di Alfio Pelleriti
Terminato il libro, una tristezza profonda mi assale come quella che si prova quando saluti un amico e sai che mai più lo incontrerai. In “Terra matta” Vincenzo Rabito, ragazzo del ’99, racconta episodi della sua vita che hanno attraversato la storia italiana fino agli anni Settanta del ‘900, cinquant’anni di eventi drammatici e pieni di contraddizioni.

Il “diario” di Rabito, tuttavia, ha qualcosa che lo rende unico: i fatti storici che fanno da contesto alla narrazione non si offrono “freddi e obbiettivi”, pronti per le osservazioni degli addetti ai lavori (storici, economisti, sociologi, filosofi, narratori) perché li interpretino e li spieghino, ma costituiscono la “storia” che presenta se stessa così come accade nella vita di un uomo che non sa filtrare i fatti di cui è protagonista; non sa togliere o aggiungere nulla agli eventi quando li descrive; li racconta così come gli accadano insieme alle emozioni che gli provocano; è una storia “vera” quella di Vincenzo, poiché egli non è stato educato ad edulcorare, a velare, a costruire con espedienti narratologici e linguistici. E’ dunque una testimonianza autentica di un protagonista obbligato a vivere quegli eventi. È il diario di un uomo “qualunque”, un contadino nullatenente il cui unico problema è quello della sopravvivenza in una realtà che non poteva programmare o gestire.
Egli, bracciante agricolo, poi manovale saltuario in imprese edili, fante nella prima guerra mondiale col ruolo di “zappatore” e quindi necessario per scavare trincee o seppellire i caduti, non poteva decidere della sua vita poteva solo subirla. I fatti sono narrati da un “cantastorie”, da un fuoriclasse “di lu cuntu”, da un aedo a cui viene naturale applicare i tempi, inserire le descrizioni, riferire le emozioni che accompagnano l’azione; e tutto risulta leggero, anche quando sono presentati i fatti più truci, con l’inserimento di episodi esilaranti che, nella loro semplicità, spezzano i toni pesanti e scuri del dramma, portando il lettore alla risata irrefrenabile, consentendo alle emozioni contrastanti di esplodere in uno sfogo che prevede il pianto e il riso insieme. Ad esempio l’episodio della statua di S. Antonio messa di guardia all’entrata della chiesa e confusa dal capitano con un soldato che irrispettoso non aveva salutato l’ufficiale.
Classe 1899, Vincenzo Rabito, contadino “jurnataru”, nasce e vive a Chiaramonte Gulfi, in provincia di Ragusa. Resta orfano del padre a dodici anni e sente già la responsabilità di fare di tutto per aiutare i componenti della sua numerosa famiglia. Dall’alba al tramonto dunque lavora, cercando di cogliere ogni occasione propizia per guadagnare qualche soldo in più, aguzzando l’ingegno per leggere bene la realtà e affrontarla poi per averne i maggiori vantaggi.
E’ povero Vincenzo perché, come tanti altri, deve vincere la fame, il freddo, il caldo torrido dell’estate, la stanchezza, o sopportare l’arroganza dei “caporali”. È povero culturalmente perché non può permettersi di andare a scuola e non potrà provare la gioia sottile che proviene dalla lettura o dalla fruizione dell’arte magari in viaggi nelle grandi città italiane o europee. Egli è felice ed è soddisfatto solo quando gli danno una buona paga dopo 14 ore di lavoro o quando un conoscente lo fa salire sul carretto evitandogli due o tre ore di cammino; oppure quando può bere una bottiglia del buon vino di Vittoria che lo stordisce e lo fa dormire pesantemente.
Vincenzo è povero e la sua sfera spirituale è quasi azzerata: non ha tempo per coltivare amicizie, per relazioni che lo possano spingere a riflessioni sul senso della vita e, quando patisce ingiustizie, non si rifugia nella preghiera ma in un profluvio di bestemmie.
