Romano Luperini, Marxismo e letteratura – Storicismo, strutturalismo e punto di vista di classe

di Alfio Pelleriti

Mettevo in ordine la mia libreria e l’attenzione è andata su un mio vecchio acquisto utile per l’esame di Letteratura italiana moderna e contemporanea. Certo non è un’operazione corretta quella di commentare un testo scritto nel 1970 di cui i due terzi risalenti al 1967/68, in piena “contestazione” giovanile. Tuttavia il saggio testimonia di un clima cupo e fortemente condizionato dalle posizioni ideologiche dell’intellighenzia di quegli anni. Già nella prefazione l’autore annuncia da quale posizione teorica vuole condurre la sua analisi: una critica marxista all’arte e specificamente alla letteratura, da sempre sottomessa, afferma l’autore, a canoni borghesi e quindi, in accordo con le istanze della rivoluzione culturale cinese, che fosse una critica radicale, di classe, perché nuove istanze e stilemi potessero affermarsi. Secondo Luperini, dopo l’abbattimento delle strutture produttive borghesi/capitalistiche, bisognava attaccare anche la produzione sovrastrutturale, chiedendo al marxismo e allo strutturalismo gli strumenti necessari per approdare alla vittoria finale: lo sradicamento dell’arte dalle necessità borghesi.

Già tali premesse fanno accapponare la pelle poiché, nell’oltranzismo rivoluzionario di ispirazione “cinese” e nella smania iconoclastica, anche Lukacs o Gramsci apparivano come dei pericolosi reazionari o “quinte colonne” dell’autoritarismo borghese. Dice Luperini nella sua esplicita prefazione: “I comunisti cinesi sono consapevoli che occorre un’analisi di classe delle opere letterarie e artistiche ‘affinchè si possa avere una conoscenza giusta’ e sia possibile anche in parte recuperarle (sic!) in una diversa prospettiva: ma perché ‘il nuovo emerga dall’antico’ bisogna criticarle[1].

Nella prima parte del libro Luperini rincara la dose per cui a me, non più matricola universitaria alla facoltà di lettere e filosofia a Catania, sembra entrare in un romanzo distopico dove la realtà viene completamente capovolta e per l’uso sapiente della logica non c’è più posto. Barberi-Squarotti, professore di letteratura moderna e contemporanea presso la facoltà di lettere all’Università di Torino e direttore del Grande Dizionario della lingua italiana UTET, nonché poeta e critico letterario,  che in un intervento del 1966 aveva criticato gli assunti storicistici e del realismo socialista, è accusato da Luperini di voler tenere bordone allo stalinismo politico e di fare il gioco della borghesia che vorrebbe, tramite il suo revisionismo, ricrearsi una verginità, sfrondandosi delle posizioni più tradizionaliste, eliminando le posizioni più radicali e mantenendo così il “nocciolo duro” della classe sociale al potere. (“La critica allo storicismo e al marxismo diventa così parte della nuova ideologia del sistema: diventa cioè, tout court, critica alla storia, negazione di una visione globale dei problemi, specializzazione tecnicistica: pura divisione sociale del lavoro in vista di una sua razionalizzazione e cioè di una maggiore efficienza settoriale per un più efficiente funzionamento generale del sistema[2].

Il nemico occulto di Luperini è “il sistema”. Cioè? Il potentato borghese, le forze capitalistiche neoimperialiste, cioè quei “nemici di classe” che qualche anno dopo combatteranno le brigate rosse, cominciando ad ammazzare e gambizzare sindacalisti, poliziotti, giornalisti, magistrati, politici e industriali. E il povero Barberi Squarotti che rivendicava l’esigenza di una autonomia della critica e della letteratura viene dequalificato e accusato pubblicamente di essere un “servo dei padroni”, perché ecco cosa pensa Luperini della sua invocata autonomia, lui che la sa lunga: “una autonomia (per la critica e per la letteratura) all’interno di un sistema totalizzante e onnicomprensivo come quello di una società industriale avanzata non può esistere se non come illusione fondata dalla divisione capitalistica del lavoro, come mistificante contropartita ideologica voluta dalla classe dominante per l’effettiva strumentalizzazione delle ideologie alle leggi di produzione”.

