Alfio Pelleriti
I cantastorie siciliani alla fine degli anni ’50 e nel decennio successivo presentavano storie d’amore finite tragicamente o personaggi che erano balzati agli onori della cronaca e che avevano particolarmente toccato la sensibilità popolare. Passavano di tanto in tanto da Biancavilla e ricordo che, nel mio quartiere, “Casina”, in tanti si stava ad ascoltare incantati questi artisti girovaghi. Ci si commuoveva fino alle lacrime o si sorrideva o ci si indignava contro i “nemici” del protagonista che era sempre buono, coraggioso, generoso con i più deboli e castigatore inflessibile di imbelli e traditori. Tra questi il più rappresentato, acclamato e mitizzato era Salvatore Giuliano, il bandito di Montelepre.

Questi cantori popolari, che certamente possedevano un’innata capacità affabulatoria e una sorprendente abilità drammaturgica e recitativa, contribuirono fortemente a creare il mito di Turiddu Giuliano che rubava ai ricchi per alleviare le sofferenze dei poveri. Era un racconto falso e bugiardo, contrario alla realtà storica. Giuliano era un bandito che si macchiò di gravi e numerosi delitti, che si appoggiava alla mafia e a certa aristocrazia isolana in combutta con i massoni, con i servizi segreti e con i fascisti.
Ciccio Busacca, come Orazio Strano o Vito Santangelo erano abili artisti popolari che, nati e cresciuti col popolo, ne conoscevano le sofferenze e le privazioni, i soprusi che da tempo avevano patito. Sapevano che i contadini lavoravano la terra dei signori dall’alba al tramonto per ricavarne solo l’indispensabile per sopravvivere. Ciccio Busacca sapeva che lo Stato non era amico dei poveri perché non interveniva per alleviarne le pessime condizioni sociali ed economiche, ed esso, infatti, era percepito come un nemico e chi lo rappresentava era uno “sbirro”, cioè un “venduto al nemico”, uno di cui non ci si poteva fidare.
Era dunque facile far passare un sequestro di un sacco di farina proveniente dal mercato nero operato da due carabinieri a danno del ventenne Giuliano come un’angheria e aver acceso un conflitto a fuoco con i due “sbirri”, un atto di coraggio e la successiva uccisione di chi voleva arrestarlo un atto di giusta ribellione ad una “prepotenza” (pigghia la mira tira lu grillettu e ai due carrabbineri ci sbucau lu pettu). E da lì in poi, racconta la versione del cantastorie, “foru tassati tutti li ricchi e ccu ddi sordi foru aiutati tutti i puvureddi”, “di li poveri era un prutitturi e di li ricchi lu veru tirruri” (toglieva ai ricchi per aiutare i poveri). Quell’uditorio aveva bisogno di miti e di modelli di riferimento e i cantastorie gli offrivano quello di un giovane aitante e coraggioso, intervistato da giornalisti della stampa estera, esponente convinto del separatismo siciliano e colonnello dell’Evis (Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia), tacendo sui 400 morti ammazzati, sull’attentato di Portella della Ginestra, dove sparò su famiglie contadine riunite per festeggiare il 1° Maggio del 1947. Il cantastorie Orazio Strano cantava nelle piazze che Giuliano uccideva i briganti violenti le cui truci azioni gli venivano addebitate ingiustamente. Narra che Giuliano regalò 50 mila lire a due bambini che erano stati derubati dai briganti che vennero puniti con la morte; così come vendicò un anziano contadino a cui era stato rubato l’asino e al quale regalò 100 mila lire. Nessuno diceva che Giuliano era un bandito che uccideva a cuor leggero i rappresentanti delle forze dell’ordine, figli anche loro di contadini e di povera gente. Si mettevano in piedi stereotipi cari alla subcultura sicilianista, fondati su un arcaico sentimento di rancore sociale, su un atavico sentimento di vendetta.

