di Alfio Pelleriti
Il libro di Alfio Caruso, edito da Longanesi nel 2014, dovrebbe occupare un posto ben visibile nelle biblioteche delle scuole superiori e delle università, e non dovrebbe mancare in quelle di chi ama approfondire questioni storiche nazionali sulle quali aleggia una nebbia ancora alquanto fitta.

Gli anni ’40 in Sicilia, lo sbarco alleato, le manovre oscure nella preparazione del nuovo assetto sociale, politico ed economico dopo la disfatta del fascismo, il ruolo degli indipendentisti e delle logge massoniche e soprattutto il ruolo di primo piano della mafia nel tessere trame che avrebbero poi determinato anomalie gravi nella gestione della vita pubblica dell’isola, costituiscono gli argomenti sui quali si concentra l’analisi dello scrittore.
Col suo consueto stile, chiaro ed elegante, indica responsabilità ed errori, ipocrisie e viltà degli attori che si mossero in Sicilia in quegli anni bui e violenti, conducendo una ricerca storica che non è un resoconto asettico, cronachistico dell’intricato periodo ma assume una caratteristica narratologica capace di fare emergere il pathos di quegli anni drammatici.
Il lettore, dunque, man mano che procede, chiarisce a se stesso dubbi, apprende aspetti dell’argomento in questione non considerati in passato, e ha la sensazione di avere finalmente chiara una vicenda, di conoscere a fondo un personaggio o le finalità di un gruppo, di un partito, d’una consorteria. L’autore esamina in particolare i sette anni che vanno dallo sbarco alleato del 10 luglio 1943 fino al 4 luglio del 1950 quando venne ucciso il bandito Salvatore Giuliano, protagonista sanguinario di quegli anni.
Il libro rappresenta un fondamentale contributo alla verità storica, in particolare sul ruolo svolto in quel periodo da alcuni personaggi come Andrea Finocchiaro Aprile e Antonio Canepa, fondatori del MIS, Movimento per l’indipendenza siciliana; su ex fascisti arruolati dai servizi segreti e dalla massoneria isolana per fare argine alle “pretese” dei contadini e dei sindacalisti di volere applicare la legge Gullo sulla concessione di feudi incolti, e per contrastare qualsiasi velleità delle Sinistre di avere un minimo ruolo nella gestione delle istituzioni politiche e amministrative dell’isola.
Emerge una situazione drammatica dal punto di vista socio economico: un’inflazione galoppante che portò alla fame la popolazione, dai contadini al ceto impiegatizio, agli artigiani, ai piccoli commercianti. Vi furono delle zone dove si moriva letteralmente di fame e il baratto veniva usato diffusamente per potere in qualche modo sopravvivere, mentre la politica dell’ammasso, valida per la gente comune, veniva aggirata dai latifondisti che foraggiavano il mercato nero arricchendosi alle spalle della povera gente.
Un decennio assimilabile ad una vera e propria guerra civile, dove il doppio gioco, il tradimento, il ricatto e il ribaltamento della verità, l’intimidazione e la minaccia, furono delle costanti. Un decennio feroce dove le vittime venivano presentate come carnefici e i carnefici come eroi perseguitati. A tale scopo molto si spesero i servizi segreti britannico e americano, ma soprattutto l’OSS statunitense che si avvalse di esponenti mafiosi italo americani come Lucky Luciano o Vito Genovese, di Calogero Vizzini e di Genco Russo, per citarne solo alcuni, ai quali si concesse autonomia d’azione per contrastare i partiti di sinistra (PSIUP e PCI). Grande protagonista fu la massoneria con i suoi grandi mestatori che si muovevano tra mafiosi, banditi, ex fascisti della X^ MAS, e nobiltà isolana che per non cedere neanche un centimetro dei feudi si alleava anche col “diavolo”.
