di Alfio Pelleriti
Durante la lettura di “Pastorale americana” di Philip Roth ho provato sentimenti forti e contrastanti nei confronti sia del contenuto del romanzo che della forma espressiva dello stesso e sono stato tentato, così come già accaduto in passato, di chiudere il libro e rinviarne ancora la lettura. Tali perplessità mi hanno spinto a cercare su internet giudizi e impressioni di coloro che avevano già letto il libro, ritrovandomi con decine di recensioni che formavano un coro acclamante, privo di “note stonate” di timidi giudizi negativi, ma una unanimità osannante verso quello che tutti giudicavano un capolavoro, come o superiore ai grandi classici della letteratura mondiale.
Del resto, certi intellettuali “contro”, alquanto supponenti, che amano ciò che va oltre il “classico” o che scansano, orripilati, il romanticismo come le cacche dei cani che ti insidiano la scarpa sportiva con la suola piena d’interstizi, con le lacrime agli occhi per la commozione, diranno che è straordinario, sorprendente, insomma si, un capolavoro e l’autore è un grande artista come quello che ha incorniciato una banana che stava esposta tenuta da uno strappo di tela adesiva e venduta ad un “intenditore” per 120 mila dollari. Per l’intellettuale aperto alle avanguardie anche uno sputo sulla tela è un Capolavoro!

Irritato da tale unanimità di consensi, sono andato oltre lo scoglio delle cinquanta pagine iniziali delle 460 di cui si compone il romanzo, scritte con uno stile che mi ha ricordato quello di “Principianti” di Raymond Carver. Anche qui i personaggi vivono una realtà all’apparenza normale ma che, in realtà, rivelano le caratteristiche di una società malata, dove la violenza è la cifra fondamentale per risolvere i conflitti o trovare una soluzione immediata ai problemi che si incontrano nelle relazioni sociali.
Un modello esistenziale esemplificato dal protagonista Seymour Levov, detto lo “Svedese”, idolo di Natan Zucherman il personaggio che veste i panni del narratore che presenta le sue strabilianti imprese sportive quando era un giovane studente, il suo successo nel lavoro, il drammatico rapporto con la figlia Merry e le scelte difficili e drammatiche compiute in tali circostanze. “La vita di Levov lo Svedese, per quanto ne sapevo io, era stata molto semplice e molto comune e perciò bellissima, perfettamente americana”.
Procedo nella lettura un po’ annoiato e a tratti infastidito, convinto di avere sbagliato libro, quando, a pagina 68, tutto sembra subire una svolta. Si ha la sensazione di leggere un altro libro: si è fuori dallo squallore della provincia americana e si comincia a volare alto. La descrizione della quotidianità lascia il posto all’analisi filosofica e psicologica, si scava nelle pieghe del cuore mentre Jerry racconta la vita sfortunata del grande fratellone, lo Svedese, che ha avuto una figlia terrorista, vendicativa, invidiosa, egocentrica che l’avrebbe condotto alla morte. Ed è nel terzo capitolo che si ha sotto gli occhi la tragedia più alta, profonda, classica che io abbia mai letto: il dialogo tra un padre e la figlia sedicenne, balbuziente, che scopre l’impegno politico e l’attivismo più radicale.
La ragazza vuole fare qualcosa di concreto per fermare la guerra in Vietnam e, inseritasi nel movimento di contestazione al governo e al sistema istituzionale nel suo complesso, comincia anche ad odiare la propria famiglia considerata funzionale al sistema di sfruttamento economico e sociale borghese. Il padre, Seymour Lovov, che aveva vinto ogni prova atletica e con successo si era affermato nell’attività imprenditoriale cedutagli dal padre, garantendogli una solida posizione economica, capisce che quella sua figlia può fare crollare tutto. Lotta allora, come suo solito, ma quella ragazzina rivela la stessa sua energia e gli risponde colpo su colpo e lo Svedese intuisce che quella sarà la sua prima sconfitta. Tuttavia non si arrende poiché vuole salvare Merry, sua figlia, che ha scoperto la città, i coetanei, un’altra prospettiva del mondo e che per i suoi valori è disposta a distruggere lui, il padre, e l’intera famiglia.