“Turiddu” diventò un eroe perché già lo era per il popolo, poiché quel popolo degli anni Sessanta del Novecento era quello che aveva subito l’arroganza del notabilato isolano e che non aveva mai avuto una rappresentanza politica che avesse potuto perorare la sua causa. Erano cambiati tanti governi e i colori delle bandiere, da Ferdinando e Francischiello si era passati al tricolore sabaudo dopo l’innamoramento per la “libertà” portata da “Garibardu”, interpretata come possibilità di scannare i “cappeddi”, i “civili”, e di prendere a piacimento la proprietà altrui.
Dal 1282, anno dei Vespri, il popolo siciliano si sollevava al grido di “Antudo!”, l’acronimo di “Animus Tuus Dominus”, motto delle insurrezioni e delle ribellioni governate da furbi, mestatori di professione o da organizzazioni che gestivano sapientemente la rabbia popolare per fini che poco avevano a che fare con la giustizia o con la buona politica o con i diritti universali dell’uomo. Sarà così nel 1820 contro i Borbone che avevano accorpato la Sicilia al regno partenopeo; nel 1848 con la “primavera dei popoli”, una ventata rivoluzionaria che interessò tutta l’Europa e anche la Sicilia che ebbe la sua Costituzione poi revocata da quel Ferdinando II che oggi il neo indipendentismo siciliano vorrebbe presentare come un grande statista. Ancora si gridò “Antudo” nel 1866 con l’insurrezione detta del “sette e mezzo” e ancora negli anni novanta dell’Ottocento con i “fasci siciliani”. E infine nel 1943 con lo sbarco alleato in Sicilia con l’insurrezione voluta da Antonio Canepa o Mario Turri, lo pseudonimo con cui firmò “La Sicilia ai Siciliani!”, un pamphlet con il quale si indicava la separazione dell’isola dallo Stato unitario per dare finalmente diritti e giustizia al popolo, pazienza se per raggiungere l’obiettivo si trattava con servizi segreti, massoni, aristocratici, banditi e mafiosi.
Ciccio Busacca, come gli altri cantastorie, dava voce a sentimenti ribellistici, antistatali, che si erano stratificati nella mente e nel cuore del popolo siciliano attraverso i secoli. Il suo percorso artistico cambiò notevolmente dopo l’incontro con Ignazio Buttitta, il poeta di Bagheria che, dopo averlo ascoltato, gli propose una sua composizione su Salvatore Carnevale, il sindacalista ucciso nel 1955 dai sicari mafiosi a Sciara. Buttitta scriverà altri testi che l’artista paternese interpreterà superbamente. Non si può fare a meno di piangere di commozione ascoltando il racconto dell’uccisione di Carnevale e del dolore della madre che si stringe al petto quel figlio senza vita, ucciso per aver dato una speranza di riscatto agli sfruttati. E sarà sempre Buttitta che scriverà per Busacca “La vera storia di Salvatore Giuliano” mantenendo il pathos della narrazione ma ristabilendo la verità storica sul protagonista del racconto. Dice Sciascia: “Il sentimento che Buttitta ha verso Giuliano è di pietà, non di ammirazione”.
IGNAZIO BUTTITTA
Questa mia stagione è quella delle scoperte, ma è anche il venir meno di convinzioni personali che supponevo indistruttibili come l’acciaio.

Tra tali certezze, vi è sempre stata l’assoluta contrarietà al dialetto o alla “lingua” siciliana per indicarne la storia millenaria e l’anima popolare. L’idiosincrasia era certamente dovuta ad un proliferare di poeti che si sono presi sul serio mandando alle stampe sonetti e versi in ottonari o in endecasillabi per rendere omaggio al cliché del cielo terso, della luna che splende nella tiepida notte, al sole che tramonta inondando di rosso bagliore le valli o all’alba che sorride al contadino che contento, zappa in spalla, si reca all’”antu”. Poemi interi sulla quotidianità, sulle festività paesane e sulle tradizioni popolari, versi senz’anima e di pessima composizione formale per elogiare il già visto e il già sentito, eludendo le tragedie e le contraddizioni della storia dell’isola.
Negli anni Ottanta dello scorso secolo invalse la moda del dialetto nelle scuole e ci fu qualcuno che lo propose come materia di studio tra le discipline curriculari, cosicchè gli insegnanti facevano a gara nell’organizzare spettacolini penosi, definiti pomposamente “teatro dialettale”, con sceneggiature miranti a dare positività agli stereotipi più arcaici che la scuola avrebbe dovuto condannare e ancora tante attività “integrative” con centinaia di ore tolte ai curricoli fondamentali e al consolidamento dei saperi essenziali, per dedicarle alle ricette della nonna, alla “saggezza” dei proverbi della tradizione popolare, alle vicende storiche e religiose del Santo patrono o agli angoli più suggestivi del paese che un teorico quanto improbabile turista avrebbe potuto visitare, ed altre amenità su cui non vale la pena soffermarsi.
Del resto non è certo tramontato il teatro dialettale degli attori professionisti, quello delle commediole recitate rigorosamente in dialetto catanese che presentano storielle di corna, di amanti in cerca di vendetta, di furberie e di episodi basati sui doppi sensi, sulle battutacce da trivio, sugli ammiccamenti volti a stimolare lo sghignazzo.
Poi recentemente, mi sono imbattuto prima in Ciccio Busacca, tra i più famosi cantastorie del secondo dopoguerra, poi in alcune poesie di Ignazio Buttitta e in due suoi testi scritti per essere cantati nelle piazze dal cantastorie di Paternò, “La vera storia di Salvatore Giuliano” e “Salvatore Carnevale”, il sindacalista di Sciara ucciso dalla mafia nel 1955. Pur con le dovute critiche che già Leonardo Sciascia avanzava sulla “ricostruzione” del personaggio Giuliano che ancora veniva posto dentro il mito e presentato come un uomo forte e coraggioso ma tradito e fuorviato da baroni e mafiosi, si sente una componente sociale e un rigore storico nella presentazione del bandito di Montelepre rispetto ai testi che circolavano presentati dallo stesso Busacca e da Orazio Strano.

