di Alfio Pelleriti
Il romanzo, edito nel 1988, si presenta con seicentottanta pagine nell’edizione dei Tascabili Bompiani, senza alcuna introduzione o prefazione. Nelle prime cento pagine, quelle in cui il lettore decide se andare avanti ad esplorare o invece chiudere tirando un sospiro di sollievo, si trovano analisi puntuali sugli esperimenti di fisica applicata alle oscillazioni del pendolo e teorie sul moto perpetuo, per passare poi ad argomentazioni di esegesi biblica e ad osservazioni sui macroscopici risultati che si ottengono nella ricerca linguistica adoperando gli elaboratori elettronici; e ancora elementi di semiologia, calcolo combinatorio e probabilistico. D’un tratto poi si aprono pagine di esperienza vissuta del protagonista a Torino: il “sessantotto” e le sue implicazioni socio politiche oltre che il suo velleitarismo rivoluzionario.

È questo il fritto misto dove affonda e si impantana il lettore che ha sempre avuto grande considerazione per l’autore de “Il nome della rosa” o de “Il Cimitero di Praga”, per Umberto Eco, il professore, lo scrittore, il saggista, il semiologo. Questo libro, osannato dalla critica che conta (tranne Pietro Citati che lo stronca), colpisce come il mare che si ingrossa all’improvviso in luglio, e che si scaglia ferale sull’improvvido inesperto nuotatore che vuol provarci finalmente ad immergersi nel mare senza temerlo; gli amici lo hanno spinto dicendo che stare a galla è semplice, è del tutto naturale, e poi in estate il mare è sempre calmo, caldo, accogliente, come una madre attenta al suo figliolo che infreddolito si rintana nel suo seno, dicendo “mamma ho freddo!” Ma quel mare, repente si trasforma in tempesta, lo trascina fino in fondo e poi lo lascia, e il poveretto torna in superficie, spalanca gli occhi e muto chiede aiuto ai suoi compagni che stanno a guardare quello spettacolo davvero emozionante: attenti, fermi, curiosi di veder come finisce, se una semplice paura per il malcapitato o una tragedia, lì in diretta. L’incauto annaspa, beve, vomita, quando l’immenso torturatore allenta la sua presa e gli consente per un attimo di uscire dalle onde, per precipitarlo di nuovo nell’oscura liquida prigione. Questa immagine non è una voluta esagerazione perché lo sbigottimento è il sentimento che ti assale affrontando questa ardita pietrosa enigmatica lettura.
Chiedi a te stesso di trovare la forza di andare avanti, di non alzare bandiera bianca e che il senso prima o poi apparirà chiaro ed evidente, luminoso come una radura dove splende caldo il sole e ci si sentirà finalmente rinfrancati e felici come l’esploratore che ha camminato nel bosco tetro e buio, fitto d’alberi alti come palazzi, freddo come lo sono gli incubi notturni. Sarà una tecnica narrativa, ti chiedi, quella di Eco, che vuol giocare a rimpiattino col lettore incastrando parole, citazioni, arcaismi, tecnicalità. Sarà una strategia di una mente acuta che ha incamerato innumerevoli notizie, che sa a menadito d’arte, di filosofia, di filologia, di matematica, di esoterismo; una strategia per sbalordire e insieme fare smarrire il lettore che riconoscerà nell’autore un alto ingegno e nel contempo dirà di se stesso che poco sa e che val bene sentirsi “nano” di fronte a tal gigante; dirà a se stesso che leggere quest’opera significa fare un bagno di umiltà ed imparare ad astenersi dal giudizio rimanendo muti, esterrefatti; e vorresti cercare una degna punizione per te stesso, per la tua distrazione, per la tua inconsistente preparazione, per la mancanza assoluta d’immaginazione. Non mi metterò in ginocchio come alle elementari, ma guarderò verso la valle lì dove evapora e diventa cielo, la mente vuota, il cuore quasi fermo. Ci si annulla, dice il maestro, e ti trovi ad afferrare il punto fermo, il perno che regge il Pendolo e che lo fa muovere in eterno insieme all’universo mondo rimanendo statico solo in quel punto. Quel “punto fermo” rispetto al moto universale rappresenta il punto di vista necessario per cogliere l’armonia e il senso della vita. Il “pendolo di Foucault” è allora la metafora di una interpretazione del mondo, e ogni interpretazione diviene diventa “punto fermo”, “pendolo”. Questo romanzo “non romanzo” e nemmeno saggio, anche se ad esso si avvicina, indaga sulle teorie complottiste, sui segreti che sette, confraternite, conventicole, logge hanno coltivato per poter portare a compimento un Piano per governare il mondo.