Romano Luperini

In questo suo saggio, che assume spesso i tratti dell’invettiva, continui sono i riferimenti alle istanze dei filosofi francofortesi Marcuse, Adorno, Benjamin e allo strutturalismo di Vladimir Propp, in un intersecarsi continuo di analisi politica con riferimenti filosofici. Il critico letterario non dovrebbe limitarsi ad una valutazione “storicistica” dell’opera, afferma, ma dovrebbe individuare il “sistema” che vive e si nutre e si fortifica con l’opera; esso è a-priori, interno alla creazione artistica. Quindi per Luperini non basta trovare i significati e i collegamenti con il contesto storico dell’autore, questi si dovrebbero mettere in relazione con i significanti andando ancora più in profondità (come nei processi stalinisti dove non bastava la semplice confessione del malcapitato bisognava ricostruire il “sistema” la rete occulta che tesseva le trame sovversive).

Portando ad esempio l’analisi del componimento “Gli orecchini” di Eugenio Montale pubblicata in “Bufera ed altro” nel 1940, fa rabbrividire, la rigidità intellettualistica, la tronfia burbanza che rasenta il paranoico quando, indossando le sacri vesti del gran sacerdote della critica organica marxista-leninista, si sussume il compito di scovare il nemico tra le stesse fila dei critici di sinistra, come Barberi Squarotti, accusato dal “fustigatore” di restare ancorato ai canoni tradizionali della critica letteraria. Lui invece, Luperini, citando un suo giovane alleato, Massimo Cacciari, con il quale è in perfetta sintonia, con un furore rivoluzionario degno dei più convinti sanculotti, invoca esami attenti e approfonditi per trovare nelle opere artistiche legami non solo con gli eventi storici ma a quel “sistema” degli odiati padroni che egli suppone condizionino romanzieri, musicisti, pittori, poeti da renderli alfine “utili idioti” del Leviatano neoimperialista che ci governa. È tale il bisogno di scoperchiare chissà quali trame controrivoluzionarie e reazionarie nascoste sotto “la pelle dell’agnello” che bela in versi o in prosa che Luperini dilaga, esonda, nella sua inflessibile filippica, usando poco la punteggiatura, orpelli inutili per l’inconsapevole futurista, esprimendosi con periodi/sequenze di due intere pagine prima di arrivare a un punto fermo.

Ecco con quanta arroganza egocentrica procede in quello che non sembra un saggio di critica letteraria ma una requisitoria: “…posto che ricercare la genesi storica di un fatto non è di per sé operazione storicistica si vuole semplicemente sottolineare che la ricostruzione delle strutture non possa prescindere dalla verifica storica, le condizioni esterne essendo continuamente presenti nell’organizzazione formale di un testo (i significanti non potendo evidentemente scindersi dal loro significato).” E ancora, citando di nuovo un intervento di Cacciari[3], così sproloquia: “Lo studio di letteratura dovrebbe limitarsi a descrivere in che maniera la funzione poetica della lingua si realizzi e cioè come la graduazione sillabica, le paronomasie ecc. effettualizzino il postulato centrale della poetica jakobsiana, secondo cui ‘la funzione poetica proietta il principio di equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione’”; “L’attività del critico si realizza nel testimoniare che un’opera d’arte (in quanto tale struttura coerente) è un’opera d’arte (ha una struttura coerente). Data la coincidenza fra l’apriori trascendentale e il carattere immanente del dato – coincidenza che è al tempo stesso premessa metodologica del lavoro critico e suo necessario punto di arrivo – non solo viene vanificata la concreta dialettica della conoscenza, ma il rapporto fra critico e oggetto tende ad essere rapporto di assoluti e di valori, che esclude ogni mediazione storica e ogni verifica che presupponga il concreto fare di entrambi, dato che ciò che al critico interessa è la pura forma logica del dato – con la conseguenza che l’elemento contraddittorio, che è proprio del molteplice e del reale storico, viene sempre riassorbito nell’ambito di un modello astratto e onnicomprensivo, in sé perfetto.[4]

