di Alfio Pelleriti
Ho tenuto a lungo per me questa risposta ad un amico che si definiva ateo e che, irridendo le mie convinzioni in tema di religione e di fede in Dio, mi invitava ad “aprire gli occhi finalmente”, senza seguire la massa che, diceva, crede a ciò che raccontano i giornalisti televisivi e della carta stampata, i quali rinsaldano in ciascuno i condizionamenti culturali subiti a scuola, in famiglia o dalle tradizioni sociali dell’ambiente in cui si è nati e cresciuti. Come spesso succede nella comunicazione con interlocutori certi delle proprie convinzioni, questi non ascoltano gli altri ma asseriscono le proprie “verità”. Dunque, fui costretto, per non fare finire sul nascere il confronto, a dover trovare argomenti per sostenere le mie tesi, senza che l’altro si sentisse obbligato a sostenere le sue. Né del resto sono bravo come Socrate nell’adottare la sua arte maieutica per cui, avvalendomi di sottile ironia, avrei dovuto instillare in lui dubbi e incertezze, aprendo varchi nelle ferree sue apodittiche “verità”, e perciò tentai di dimostrare perché essere religiosi è un valore, soprattutto quando la fede in Dio diventa la Sostanza fondamentale per le scelte esistenziali, così come il modello di Gesù Cristo diventa la Via, la Verità e la Vita. Credo di non aver ottenuto alcun risultato nonostante l’impegno profuso.

Spesso ti trovi a dover dare delle risposte chiare su questioni complesse che meriterebbero lunga riflessione, un minimo di ricerca, analisi più rigorosa rispetto a quanto possa permettere una semplice conversazione. In che cosa si sostanzia quel sentimento che si definisce “religiosità? Cercherò di essere sintetico senza tralasciare passaggi importanti su un argomento così complesso quale quello in oggetto, immaginando di affrontare l’argomento con un mio interlocutore.
La specificità del tema, la dimensione religiosa, ci porta ad affrontare inevitabilmente la trascendenza e quindi esso non rientra tra le discipline cosiddette “positive” o scientifiche ove molti pensano che necessariamente si debba arrivare per cogliere verità certe e valide universalmente per tutti e per sempre. Affrontare il tema religioso significa inglobare tutto ciò che può partorire la mente dell’uomo e la sua creatività; parlare dell’Ente superiore per dimostrarne l’esistenza o la non esistenza significa rischiare di giungere a delle antinomie, come diceva I. Kant, cioè a proposizioni valide dal punto di vista logico ma escludentesi reciprocamente visto che si approda a conclusioni opposte sullo stesso tema. Bisognerebbe fare riferimento alla storia, all’astrofisica, alla filosofia, alle scienze bibliche e all’archeologia, alla politica, alla sociologia, alla fisica e alle scienze naturali; e poi ancora alla letteratura, alla poesia, alla musica, alle tradizioni popolari e infine al vissuto di ogni individuo. Immagina dunque quale complessità teorica si presenta a chi intendesse avere le “idee chiare” per credere in Dio o per giustificare i suoi assunti atei.
Credere in Dio allora significa porsi su un livello diverso rispetto alle dinamiche affrontate o assunte dal ricercatore, laico o confessionale; non può significare cercare risposte saltando o spigolando ininterrottamente da un testo sacro a un altro, oppure cercare unilateralmente le debolezze logiche dell’una o dell’altra religione; né significa, come fanno certi fondamentalisti di questo o di quel credo religioso, mettere in evidenza un’erudizione sovrabbondante citando continuamente versetti dell’Antico e del Nuovo Testamento, le sure del Corano o gli adagi delle Upanishad. Il fatto religioso riguarda varie dimensioni, si è detto, ma alla base si pone quella soggettiva, anzi quella di ogni singolo individuo che, come diceva Pascal, si gioca tutta la sua vita in una “scommessa” sull’esistenza o meno di Dio.