Nel libro di Alfio Caruso si analizza ancora la “distrazione” di De Gasperi nel seguire le vicende isolane, la creazione dello Statuto speciale nato da una bozza che era stata preparata da Finocchiaro Aprile e dai massoni per separare la Sicilia dal resto d’Italia, legandola ai destini americani (quarantanovesimo stato degli USA); si mette in evidenza l’ascesa irrefrenabile di Salvatore Giuliano, il bandito di Montelepre che alla fine della sua carriera, il 4 luglio del 1950, poteva vantare un record assoluto di morti ammazzati, di feriti, di sequestri di persona, di rapine. “E’ il peggiore assassino di ogni epoca: quasi 400 delitti, fra i quali un centinaio di carabinieri, poliziotti, soldati; oltre 150 i tentati omicidi, 37 sequestri di persona, quasi 90 i conflitti a fuoco”[1] (305). Eppure ancora dopo la sua morte, almeno fino agli anni ’60, in ogni paese della Sicilia i cantastorie con voce tremula e appassionata, come i pupari che davano voce ad Orlando, cantavano il coraggio del “paladino del popolo”, presentandolo non come un bandito feroce e sanguinario ma come il “Robin Hood di Montelepre” che rubava ai ricchi per aiutare i poveri; e ancora oggi in qualche sito “separatista” si sproloquia di Giuliano come di un eroe benefattore (si veda un’intervista del nipote di Giuliano, Giuseppe Sciortino, nato dal matrimonio di Pasquale Sciortino con Mariannina, sorella di “Turiddu”).
Nel libro si esamina il ruolo di numerosi altri personaggi che agivano nell’ombra ma che saranno decisivi per l’assetto politico ed economico futuro dell’Isola e per la cristallizzazione di problemi socio-economici oltre che culturali che determineranno un gap negativo nei confronti del resto d’Italia, un mancato sviluppo “spiegato” ancora oggi con la mendace, insopportabile propaganda neo indipendentista e revisionista che presenta ancora una volta l’unità d’Italia come la nascita della “colonia siciliana”, espressione usata da Nicola Zitara in un suo noto libro.
[1] ALFIO CARUSO, “Quando la Sicilia fece guerra all’Italia”, Edizioni Longanesi, Milano 2014, p. 305
A PROPOSITO DI INDIPENDENTISMO
Alfio Pelleriti
Il portavoce della comunità “Terraeliberazione”, Mario Di Mauro, pubblica sul sito dell’associazione un bizzarro articolo sul significato dell’”impresa dei Mille”, ricco di tantissime affermazioni non suffragate da alcun documento o prova se non dalla passione e dalla veemenza con le quali inveisce contro gli odiati nemici della Sicilia, gli “invasori italici”. In realtà l’articolo si inserisce nella pubblicistica del revisionismo storico affidato a neo indipendentisti, neoborbonici e mestatori che, dal secondo dopoguerra in avanti, prendono forma risorgendo dalle loro ceneri come l’araba fenice, rispolverando la solita strategia adottata in passato, quella di rivoltare la nostra storia patria come un calzino proponendo menzogne come verità rivelate, sostituendo le contumelie al rigore della ricerca e alla pacatezza dello storico di professione.
Così, questo paladino della Trinacria giallorossa, con il consueto livore che contraddistingue questi “patrioti” del nazionalismo isolano ad oltranza, indica nella “Toscopadania” il nemico che ha affossato ogni possibilità di progresso e di ricchezza per la Sicilia; afferma che “il regime dell’italietta risorgimentale, il ‘Risorgimento’ è una truffa spettacolare”.