A distanza di tanti anni mi chiedo con quale criterio educativo e didattico un cattedratico universitario potesse scegliere un tale saggio affidandolo a giovani di 19/20 anni. Ricordo ancora quando, insieme a un mio collega di corso, affrontammo tale lettura e numerose erano le volte che ci si fermava perplessi e si rileggeva più e più volte. La scelta era allora di andare all’altro capitolo sperando di poter capire qualcosa oppure se ne memorizzavano alcuni passaggi sperando nella buona sorte. Si imponevano letture agli studenti che proponevano posizioni marcatamente ideologiche e di parte, oltre che pericolose poiché spingevano non all’oggettività della ricerca ma all’individuazione di un nemico da combattere. Del resto, in quegli anni parecchi si costruirono delle luminose carriere dopo aver fatto i barricaderi con “Servire il popolo” o in “Democrazia proletaria”, quando si occupavano le facoltà e al primo posto tra i nemici da combattere non c’erano i missini e quelli del “Fuan” ma i moderati della sinistra parlamentare (pochi in realtà in quegli anni degli “opposti estremismi”).


[1] Romano Luperini, Marxismo e letteratura, De Donato Editore, Bari 1971, pag.13

[2] Ibidem, pag. 20

[3] Massimo Cacciari e Francesco Dal Co, Levi-Strauss, Strutturalismo e ideologia, in “Angelus novus” nn. 9, 10, 1966

[4] Ibidem, pag.55


2 risposte a "Romano Luperini, Marxismo e letteratura – Storicismo, strutturalismo e punto di vista di classe"

  1. Caro Alfio,
    mi ha molto colpito il tuo articolo e mi sorprendo insieme a te nel constatare quali testi venivano “propinati” ai poveri studenti. Tuttavia, se così posso dire, mi sorprendo per ragioni opposte alle tue.
    Ci si può trovare in accordo o in disaccordo con quello che affermano, ma trovo comunque sorprendente la fiducia con cui un docente consegnava testi tanto complessi e tanto, passami il termine, “sovversivi”, a ragazzi poco più che ventenni.
    Spaventa certo la morsa ideologica, ma credo (il dubbio è d’obbligo, specie per me che non ho vissuto quell’epoca) credo che di essa spaventi soprattutto il suo volto concreto e rigido, la sua arroganza, a differenza dell’ideologia moderna, morbida e trasparente. Parlo di “ideologia moderna” perché credo che anche oggi la scuola, i mass-media, i social, siano permeati di ideologia. Anzi, lo sono forse più di prima: in passato vi era infatti la possibilità di una dialettica, del confronto ideologico su temi. Oggi invece tutto è sottomesso alla logica di mercato, per cui non ha alcun senso parlare di ideologia, perché tutto è ideologia, allo stesso modo in cui non ha senso parlare di borghesia, perché siamo tutti borghesi.
    Se poi ci inquieta vedere l’azione disciplinante della scuola, se ci stupisce l’effetto “indottrinatorio”, mi permetto di aggiungere che il principio stesso dell’educazione è instillare un’ideologia, che corrisponde generalmente a quella della classe dominante, come insegnava Marx. Per questo trovo stupefacente che a quell’epoca si potesse ancora controbattere con idee non dominanti (giuste o sbagliate che fossero), che si potesse sperare in un futuro diverso, non necessariamente migliore, ma diverso. E se è vero, come diceva Foucalt, che il potere da disciplinatorio (nelle istituzioni) è passato a quello del controllo sociale del biocapitalismo, è comprensibile come ogni istituzione che perpetri il modello per cui sarebbe chiamata, ovvero disciplinare, risulti oggi inappropriata, arrogante, inutilmente oppressiva. Tu che hai vissuto dall’interno la scuola potrai darmi conferma. Io che ti parlo da un’altra istituzione – l’ospedale – vivo ogni giorno sulla mia pelle il declassamento sociale del mio ruolo e dell’istituzione che incarno, sia prima che durante la pandemia.
    L’ideologia esiste, ma i suoi effetti deleteri sono subdoli, scorrono sotto traccia; del resto, come in ogni sistema che si rispetti, sono ulteriormente sottaciuti dagli organi di stampa. Ma non vi è forse un’analogia fra il licenziamento in blocco di 30.000 dipendenti per un “errore” delle agenzie di rating (https://it.wikipedia.org/wiki/Enron) con l’oppressione delle fasce deboli o delle minoranze da parte dei regimi totalitari? Non sono entrambe prodotte da un’ideologia?
    Oggi la speranza più grande è quella di alleviare – nemmeno risolvere – il cosiddetto “prezzo del progresso”: disastri ambientali, colonialismo, razzismo, disuguaglianze fra generi. Ma nessuno che metta in discussione alla radice il progresso in sé, nessuno intendo fra i politici di primo piano, perché fuori dai palazzi è il mondo stesso a rigettarlo a tutte le latitudini, quel progresso dolceamaro della Coca Cola, o dei frigoriferi, o del 5G, etc..
    Sono curioso di sapere come la pensi.

