di Alfio Pelleriti
Scritto negli anni 1933 – 36 e pubblicato nel 1941, precede di poco il “Don Giovanni in Sicilia” pubblicato anch’esso nel 1941, “Il vecchio con gli stivali” nel 1946, “Il bell’Antonio” nel 1949 e “Paolo il caldo” nel 1954, che non riuscirà a completare con gli ultimi due capitoli.

Prima di queste mie riflessioni ho letto l’introduzione di Geno Pampaloni, magnifica, alta e inarrivabile, per cui, dopo tale scelta infausta, il mio naturale pudore nel giudicare un grande scrittore come Brancati, s’avvicina più alla vergogna che prova il neofita incontrando il gigante di quell’arte di cui già teme l’ombra che l’annulla.
Dice Pampaloni che i temi ricorrenti nei romanzi del Brancati e cioè la noia e la riflessione su un ambiente siciliano ostico al cambiamento e ad un’apertura alle innovazioni e al progresso in generale, negli “Anni perduti” si presentano con le tinte fosche della morte incombente, per cui la noia costituisce solo la metafora della fine o dell’annichilimento esistenziale.
I critici militanti, per il romanzo in questione, scomodano Gogol e Kafka constatando, soprattutto nella terza parte, l’inserimento di elementi simbolici, come ad esempio la torre panoramica voluta ardentemente da Francesco Buscaino, che resterà incompiuta, gigantesca e al buio, inservibile, come un enorme animale preistorico imbalsamato, a rappresentare una presenza assurda, innaturale, un incubo soltanto, ma come tutti gli incubi, visibile e reale.
“Gli anni perduti” presenta l’immobile ambiente di Nataca/Catania, diverso certo rispetto a quello tormentato e drammatico dell’Aci Trezza verghiana, più vicino a quello piccolo borghese di Pirandello, a cui l’accomuna la medesima umanità, restia ai cambiamenti, votata alla rassegnazione e, nella popolazione più giovane – ecco che la situazione s’aggrava – a una vigliaccheria che porta alla fuga, al non pensare, all’accidia, alla poltroneria. Non si nota certo la reattività, sebbene improduttiva, di Bastianazzu dei Malavoglia, ma prevale in Leonardo, in Giovanni, in Tommasini, una passività lagnosa, patologica. Con i loro redingote grigio scuro, seduti al circolo dei nobili, giocando a scopa o rimuginando fantasie lubriche o semplicemente stando a letto e riposando membra mai provate dalla fatica, così per loro scorrevano sempre uguali le giornate.

Colpisce il personaggio Francesco Buscaino, l’unico che si muove, corre, ha idee, cerca un appiglio in quel contesto di dormienti. Ha un progetto, una torre che farà godere la vista panoramica di Nataca fino al mare, un vero business che avrebbe fatto arricchire i coraggiosi disposti ad acquistare le azioni di quella grande impresa. La torre avrebbe dato, oltre a lauti guadagni, uno scopo da raggiungere, una meta cui tendere a quei baldi giovani che ripetevano da anni, ogni mattina, che il loro posto non era certo lì, a Nataca, dove stavano sostando solo qualche settimana, forse un mese, ma Roma, Milano e New York per Boscaino.
Erano tutti con la valigia pronta sotto il letto, dove intanto stavano sdraiati assaporando il sonno. “Quella di stare sdraiati sul letto, al buio, è la posizione più comoda per far scorrere il tempo”, diceva a se stesso Leonardo, che era rientrato a Nataca solo per qualche giorno e che lì rimase invece come gli altri a farsi accarezzare da quell’aria calda, da quella dolce brezza che per magia dava l’ebbrezza del non far niente. “Una volta chiudendo gli occhi, un’altra aprendoli e non vedendo nulla, una volta porgendo orecchio alla strada, un’altra alle mosche che cercano il giorno sul filo delle imposte … si scivola dalle otto alle undici, tac, con un colpo solo.”