E continua poi, l’inviperito estensore dell’invettiva, con un’aggettivazione creata all’uopo perché possa ben trasmettere il suo siculo rancore: la Sicilia sarebbe “italienata” o una “colonia-bandita” o una “piattaforma strategica dell’imperialismo ‘euro-atlantista’”, l’impresa dei Mille, una “nebbia ribellistica ‘colorata’ che copriva la conquista coloniale anglo-piemontese delle Due Sicilie”; l’intento dei “garibaldeschi”, dice ancora il sapiente storico e patriota del regno delle Due Sicilie, sarebbe stato quello di “distruggere l’industria delle Due Sicilie per trasferirla in Paludania”, per poi assestare il colpo finale ad effetto, quello della rivelazione di una verità nascosta dalla storiografia ufficiale: l’impresa dei Mille “aveva nell’ombra una formazione di 22.000 militari, costituita da ‘legioni straniere’ di ungheresi, indiani, zuavi”. Non poteva mancare poi la solita accusa al governo unitario di essersi appropriato delle ricche casse del Banco di Sicilia e del Banco di Napoli, affidando il frutto della rapina al cassiere pro tempore, Ippolito Nievo.
Infine un vero e proprio delirio: “la Sicilia federiciana, roccaforte di un progetto imperiale progressivo, sconfitto dalla Reazione barbarico-feudale europea padana &papista, aprendo una faglia geo-storica tuttora attiva”.
La storia vera dice tutt’altro. Ci affidiamo a due fonti per rispondere alla “propaganda” del vittimismo indipendentista: l’Enciclopedia Treccani e ai giornalisti Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella.
“… dal 1860 il Banco regio dei reali dominî al di là del Faro assunse il nome di Banco di Sicilia. Avvenuta la sistemazione organica di tutte le casse e degli stabilimenti del Banco delle Due Sicilie sotto il nuovo nome di Banco di Napoli (r. decr. 27 aprile 1863), il governo italiano si riservò di regolare analogamente il Banco di Sicilia. E con legge 11 agosto 1867, n. 3838, si riconobbe questo, insieme con le annesse casse di sconto, come unico istituto di credito avente qualità di ente morale e giuridico autonomo. Lo stesso anno, il 5 dicembre, venne decretata la sua funzione di banco di emissione di biglietti, emissione che il banco iniziò il 1° gennaio 1870.
Il patrimonio del banco che nel 1843 non esisteva, e che nel 1870 era di L. 5.855.978, era salito (al 31 dicembre 1934 globalmente per le sezioni) a L. 470.931.785”.
Enciclopedia Treccani
“Uno storico sicuramente non filo-unitario come Mario Costa Cardol ricorda che ‘nel 1860 il Piemonte contava 803 chilometri di strade ferrate, la Lombardia 202, il Veneto 298, la Toscana 256 (…) e infine veniva l’ex regno napoletano, con 98’ peraltro non al servizio dei cittadini ma dei Borboni perché potessero raggiungere più comodamente le sontuose residenze reali di Portici e Caserta. Chissenefrega: abbasso Garibaldi!”
“Il tentativo di trasformare il protagonista del Risorgimento che all’epoca, secondo lo storico inglese Denis Mack Smith, era ‘la persona più conosciuta e amata del mondo’ in una specie di ‘delinquente, terrorista, mercenario’ (definizione di uno pseudo-saggio che dilaga online) non è nuovo. Basti rileggere “I napoletani al cospetto delle nazioni civili” scritto da un anonimo e pubblicato senza data né luogo di stampa perché clandestino sotto il nuovo regno d’Italia: «Briganti noi, combattendo in casa nostra, difendendo i tetti paterni, e galantuomini voi, venuti qui a depredare l’altrui? Il padrone di casa è il brigante o non piuttosto voi, venuti a saccheggiare la casa?»”
“Il catanese Raffaele Lombardo ha affermato, quando il suo Movimento per l’autonomia era in auge, che «è tempo che l’intera nazione prenda coscienza del male che ci ha fatto Garibaldi: l’unità ci ha portato sottosviluppo, immigrazione, e un genocidio chiamato brigantaggio, con gli insorti impiccati, bruciati vivi e denigrati come banditi. La conquista savoiarda ha depredato le casse del Banco di Sicilia e ha impedito la nascita di uno Stato federale sotto il coordinamento di un sovrano, magari del Papa»”
Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella 23 aprile 2010