Dopo le prime duecento pagine il contenuto comincia a farsi chiaro: il protagonista è Casaubon e insieme a lui Diotallevi e l’amico Jacopo Belbo, tutti con la passione di una materia evanescente che rimanda molto all’immaginazione ma ha pure tanti riferimenti con la storia, con il mito, con le leggende e la letteratura. Una storia che parte dai Templari, cavalieri che divennero potenti con le Crociate e che poi subirono una dura repressione da parte della monarchia francese; si passa poi al Santo Graal e ai cavalieri della Tavola Rotonda, e poi ad Abelardo e ai Catari; a Cagliostro e alle logge segrete massoniche, a vari riti esoterici ed animisti, ai borboriani, ai pauliciani, per poi tornare agli anni Settanta del Novecento e ai giovani contestatori di quegli anni.
Si va avanti ancora ma la musica non cambia, anche se il minestrone assume qualche altro colore: per esempio i Rosa-Croce e la loro confraternita che precede e ispirerebbe la Riforma di Lutero ma anche il sistema filosofico di Cartesio; gli argonauti e il Vello d’oro e l’ordine della Giarrettiera in Inghilterra, i riti spiritistici brasiliani dell’Umbanda e, naturalmente, i riti druidici.
“Chiudo o vado avanti?” Poi penso che l’autore si chiama Umberto Eco e continuo la lettura. Quando poi si afferma che “Dante era un Rosa-Croce e un massone, come pure San Tommaso” comincio a chiedermi se si sta prendendo gioco del lettore che continua ad inoltrarsi nella fitta foresta di citazioni in latino, in tedesco e in portoghese, di riferimenti incrociati a documenti indiani, greci, africani. Come si fa, del resto, ad approfondire o semplicemente verificare su un certo Kiesewetter o sul Theatrum Chemicum pubblicato a Strasburgo nel 1613 o sul padre dello spiritismo Alain Karder o sul regno di Agarttha, con le sue città sotterranee o sui gesuiti che “furono loro i veri Rosa-Croce”, su un elenco lungo una pagina intera delle società segrete esistenti nel mondo, compresa la Chiesa Luciferiana Unificata di Francia e i Fanciulli della Tenebra in Costa d’Oro?

Già quando si supera metà del libro si azzarda un giudizio: nel Pendolo di Foucault si assiste non ad un “flusso di coscienza” dell’autore, ma ad un flusso di parole senza alcuna logica narrativa, privo di riferimento letterario o politico o filosofico. L’autore sceglie l’argomento “esoterismo” e lo coniuga e declina con insopportabili citazioni, notizie alquanto originali, “si dice”, arzigogoli, divagazioni che si intersecano nello spazio-tempo. Si scopre, ad esempio che Mosè fosse depositario di segreti che non poteva rivelare ad un popolo ignorante al quale diede qualcosa di più comprensibile, i dieci comandamenti; che i gesuiti furono anch’essi custodi di un Piano per la conquista del mondo e che Napoleone cercò di diventarne il monarca assoluto, come del resto il neotemplarismo nazista e la credenza nella teoria della Terra cava. (Teoria questa seguita ancora oggi in certi ambienti della Destra estrema dove si tengono a modello gli studi di Julius Evola). Naturalmente non poteva mancare il riferimento ai “Protocolli dei saggi di Sion”.
