano nodi alla gola, tolgono il respiro, come succede quando la realtà si presenta con sincerità, con onestà, con realismo e con sentimento di compassione per i poveri e per gli sfruttati.

Questo resoconto sulla Sicilia dell’immediato secondo dopoguerra si trasforma man mano in una denunzia contro “Nerone” (così i minatori di Lercara chiamavano il proprietario della miniera), contro i nobili inglesi proprietari della Ducea di Nelson a Maniace, che ricattavano i contadini aggirando la Riforma agraria; contro l’arroganza e la vigliacca violenza della mafia che uccide i giusti: splendide le pagine dedicate al sindacalista Salvatore Carnevale e alla madre, Francesca Serio che, già vedova, rimane sola a lottare per chiedere giustizia per quel suo figlio assassinato perché chiedeva otto ore di lavoro, l’applicazione della Riforma agraria sui fondi incolti e l’eliminazione di consuetudini medievali a favore dei latifondisti.

Un resoconto di un viaggio in una Sicilia che non esiste più, che si è trasformata non sempre in meglio e che sembra suggerire al lettore di aprire il suo cuore ad accogliere l’invito alla pietas per i poveri e i perseguitati ovunque essi soffrano, magari riscoprendo la grande generosità di Danilo Dolci che fa la scelta, lui uomo del profondo Nord di vivere accanto ai poveri più poveri della Sicilia degli anni Cinquanta.

CITAZIONI DA ASCOLTARE:

R. Guttuso, Volti di contadini
Gli sguardi
Danilo Dolci
Danilo Dolci
Santa Rosalia
I fuochi di S. Rosalia
Il cantastorie
La Sicilia e i suoi colori
Francesca Serio
La morte di Salvatore Carnevale
Minatori
I minatori di Lercara
L’origine della mafia

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