Eppure quest’uomo semplice riesce a testimoniare, da diretto protagonista, la cifra delle vicende politiche e sociali che attraversano l’Italia: le due guerre mondiali, il “biennio rosso” del 1919/1920; il fascismo “movimento” con le violenze squadristiche e il fascismo “regime” con le guerre di conquista in Africa orientale; gli anni ancora tragici del dopoguerra in Sicilia e della Ricostruzione, fino agli anni Settanta. Vincenzo Rabito è l’archetipo dei siciliani vissuti in un periodo storico in cui i poveri, che rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione, non hanno il tempo materiale per riflettere, né possono fare sonni tranquilli e godere di sogni splendidamente colorati. Loro non sognano, dormono profondamente e senza passare dalla fase del “dormiveglia”: si addormentano dopo avere poggiato le spalle sul materasso, stremati da una giornata di lavoro lunghissima e pesantissima e si svegliano di colpo, strattonati da chi si è svegliato prima, ancora al buio, prima che albeggi, poiché bisogna camminare a piedi per ore prima di arrivare sul luogo di lavoro o nella piazza del paese ad aspettare massari e gabellieri che avrebbero scelto gli uomini “più adatti” per la vendemmia o per la mietitura o per la raccolta delle olive o delle arance o delle fave.
Il testo rappresenta una sintesi ragionata, curata da Evelina Santangelo e Luca Ricci, di migliaia di pagine di un diario scritto da un analfabeta che da autodidatta apprende una scrittura che è la traduzione approssimativa del dialetto siciliano, e che i curatori lasciano così come l’autore l’aveva scritto senza apportare alcuna correzione ma solo qualche nota per i termini dialettali più arcaici. “Terra matta” è dunque un libro per stomaci forti poichè non una parola è scritta come vorrebbe l’ortografia, il rispetto della concordanza, le regole della grammatica e della sintassi o la punteggiatura. È un linguaggio ibrido con netta prevalenza del dialetto e qualche tentativo mal riuscito di una traduzione in lingua italiana. Il testo si caratterizza per l’assenza di un riferimento ad un codice comunicativo standardizzato, appreso in un contesto diverso dall’ambiente in cui il protagonista è vissuto (la famiglia, la campagna, i conoscenti suoi compaesani). Una scrittura originale, non filtrata, senza modelli, non trasmessagli da una qualsiasi agenzia educativa, ma appresa rubandone i meccanismi ad una cartolina postale, ad un foglio di giornale ad una scritta su un muro, i cui segni grafici venivano fatti corrispondere in maniera approssimativa e con molta fantasia ai fonemi del parlato.
Un linguaggio rude, primitivo, istintuale, senza freni inibitori, popolare che risponde alla necessità di raccontare, ad un bisogno innato di lasciare segno del proprio vissuto magari non ad un vasto pubblico, ma a uomini che potessero stare in una piazza più grande di quella di Chiaramonte; magari qualcuno, sperava l’autore, lo avrebbe potuto fare arrivare quel testo a Siracusa o a Catania, o semplicemente Rabito ha scritto per concedersi un piacere diverso che non fosse quello di mangiare e di dormire. Ciò che egli pensa lo scrive, subito, senza averlo prima pianificato; i suoi pensieri arrivano direttamente sulla carta senza perdere tempo con ciò che per lui sarebbe inutile e vano. Quel che conta sono i fatti che si inseguono gli uni con gli altri seguendo soltanto un ordine cronologico e mettendone in evidenza la tensione drammatica, le emozioni forti.

Negli anni ’50 e ’60 a Biancavilla, come in altri luoghi della nostra isola, era consueto scorgere dei capannelli attorno alla panchina di una piazza o all’interno dei circoli “Combattenti e reduci”, che si animavano al racconto di un anziano testimone di episodi vari delle due guerre mondiali e il linguaggio che veniva usato era esattamente quello adoperato in “Terra matta” da Vincenzo Rabito. Fin dalla prima pagina del libro ho ripensato a mio nonno, anche lui combattente nel primo conflitto mondiale e ai suoi rari accenni agli anni della guerra, poiché lui non amava parlare di quegli anni rubati alla sua giovinezza, sprofondato per quattro anni nella violenza assurda della guerra, ma quando ne parlava il racconto era essenziale come un bagliore nelle tenebre, privo di retorica poiché di quella esperienza metteva in evidenza, come Rabito, il dramma, le privazioni, la violenza.