Un dramma moderno ma dall’impianto classico-sofocleo. Ora dalla quotidianità Roth s’è elevato a qualcosa di più alto e senza tempo: le dinamiche che si scatenano nel cuore e nella mente degli uomini. Presenta superbamente il dramma di un padre che intuisce il vorticoso processo in cui s’è avviluppata la figlia; che sente l’impotenza nella gestione della sua crescita e della sua formazione; che capisce che non la può fermare in quella sua caparbia volontà di spiccare il volo al quale, tuttavia, non è ancora pronta, e si dispiace, ma lotta, ha paura e, a tratti, terrore, ma li respinge entrambi; cerca soluzioni, argomenti, avanza mille proposte a quella figlia testarda che vuole vivere a modo suo, in autonomia, avviandosi a sicura caduta nel baratro.
Poi ritorna sui suoi passi lo scrittore e riprende con paginate su come una giovane donna, la moglie dello Svedese, si prepara il trucco per essere più attraente, migliorando il suo aspetto per la selezione di “Miss New Jersey”, su come doveva vestire, truccarsi, camminare, parlare, sedersi. Anche la signora Dawn, moglie di Seymour, apre ogni piega del suo animo e sveglia ogni ricordo della sua vita, come fosse sul lettino dello psicoanalista, abbandonandosi alle confessioni senza tralasciare nulla di quegli episodi che lei ritiene importanti. Ed è un flusso continuo, ininterrotto, di episodi e di particolari anche insignificanti, come fossero delle “associazioni libere” sul lettino dell’analista. Di Dawn, insomma, se il lettore ha pazienza, saprà tutto: saprà che vendette tutti i vestiti usati durante il concorso; che comprò una fattoria per allevare vitelli e vacche e saprà di quando Toro, il più premiato dei suoi animali, si impantanò e di tutte le traversie per tirarlo fuori.

Philip Roth
Insomma con Roth si procede con sprazzi di vera letteratura ove si raggiungono vette alte di poeticità per poi riprendere le monotone descrizioni di una quotidianità che procede appesantita dalla sua stessa vacuità, con toni lenti e sonnacchiosi, senza vibrazioni, senza guizzi, in un appiattimento grigio sul presente.
Nel sesto capitolo lo Svedese ritrova la figlia dopo anni di vana ricerca: è stata una caduta continua in un vortice che l’ha condotta dal terrorismo bombarolo contro il “Sistema” alla fede in una religione indiana che mira a salvaguardare le vite di tutti gli esseri viventi, vegetali compresi, insetti e microbi compresi. Sono dei continui pugni nello stomaco queste pagine in cui la disperazione dello Svedese è grande e profonda e l’autore non ha pietà per il lettore e affonda la lama e poi la rigira nelle viscere. Si tratta di un padre di fronte all’unica figlia che ritrova dopo anni dalla scomparsa; che, momento dopo momento, capisce che non è più lei perché è una persona che vive in un suo mondo particolare e sarà impossibile salvarla.
E Seymour, lo Svedese, va via lasciando sua figlia Merry in un quartiere malfamato, in una casa squallida, sporca, maleodorante, così come anche lei che l’abitava. La lascia lì, semplicemente perché il suo invito a ritornare a casa con lui lei non l’aveva accolto.
Lo Svedese, l’osannato campione del college, l’imprenditore di successo, non sa quale soluzione trovare per quella figlia che vive ai margini della società, come una derelitta, ricercata dalla polizia, ridotta all’ombra di se stessa; lui, il padre di quella giovane donna smagrita e in preda a delle convinzioni sbagliate e autodistruttive, lascia al suo destino la sua unica figlia.