Brancati, insomma, fa muovere i suoi personaggi su una scena sociale già vista in Verga, in Pirandello e che vedremo in Tomasi di Lampedusa, in Sciascia, in Consolo, in Stefano D’Arrigo. Egli si muove con ironia sottile ma tagliente, spinto da un amaro pessimismo sulle sorti di un popolo da sempre rassegnato al suo duro destino di patire l’ingiustizia dei potenti, per cui per molti la salvezza consisteva nel potere lisciare il pelo ai forti, agli arroganti, agli amici degli amici. Nella Nataca del Trenta, quel popolo accettava di buon grado quei figuri loschi e neri ch’erano i padroni della piazza, che dicevano di se stessi ch’erano arditi e stavano col fez e col bastone in mano in cerca dei nemici del regime, oppure salutavano alzando il braccio a salutare romanamente, il pensiero al loro dio con la mascella larga e dallo sguardo fiero, che vegliava su tutti gli italiani stando comodamente a Roma a far varare le leggi razziali per compiacere l’alleato tedesco che sulla questione aveva le idee chiare e soluzioni finali da avviare.
Nel romanzo il tema caro a Brancati, l’eros, che in Sicilia era “gallismo”, viene sfiorato, poiché nei suoi giovani protagonisti la noia prevale sull’innamoramento; la morte cioè, prevale sull’amore che è vita. E quei giovani sono vivi ma pensano e vivono come fossero morti. “Essi erano molto sensibili alla bellezza femminile, ma non erano più, come i loro padri e i loro nonni, disposti ad implicare in questa faccenda la loro vita e la loro tranquillità; in una parola, non volevano correre il pericolo di uccidersi per amore o di uccidere per gelosia.”
Segnalo, a riprova ancora di quanto Brancati avvertisse in quella terra una cappa pesante e insopportabile, una pagina stupenda anche se amara, con un tono apparentemente calmo, ma in realtà violento, sull’esempio dell’espediente verghiano dell’antitesi. Brancati descrive Giovanni Luisi, il più indolente del gruppo, e su di lui fa scendere tutto il suo disprezzo per quell’umanità perduta, vile, per la quale non nutre pietà alcuna. Così si esprime: “Giovanni Luisi ha trentacinque anni, non ha fatto mai nulla, non ha scritto un rigo, ora è a letto, non legge, non pensa, guarda la lampada rossa del capezzale e dondola con una mano il filo del campanello … egli è contento di sé, crede di essere un uomo eccezionale. Il non aver scritto mai nulla è come se i capolavori del mondo fossero stati scritti un pochino da lui; il non aver fatto nulla è come se nessuna cosa gli fosse fallita … il campanello suona da mezz’ora e qualcuno, forse un amico, è dietro la porta? … Sì egli vuol bene agli amici, ma trascurarli una volta per dedicarsi a un po’ di flirt con un povero filo inanimato, grigio, trascurato da tutti, non è nobile forse, non è spirituale?”
Una pagina da antologia! E invece nelle antologie scolastiche e nelle letterature per licei Brancati, se va bene, è citato soltanto, magari per informare che negli anni Venti ardentemente fu fascista oppure per dare la notizia che sposò l’attrice di teatro Anna Proclemer. In queste pagine a cui si dovrebbe dare un giusto merito se non onore, c’è un grido, un urlo direi, tendente a svegliare un popolo che gode della propria vigliaccheria, che col sorriso in bocca, s’avvia a grandi passi verso l’oscurità del Nulla.
Brancati l’ho trovato uno scrittore grande in tutte le tre parti del romanzo e soprattutto nel finale, quando gli elementi della vicenda diventano simboli e la realtà in cui si muovono i protagonisti della storia sembra una scenografia felliniana dove assumono volti che man mano diventano maschere. Francesco Buscaino, ad esempio, che aveva il demone dell’investimento, uomo concreto che pensava ad ingrossar la sacca di denaro, diventa un fantasma, un ente inconsistente, con la memoria corta: proprio lui che diceva d’essere un americano, non è più certo d’esserci mai stato in quella terra tanto osannata. Sulla scena finale rimane solo e disperato e quelli che in lui avevano creduto, ripongono ben bene la valigia lì sul cantarano e tornano a dormire, ad assaporare il sonno senza sogni che possano turbarlo.
Infine Brancati esprime forte e chiaro il suo pensiero che, certo, stride molto in quel contesto di “morti-vivi” e fa parlare in vece sua il professor Federico Solco, un idealista che crede nell’amicizia e nell’amore: “Fino a quando, mentre ci diciamo cristiani e dondoliamo con una mano la crocetta che abbiamo al collo, penseremo e diremo ch’è meglio uccidere che perdonare il nostro nemico, ch’è buona previdenza diffidare del proprio vicino, ch’è necessario saltargli al collo non appena fa un gesto sospetto?… Il non avere illusioni sul conto degli altri è una sventura perpetua, è la fine, la morte dell’anima! Io non mi stanco di ripetere: amore, amore, amore!”