Insomma un libro inutile e un tempo inutilmente dedicato a leggere un contenuto che si ripete identico a se stesso. Forse Eco voleva giocare a mettere insieme parole su un tema squinternato ed inverosimile come l’esoterismo, per dimostrare che si può avere un successo editoriale scrivendo anche del nulla, fiutando la moda del tempo, cavalcando insane convinzioni.
Qualche citazione:
È un vero labirinto di citazioni e fiumi di parole che suscitano perplessità e delusione a me che sono una “appassionata lettrice della domenica”, nel senso che leggo per me stessa e per il piacere di ampliare le mie conoscenze.
Sapere a menadito di varie scienze e discipline e mescolarle sapientemente giusto per stupire o per fare sentire il lettore poco o niente, non vuol dire affatto, secondo me, essere scrittori di pregio.
So bene che la mia affermazione può risultare sgradita a molti, è evidente che Umberto Eco non è proprio il mio modello di scrittore e condivido molto piacevolmente i termini da te usati, nell’anticipare l’opera: ardita, pietrosa enigmatica….
Con le tante elucubrazioni cervellotiche che vorrebbero dire della sua vasta cultura non solo non conquista l’attenzione del lettore che non si sente minimamente coinvolto emotivamente ma lasciano spazio alla noia, allo sbigottimento e non uso certo un eufemismo dicendo che perfino il concetto di Grande, così come viene ritenuto passa in secondo piano.
Santina Costanzo
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Io non ho letto “Il pendolo di Foucault” e non saprei fare una recensione o un commento, ma ho letto “Il nome della rosa” due volte e l’ho trovato molto molto bello, scritto da un maestro. D’altronde Eco è un ricercatore, uno scienziato della parola.
Angela Caruso
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Mi sono presa un po’ di tempo per risponderle e per rileggere la recensione, la quale mi entusiasma più del libro. Non l’ho ancora letto, ma credo proprio che lo leggerò, spinta da una descrizione che incuriosisce e affascina, che valorizza anche il “nulla” in modo magistrale, che evidenzia il punto di vista, il punto fermo e il punto in movimento, e che suscita stupore e meraviglia ancora prima di leggere l’opera.
Che dire della metafora del nuotatore, eccellente scelta di come le impressioni, le sensazioni e le emozioni siano del tutto personali, e di come spesso l’opinione pubblica possa influenzare le nostre scelte, ma nessuno può scegliere ciò che sia adatto o giusto per noi, nessuno è detentore di una verità assoluta. Complimenti Prof., gradisco di cuore la sua generosità nel donare le sue idee e i suoi talenti agli altri e ci tengo a manifestarle la mia stima per il suo elegante e coinvolgente modo di scrivere che a me piace.
Daniela Timpanaro
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Buongiorno, confesso di avere ripreso più volte “Il pendolo di Foucault”. La prima volta chiuso quasi all’inizio perché (allora giovane universitaria) avendo da poco dato fisica, mi sembrava di essere ancora alle prese con la materia… Più in là, ho portato a compimento la lettura, ma non ho amato molto l’opera. Avendo adorato “Il nome della rosa” che, letto al liceo, fresca di latino, chimica e filosofia non mi era apparso così ostico come descritto da molti. La mia seconda esperienza con Eco è stata una delusione.
Letizia Marrano
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Su Eco vorrei dire, per rendergli giustizia, che non ha avuto pari in Europa e, per me, nel mondo quanto a cultura vasta, profonda, con interessi molteplici e con la capacità di cogliere le tendenze, le aspirazioni o le contraddizioni del suo presente storico.
Altra cosa è il narrare, dove non bastano le nozioni e il sapere seppure vasto. Il narratore vero riesce quasi per magia a mettere insieme passione e sentimento, convinzioni e conoscenze, desideri appagati e frustrati, aspirazioni ed idealita’.
Alfio Pelleriti
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