di Alfio Pelleriti
L’iperbole è una figura retorica che adopera il paradosso per rendere chiara e penetrante l’idea da comunicare. Il calore agostano attanaglia Biancavilla e tutto si trasforma in un ribollio da fornace.

Il sole diventa protagonista assoluto, occupa il centro della scena e assume i contorni di una macchina bellica che viene da un lontano futuro. I suoi raggi diventano saette che somigliano a quelle scagliate da una divinità olimpica irata con gli uomini di cui vuole menare strage con una catastrofe che coinvolge tutto, in un annichilimento collettivo.
Ecco allora che tutto si trasforma in deserto: il basolato di Piazza Roma è vinto dalla terribile calura e si avvalla, si apre e i cactus guadagnano la scena; la Matrice, col suo bel campanile, è colpita e attraversata da quei dardi infuocati e si scioglie come se la pietra calcarea fosse divenuta burro e la sua superba architettura si deforma e implode.
Imperturbabile, insensibile, coriaceo, inossidabile, refrattario a tale terribile energia che tutto avvampa e brucia, un biancavillese è seduto comodamente e legge il suo quotidiano, non interessato al disastro che gli è vicino ma attento ad informarsi su quanto accade in realtà lontane. Lui non è nemmeno l’eroe stoico che tutto sopporta dopo aver fatto un’analisi attenta della realtà in cui vive. No, la sua forza viene dall’abitudine: ogni giorno, estate o inverno, piove o nevica, festivo o feriale, lui deve trascorrere buona parte del suo tempo in piazza. Si siede, apre il giornale e legge con meccanico interesse, dalla cronaca nera alla politica, dallo sport alla pagina culturale, fino ai necrologi. Ingolla articolo dopo articolo, velocemente e, con la stessa facies, imperturbabile senza che vi traspaia una minima emozione da un increspar di ciglia, da un vorticar nervosamente le pupille, da un sospirar dolente nell’apprendere di tragedie in mare con morti e con feriti, di carestie, di terremoti o di tsunami. Ha una forza che gli viene dal ripetere quotidianamente quel rito. Lui deve leggere il giornale, ad ogni costo, ogni mattina, lì in quel posto, con ferrea volontà, sempre, compulsivamente, ubbidendo ad una forza che gli sta dentro e lo domina ormai da tempo.
Anche in questa tavola si nota il tratteggio tipico di Coco, le linee spezzate insieme a linee curve che trovano magicamente un’armonia perfetta. Il giallo ocra che si condensa in un rosso cupo che digrada a sua volta in un chiarore ch’è tipico della materia che si secca, o ancora incupisce quel rosso e assume i toni del bruciato. Un capolavoro autentico.
Ho davanti a me, l’opera del Coco, Agosto, ed una grande tristezza piano piano mi vince.
Un solo, unico soggetto in una piazza diventata deserto.
Per associazione penso al deserto come icona della solitudine, della sofferenza dei disperati che vivono l’ estrema incapacità di relazionarsi ed anche, perché no? a quel deserto che tante carovane di cammelli, carichi come treni merci, sono costretti ad attraversare, ed ancora a quel deserto di dune di sabbia finissima, mutevole, con il vento che soffia e ne trasforma l’aspetto, così come accade spesso nella nostra vita, quando venti di tempesta ci attraversano imponendoci lunghi e silenziosi periodi di riflessione, che inevitabilmente lasciano il segno.
Non ultimo, il disperato “Urlo di Munch” che vuole richiamare ed invocare fortemente la nostra attenzione.
Così il solitario lettore nella piazza, nascosto dietro ad un giornale, dove il solleone ha infuocato il basolato e fatto fondere perfino il campanile uccidendo i colombi che qui ne hanno la residenza, i quali cadono a terra quasi arrostiti dalla gran calura, tra enormi cactus che simboleggiano l’estremo isolamento.
Una sofferenza nascosta, ben camuffata, quella del Coco, a tradirla, secondo me, i colori, quella forma d’ironia che vuole dire l’esatto contrario se solo per un momento riusciamo a guardare oltre.
Santina Costanzo
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