Ciò che colpisce nei testi di Buttitta è il pathos tipico della tragedia classica; è la pietas per i personaggi delle storie che diventa vicinanza morale e politica per il popolo che ha subito ingiustizie dai potenti di turno. Essi si caratterizzano per una forte componente emotiva che accompagna la drammaticità dell’evento narrato e le azioni del personaggio. Buttitta riesce con una capacità naturale, istintiva, a trasmettere sentimenti forti che stanno alla base del sentire umano; individua le problematiche sociali della sua comunità e sa evidenziarne la cifra profonda. “Una poesia di rivolta e di speranza, un grido inconsueto nella poesia dialettale siciliana”[1] afferma Leonardo Sciascia nella nota introduttiva a “La vera storia di Salvatore Giuliano”. Buttitta sceglie i colori, l’intensità, lo spessore connotativo per creare affreschi, dipinti straordinari assimilabili ai quadri di Guttuso, il pittore che di quel popolo sfruttato e vilipeso evidenziò l’anima generosa, e così anche Buttitta è l’aedo, il cantore dei “puvureddi” che hanno patito l’arroganza dei potenti.
Egli si assume il compito di dare voce a chi mai l’aveva avuta, e saltando a piè pari la tradizione dei guitti e della recitazione claunesca, pone innanzi al cuore e alla mente del lettore la verità storica, l’ingiustizia e le vessazioni cui era stato sottoposto il popolo; denunzia i profittatori, il collateralismo colpevole dei grandi agrari; l’ipocrisia e l’arrivismo di certi politici; la violenza bestiale e l’infinita cupidigia della mafia. È un novello aedo Buttitta che è capace di fare affiorare l’ethos popolare e sui suoi testi mi sono letteralmente “avventato”, leggendoli senza sosta, divorandoli, fermandomi solo quando le lacrime diventate copiose, mi impedivano la lettura. Non c’è poesia di Buttitta che non mi abbia spinto alla commozione forte e al pianto liberatorio.
Ignazio Buttitta, Lamento per la morte di Salvatore Carnevale

Francesca Serio
madre di Salvatore Carnevale
La strage di Portella della Ginestra:
1… 4
C’era fudda dda matina, Quannu vinni l’oraturi
lu sapeva Giulianu; acchianò supra dda petra
ma la fudda un lu sapeva e la fudda: viva! viva!
e ballava nni ddu chianu. comu terra che si spetra.
2 5…
Cu cantava, cu sunava Di lu munti La Pizzuta
cu accurdava li canzuni, ch’è rimpettu di lu chianu
e li tavuli cunzati spara supra di la fudda
di simenza e di turruni cu la banna, Giulianu.
3 6
Zitu e zita cu la manu A tappitu e a vintagghiu
nni la manu cu li caddi, mitragghiavunu li genti
zitu e zita chi caminanu comu fauci ca meti
e si stricanu li spaddi. cu lu focu nni li denti.
7 … 11 …
Spavintati pi ddu chianu Supra l’erba li chianceru
scappa ognunu e un sapi unni: figghi e matri scunsulati
lu marusu cristianu cu li lacrimi li facci
jetta focu e grapi l’unni. ci lavavunu a vasati.
8 12
C’è cu chiama, c’è cu cerca, Na picciotta cuntadina
c’è cu chianci e grida aiutu! cu lu figghiu nni li vrazza
cu li vrazza jsa all’aria “A sett’anni t’ammazzaru,
pi difisa comu scutu. figgiu miu, diventu pazza!”
9 13
E li matri cu lu ciatu Pi discriviri dda straggi
cu lu ciatu senza ciatu: ci vulissi un rumanzeri:
figghiu miu! E corpu e vrazza sta chitarra un sapi chianciri,
comu ghiommuru aggruppatu. mmalidittu stu misteri!
10 … 14
C’è cu cadi e nun si susi Margherita la Clisceri
nchiudi l’occhi e resta mortu ch’era dda cu cincu figghi
cu si mancia a muzzicuna arristò cu l’occhi aperti
petri ed erba e quagghia tortu abbrazzata a tutti cincu.
15

Nni li vrazza di la morta
un sugghiuzzu di nnuccenti:
lu cchiù nicu ntra la panza
chianci sulu, e nun si senti
16
Siddu iti a la Purtedda,
ascutati chi vi dicu:
nni la panza di so matri
chianci ancora lu cchiù nicu
17
E li morti sunnu vivi,
li tuccati cu li manu:
cu muriu a la Purtedda
fu la mafia e Giulianu!
(le strofe sono tratte da Ignazio Buttitta, “La vera storia di Salvatore Giuliano”)
Sulle vicende del secondo dopoguerra in Sicilia si sono consultati i seguenti testi:
Alfio Caruso, Quando la Sicilia fece guerra all’Italia, ed. Longanesi, Milano 2014;
Antonello Battaglia, Sicilia contesa. Separatismo, guerra e mafia, Salerno editrice, Roma 2014; Ignazio Buttitta, La vera storia di Salvatore Giuliano, Sellerio editore, Palermo 2019.
[1] IGNAZIO BUTTITTA, “La vera storia di Salvatore Giuliano”, Sellerio editore, Palermo 2019, seconda edizione, nota introduttiva di Leonardo Sciascia.