Ora, chi crede in Dio, non “butta” niente della sua esistenza, tutto è importante per lui ed è fondamentale ogni suo passaggio evolutivo: dalla nascita, all’infanzia all’adolescenza e poi alla sua giovinezza, all’età adulta fino alla vecchiaia. Chi crede in Dio si pone in un atteggiamento proprio dei mistici, i quali tendono a cogliere della realtà ciò che non è misurabile né percepibile con i sensi. Essi sono capaci di fermare l’attività razionale e qualsiasi condizionamento esterno per cogliere il “Logos” che fluttua eternamente nel cosmo, prima cioè di quei fatidici 14,7 miliardi di anni fa, prima del “Bing Bang” che origina il cosmo e che lo fa espandere da quell’incipit ad oggi. Credere significa entrare nel mondo con una responsabilità etica che fornisce senso e fondatezza ad una libertà che altrimenti sarebbe anarchia o inconcludente vagare da una tesi all’altra. Credere in Dio significa per me non buttare niente di ciò che la mia famiglia mi ha dato in termini di educazione, compresi i tanti errori che hanno compiuto in quel tempo i miei genitori. Rivisitare, semmai, bisogna alla luce della sapienza che personalmente ti sei costruito con le tue cadute, le amarezze e le delusioni provate nel corso degli anni. Rivisitare gli episodi che ti hanno procurato gioia e sofferenze profonde significa aggiungere consapevolezza alla ricerca personale sul senso della vita.
Credere in Dio significa ancora accogliere e abbracciare chi la pensa in maniera diversa da te senza rinunciare alle tue certezze. La certezza che Dio mi ama; che Gesù, Dio fattosi uomo, è venuto nella storia per concretizzare questo suo amore e lasciare a ciascuno di noi l’orizzonte valoriale contenuto nel Vangelo (amare gli ultimi e i propri nemici; perdonare sempre; essere giusti e amorevoli col prossimo; amare Dio innanzitutto e accettare la Sua volontà); che Dio è ovunque ma c’è un Tempio, la Sua casa, dove posso pregarlo, elevandogli lodi, ringraziarlo per i miracoli e i doni che mi elargisce continuamente; nutrirmi del suo stesso Spirito nell’Eucarestia, senza la quale la mia dimensione spirituale sarebbe asfittica e il mio posto nell’universo sarebbe uguale a quella di un sasso o di un insetto o di un oggetto qualsiasi.
Certamente è indispensabile il confronto con le culture diverse, come tu dici. Ne sono convinto, come lo sono i più grandi teologi che ti citavo e una lunga schiera di preti, vescovi, cardinali, di teologi cattolici o protestanti (Bonheffer, Von Balthasar), ortodossi (Pavel Florenskij) e altri rappresentanti di altre confessioni religiose. È chiaro che nessun uomo, in quanto essere imperfetto, può sostenere di possedere la verità assoluta. La mia personale ricerca, partendo dalle precedenti premesse, si esercita leggendo autori “scomodi” per la Chiesa, come Vito Mancuso, Don Milani, Don Andrea Gallo, le filosofe Simone Weil ed Edith Stein. Ma questo non significa che dobbiamo fare tabula rasa delle nostre personali convinzioni precipitando in un relativismo assoluto che non prevede nessun appiglio storico o logico, che è buio e profondo e che porterebbe necessariamente ad un nichilismo disperante.
Certo che ci si deve confrontare, ma senza l’arroganza di coloro che giudicano le posizioni degli altri erronee, infantili, stupide; né confrontarsi significa vedere nell’interlocutore un possibile adepto alle proprie idee dopo averne demolito le certezze, senza prima averle ascoltate con atteggiamento di apertura e di lealtà. Confrontarsi non significa irridere il diverso e accompagnarlo fino al limitare dell’abisso scettico per godere nel vederlo precipitare in quei gorghi.
Nessuno è detentore della verità ma tutti abbiamo diritto di condurre la nostra personale ricerca. Io ti posso dire, caro amico, che in Gesù vedo “la Via, la Verità e la Vita”.
Sul testo che mi proponi: ti ribadisco i nomi cui sono solito abbeverarmi quando ho dubbi o incertezze o per allargare i confini del mio povero sapere. Il signor Stefano Sambataro non rientra né rientrerà nell’elenco vasto delle mie future letture.