Vincenzo invece ama raccontare presentandosi al lettore con tutte le sue ansie e le difficoltà di una vita difficile e piena di insidie a cominciare dalla prima guerra mondiale: lascia a 18 anni quella casa piccola e povera di Chiaramonte dove vivevano in cinque e parte col fratello più grande, Giovanni, che presto tornerà a casa ma senza una gamba perché una granata gliel’ha tranciata. Lui invece, nonostante conviva con la morte, è solo sfiorato, come altri fortunati fanti lì sul Grappa, sul Piave, sul Monte Santo, a Gorizia, dal piombo degli austriaci, altri giovani mandati a morire dalla follia di governanti che inseguivano il sogno di rimanere nella storia per aver esteso i confini del proprio territorio e avere accresciuto la propria potenza fino alla creazione di un impero.
E ci racconta di un generale che parla ai ragazzi del ’99:
“Questo dono vi lo fa il vostro comantante cenerale della 3 Armata: li vostre debite non li pagate, e verranno pagate magare li arreterate e li tratenute che avete avute fatte, e vi pacherà il foriere, e oggi stesso. Così io desse a voce forte: – Menomale, che così se moremmo, moremmo contente, perché moremmo senza lasciare debite!”.
O del difficile avvicinamento alla prima linea:
“Alla sera cominciammo a camminare verso dove c’era la querra e cominciavo a piovire, e camminammo con la strada tutta infancata, poi che erimo carrecate come li vero mule ed erimo sempre stanche e bagnate con la bocca aperta coma li cane arrabiate, e bestimiammo, che d’ognuno bestemiava al santo prodettore del suo paese”.
O ci fa sapere cosa provassero quei ragazzi di 18 anni al “battesimo del fuoco”:
“…E così, amme, tutta la paura che aveva, mi ha passato… impochi ciorne sparava e ammazava come uno brecante, no io solo, ma erimo tutte li razze del 99… deventammo tutte macellaie di carne umana… e per tre ciorne fuommo abandunate dal Padre Eterno, senza rancio e senza dormire, perché li mule che dovevino portare la spesa erino morte pure… e il nostro elimento era la bestemia, tutte l’ore e tutte li momente, d’ognuno con il suo dialetto, la bestemia per noi era il vero conforto… che brutta vita che ha passato, questo Rabito Vincenzo”.
E continuò anche al suo rientro a subire gli eventi, in cerca sempre di un lavoro che potesse consentirgli di sfamare la madre e i fratelli, impiegato ancora come soldato nella ricostruzione di arterie stradali o volontario in Abissinia, dopo l’avvento del fascismo, e poi emigrato in Germania tra il 1939 e il 1942, operaio nelle miniere di carbone, rischiando continuamente la vita con i continui, martellanti bombardamenti americani sulle città tedesche.
“Poi che lui sempre portava la camicia nera, io alla domineca mi la meteva sempre, perché in quei tempe, se uno voleva essere respetato, bastica alla domineca usceva con la camicia nera”.
Non fu travolto da quella tempesta di tragici eventi grazie ad un innato, forte istinto di sopravvivenza che lo portò a diventare fascista, lui che “di rere e rreditoria” (da sempre e da generazioni), era stato socialista. Dopo lo sbarco alleato in Sicilia dovette barcamenarsi tra banditi, indipendentisti, baroni, mafiosi con nuove casacche politiche.
Gli Americani sbarcano in Sicilia il 10 luglio 1943:
“Quinte, queste brecante si chiamavino ‘separatiste’: erino tutte fuora leggi e facevino quello che volevino. E certe notte pareva che erimo in querra”.