Un sentimento religioso e un’idea del Cristianesimo opposti ad una religiosità formale ed ipocrita che è rappresentata da quella brigata che il Nostro a un certo punto definisce di “schiavoni”: “Andavano ogni domenica alla messa; credevano poco in Dio, ma assai nella palma che riportavano a casa, benedetta, la vigilia della settimana santa.”
Complimenti per l’articolo e per le numerose proposte letterarie che stai suggerendo in questo periodo.
L’indolenza, tesa a metà fra lo scacco e la sensazione di perfezione, sembra da più parti descritta come la costante del nostro carattere, e il vero motivo per cui Tomasi di Lampedusa prima e Sciascia poi definirono la Sicilia IRREDIMIBILE. Anche a costo di sbattere la testa contro gli stessi muri contro cui si scagliarono altri prima – e ben più grandi – di noi, torno spesso a chiedermi se davvero non esista una via d’uscita a questa lettura, o se non sia possibile immaginare una lettura diversa entro cui inquadrare la “sicilitudine”. Mi piacerebbe sentire il tuo parere.
Grazie e a presto,
Riccardo
"Mi piace""Mi piace"
Caro Riccardo, mi piacerebbe rispondere all’annosa questione della “sicilitudine” indicando una soluzione, un cambiamento d’atteggiamento nell’affrontare i problemi grandi e piccoli della nostra Sicilia, almeno nelle nuove generazioni. Sono pessimista, invece, e credo che ci stiamo muovendo su un crinale pericoloso, poichè da un lato ci si illude che la Sicilia sia ormai al passo col resto d’Italia quanto ad aperture alle innovazioni nei vari settori produttivi; dall’altro lato permane la boria stupida di chi si sente superiore d’una spanna agli altri indicando “cieli tersi e mare azzurro”, tradizioni storico-culturali, ospitalità e quant’altro suggerisce la solita insopportabile retorica. Siamo ancora entusiasticamente attratti dalle analisi di Pino Aprile che, autodefinitosi storico potendo vantare un diploma di perito tecnico e un periodo di giornalista al settimanale Oggi, tesse gli elogi del periodo borbonico e fa risalire i mali del Meridione agli odiati “Piemontesi” che ci colonizzarono. Il “sicilianista” convinto tralascia di parlare di organizzazioni criminali, di corruzione, di lavoro nero, di evasione fiscale, di qualità della vita dei centri urbani per cui si occupano infimi posti nelle classifiche nazionali ormai da decenni, di una classe politica supponente e pressapochista, incapace di pianificare lo sviluppo del territorio a medio e lungo termine.
"Mi piace""Mi piace"
Restiamo dunque incagliati nel binomio fra malcelata impotenza e presunta onnipotenza. Si tratta una sentenza a cui fatichiamo a non dare credito, ma mi chiedo se così facendo non si contribuisca più a costruire che a demolire il mito dell’irredimibilità. Il fatalismo è figlio di tali letture estreme, ed io per primo sento su di me la claustrofobia di una dialettica così manichea.
Intraprendere un’autocritica che non scivoli nel tanto praticato autovittimismo è difficile, ma credo sia la sola via per riscattarci.
"Mi piace""Mi piace"
Può darsi che tu abbia ragione e che cominci a soffrire il peso dell’età e che sia comodo arroccarmi sulle “solite” posizioni pessimistiche, tuttavia come chiudere gli occhi sul provincialismo che caratterizza il nostro territorio, sulla massificazione cui si piegano molti nostri giovani? A meno che non pensiamo che frequentare la movida sia sufficiente a dare patenti di modernità e di maturità. Nelle nostre scuole e in altre agenzie formative, come gli oratori, passano modelli culturali reazionari che chiudono al solidarismo, all’accoglienza, alla giustizia sociale, alla equa distribuzione dei profitti. Pericolosi revisionismi storici trovano sempre più spazio nelle scuole e nelle parrocchie, in cui dirigenti dell’Azione cattolica sono membri attivi dell’Opus Dei o attivisti di partiti di Destra. E’ vero che molti giovani sono molto preparati, hanno talenti da spendere e riescono ad affermarsi in tante realtà produttive e professionali, anche se spesso lontano dalla Sicilia, ma non è opinabile che abbiamo una classe politica mediocre, che i servizi ai cittadini siano carenti, che la presenza della mafia sia tangibile. Sarei contento se potessi convincermi del contrario, magari nel medio-lungo periodo.
"Mi piace""Mi piace"