    A presto,
    Riccardo

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  2. Caro Riccardo,
    Le tue considerazioni così ponderate, profonde, chiare le condivido quasi totalmente intanto perché esse non credo siano opposte alle mie ma completano invece e arricchiscono l’analisi di un problema annoso, sempre vitale, quale quello del rapporto delle istituzioni con i cittadini. Certo ci separa la differenza generazionale e quindi storica del nostro vissuto, e tuttavia tale diversità non ostacola l’esercizio così umano della ricerca della verità. Questo nostro confronto, che è anche quello tra un insegnante con il suo alunno di tanti anni fa è estremamente interessante e per quanto mi riguarda, rappresenta un motivo d’orgoglio nel constatare che tu, un mio alunno appunto, affronti con tanta serietà e passione il tema della libertà e i limiti che essa incontra nel consesso sociale ed economico. (Voglio pensare che la mia azione educativa e didattica non ha seguito, acritica, l’onda lunga e possente del conformismo culturale presente negli anni in cui ho svolto la mia professione, se un mio alunno mi è rimasto amico ed è così attento alle vicende umane.) Quello che affermi sull’impotenza che attanaglia tutti noi di fronte a problemi globali, quali i danni quasi irreversibili per l’ambiente io lo condivido e penso anch’io che l’ideologia della classe dominante che si presenta come un “pensiero debole”, inavvertibile, soporifero sia più pericolosa rispetto ad una pretesa accademica che negli anni Settanta assumeva di possederla la verità.
    Io sono rimasto “chiuso” nel contesto culturale del saggio e condizionato dalla rabbia tardiva di chi scopre l’arroganza ottusa di un cattivo maestro. Tu, Riccardo, hai la visione di un giovane che sa guardare “oltre” il limite temporale, oltre la rudezza con cui la “mia” scuola e in generale tutte le istituzioni di quegli anni, hanno risposto ad esigenze del “qui ed ora”. Paradossalmente l’atteggiamento totalitario e totalizzante del regime fascista, persistette, mutatis mutandis, anche nel periodo postbellico e fino agli anni Ottanta del secolo scorso.
    Gli intellettuali organici cantavano le libertà repubblicane conquistate grazie alla lotta resistenziale cui non avevano partecipato e gli scrittori guardavano tutti verso il “sol dell’avvenire”, Pasolini gridava solo nel deserto e la scuola consumava i suoi riti piegata alle esigenze del mercato e dei nuovi padroni che indossavano adesso camice bianche o rosse, ma ancora con un’unica tonalità, senza alcuna sfumatura.
    Heidegger sosteneva che solo i poeti sono i “pastori dell’Essere” e anche oggi sono loro che sanno sinceramente guardare la sofferenza dei poveri; loro sanno ascoltare e con-patire il dolore degli uomini disperati, usi a frequentare gli angiporti e a morire senza aver mai apprezzato il calore profondo di una tenera carezza. Penso che ciascun individuo debba scegliere di stare sempre e comunque dalla parte della verità e della giustizia, con coraggio, con caparbietà, anche quando girandosi attorno scopre di essere rimasto solo o quell’amico che pensavi non ti avrebbe mai tradito, ti ha girato per sempre le spalle. È un’umanità che va ricercata nella profondità della nostra anima, lì dove giacciono stratificate, come nel DNA di ciascuno, le esperienze di tutti gli uomini e le donne che sono vissuti prima di noi.
    I poeti sono pochi, certo, ma i medici, gli infermieri, gli insegnanti, gli operai, i contadini e le tante altre categorie sociali che svolgono onestamente, con diligenza e con passione il loro lavoro sono anch’essi “pastori dell’Essere” e sono tanti e questo ci dà speranza.
    Grazie Riccardo. È sempre un piacere confrontarmi con te.

    A presto, Alfio

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