Cerca aiuto e telefona al fratello Jerry. Ed ecco che Seymour va incontro ad un altro colpo poiché invece di solidarietà dal fratello riceve critiche aspre e giudizi pesanti come macigni. È un dialogo tempestoso, altamente drammatico, umorale, dove ogni parola pesa. E io, semplice lettore, fuori dalla vicenda, vorrei che Jerry avesse più comprensione per il fratello maggiore che soffre le pene dell’inferno per quella figlia perduta e che gli chiede solo un poco di conforto e di compassione! E invece riceve solo critiche: Jerry gli sbatte in faccia quello che in tutta la vita non gli aveva detto e sceglie proprio quel momento per attaccarlo sparandogli ad alzo zero tutto quello che non gli aveva mai esternato. È troppo per me che sono un “fratello maggiore” come lo Svedese e come lui cerco sempre di mediare, di ponderare, di essere gentile con tutti; anche io come Seymour ho una figlia che, come lui, amo più dei miei occhi; vorrei inserirmi anche io in quel dialogo e aiutarlo lo Svedese; vorrei dire a Jerry che si fermi, che non è giusto inveire su chi già soffre, ma non posso. E allora piango, piango le stesse lacrime di Seymour lo Svedese. E chiudo il libro. È troppo! Continuerò dopo.
“Pastorale americana” è un romanzo tragico sull’esistenza umana che ruota attorno al concetto della incomunicabilità tra gli uomini e soprattutto tra i componenti il gruppo che dovrebbe essere il più coeso, la famiglia, e dove invece un intreccio di aspettative reciproche, di progetti alternativi, di visioni del mondo contrastanti, di fiducia tradita, diventa il luogo del conflitto e della sofferenza, della delusione e dell’odio.
È anche un romanzo dove il “flusso di coscienza” è il metodo narrativo dominante poiché l’autore si prende la libertà di far seguire ai tre episodi altamente drammatici dell’intera storia (l’incontro tra Seymour e Merry, dopo cinque anni dalla sua scomparsa; il dialogo tra Seymour e Jerry, il fratello; il dialogo tra Seymour e il padre) tantissime descrizioni di ambienti esterni e interni, dialoghi su episodi anche banali di vita familiare; pensieri dei vari personaggi che si inseguono, che si incrociano, che portano ad un passato lontano o ad anticipazioni su possibili accadimenti futuri e che contribuiscono non poco a spezzare il ritmo del racconto.
E poi il finale, il capitolo nono:
Proporrei come titolo del capitolo “delirio” o il celebre adagio di Sartre “L’inferno sono gli altri” o ancora l’ossimoro “solitudine tra la folla”. Roth ripropone delle domande sottese all’intero romanzo: da che cosa sono determinate le scelte dell’uomo? Quanto incide la casualità sulla sua formazione e sulla sua esistenza? L’intelligenza e la cultura bastano per avvicinarsi al Giusto e al Vero? Quanto può influenzare la vita di un individuo la rete di relazioni che ciascuno trova fin dalla nascita e poi a scuola e nel lavoro o al circolo ricreativo?
Tali domande presuppongono un assunto dell’autore: le relazioni umane in una società borghese capitalistica si basano essenzialmente sulla finzione e sull’assunzione di una parte o ruolo che ciascuno sceglie di recitare sul palcoscenico della vita fino a non sapere lui stesso chi egli sia e quali siano le motivazioni che determinano le proprie scelte esistenziali. Una visione amara e fortemente pessimistica della vita poiché alle domande di prima egli non fornisce alcuna risposta, così come irrisolto resta il problema principale che avrebbe dovuto risolvere il protagonista del romanzo, lo Svedese, come recuperare la figlia Merry, a sua volta fuorviata e condizionata da un gruppo politico e poi da letture sbagliate altrettanto radicali e nichilistiche.
Capire gli altri
Seymour e Jerry
Seymour secondo Jerry
Spontaneità e ipocrisia
Caro Alfio, mi è piaciuto molto il lavoro che hai fatto su P. Roth. Ho amato molto “Pastorale americana” e altri suoi romanzi. La tua iniziale ritrosia verso la sua ricerca letteraria mi aveva fatto immaginare un tuo pregiudizio verso questo modo sincero e senza veli di raccontare la realtà. Condivido le tue impressioni e la tua empatica lettura. Viva l’arte. Un abbraccio.
"Mi piace""Mi piace"
Grazie Agata. Mi fa piacere che hai apprezzato. Sì! Viva l’arte. Un caro saluto
"Mi piace""Mi piace"