…
“E per tutta l’Italia, li operaie, da fasciste, tutte deventareno comuniste. E quinte era tempo che campiaveno le cosi. E io che era fascista della prima ora, di fascista subito mi offatto parteciano e comunista, perché altremente umposto non lo poteva capitare”.
Resistette il Nostro, come sul Piave, ai nuovi marosi e alle traversie che mai lo lasciarono. E poi si formò una famiglia con una donna che non amava e che, a sua volta, lo disprezzava, ma da quell’unione nacquero tre figli che divennero l’unico scopo della sua vita, e che, ancora, gli faranno attraversare nuove difficoltà, ma che gli permetteranno di provare gioie e soddisfazioni profonde, finalmente.
I suoi tre figli rappresentano tre caratteristiche della personalità di Vincenzo: la costanza nell’impegno del primogenito, Turiddu, che si laurea in ingegneria; avvia un ricercato studio tecnico a Ragusa ed è anche eletto consigliere comunale e poi assessore nel comune natale, Chiaramonte Gulfi; l’istintività e la caparbietà di Gaetano, “Tanuzzu”, che rappresenta un vero tormento per il padre perché non ama studiare ed è attivista del Movimento sociale, è cioè fascista; la naturale tendenza alla creatività di Giovanni, che ama comporre poesie e racconti e insegue il sogno di diventare giornalista.
Il diario di Vincenzo si interrompe di colpo nell’agosto del 1970. Non scriverà più ci informano in una nota i curatori. Morirà nel 1981.
CITAZIONI
Le lettere ai parenti:
“…magare che qualche letra la reciviammo, era tutta scancellata, perché la cenzura se vedeva che c’era scrito: ‘Figlie mieie, state attento! Quartatete!’, non poteva essere di scrivillo e lo scancellavino. Solo non scancillavino quanto la famiglia scriveva: ‘Bisogna di morire per la Madre Padria!’ E noi ci potemmo mandare a dire: ‘Cara madre, io faccio il soldato per defentere la Madre Padria! Che io e tutte diciammo nel nostro penziero: ‘maledetta la Padria che ci stanno fanno morire prima che antassemo in trencieia…’”.
Gli arditi:
“Così, di Vicenza hanno fatto venire 2 battaglione della compagnia di morte, che questi battaglione di morte erino tutte Ardite, e tutte delinquente, tutte fatte uscire a posetamente della galera pria per queste deficile imprese… e li stesse oficiale erino delinquente… però tutte li mazzavino, perché certo che uno che va nella casa del’altro sempre ci aveno la peccio”.
Inverno in trincea:
“Mi senteva che mi stava comincianto a concelare il dito crante del piede e subito lo ho detto al capitano medico… mi aveva fatto il conto che mi lo dovevino curare, e invece, senza che io mi ne sono alcolto, mi hanno fatto mettere a facie a bucone, mi hanno detto che mi incrasavino li piede, e invece questo lazzarone capitano medeco prente la forbice e mi ha tagliato mità del dito, che mi ha fatto sentere un dolore di morire e io ho butato una uce che a tutte li ammalate li ho fatto sbegliare”.
Amicizia in trincea:
“E se faceva una vita che non la fanno nessuno dei peccio condannate del monto: stare imminzo alla neve e il chiaccio a 17, 18 anne, e anze, menomanale che abiammo al bravo tenente Sparpaglia, che per noi 2 era un vero padre. Così io e questo Strano Ciovanne erimo come li coglione, che sempre erimo inziemme”.
Che cos’è la guerra:
“Più non erimo soldate cristiane, ma erimo deventate come li carnefice, erimo tutte diventate pazze… li ferite non venevino curate, né quelle italiane, e né quelle nemice, perché non c’era tempo di medicarle… non c’era un mitro di terra, in quelle ciorne sanquinose, senza di ersece un soldato morto o pure un ferito”.