di Alfio Pelleriti
Ed ecco tra le mani un altro libro che aspettava paziente da vent’anni, e ora grazie a questa pandemia, me lo ritrovo qui davanti per essere scalato. Sì, perché di prova difficile si tratta, ma sono pronto ad iniziare questo ennesimo viaggio e sento in cuore una strana frenesia che sa di gioia e di ardimento giovanile, cioè quel sentimento che ti prende quando devi iniziare un viaggio che sai che ti riserverà tante sorprese. Sono alle prime pagine e già sono convinto che sto misurandomi con un capolavoro. Sono ancora sull’andito, innanzi ad una costruzione immensa, maestosa, al grande “poema” di Stefano D’Arrigo, “I fatti della fera”, che già a guardarlo mentre riposa sul tavolo mette paura, come il K2 al giovane alpinista che aveva scalato soltanto la parete di un qualche monticello e ora ha davanti un gigante d’affrontare e nel petto sente un ribollio ch’è di ansia mista ad ardimento.

Certo ho letto la ponderosa introduzione al testo di un critico ch’è un alto ufficiale con mostrine e con stellette, che procede elegante nell’analisi con i suoi alambicchi per misurare quanto D’Arrigo sia condizionato dall’avanguardia sperimentalista del “Menabò” o quanto ci sia dell’Ulisse di Joyce o del tempo incantato e perduto di Proust, insomma un chiaro ascendente del simbolismo nordico. Ma sai che c’è, mio caro Walter Pedullà, io me ne frego delle analisi fatte con il bilancino, di trovare le tracce per poter costruire discorsi sui “fuochi narrativi” o sui necessari accostamenti con i classici o con i contemporanei. Mi avvarrò della mia libertà interpretativa mettendomi in relazione con i protagonisti della storia e con quelli proverò a mettere in gioco il mio Io profondo e a rivedere la mia storia personale accettando la sfida di poter cambiare la visione che ho del mondo, ora, in questa mia stagione della vita, adottando lo stesso principio di Montaigne; mettendo in atto quel “Circolo ermeneutico” di cui parlava Gadamer, secondo cui il buon lettore deve aver coraggio perché leggere significa accettare mutamenti, cambiare orizzonti di valore, trasformarsi, non essere più quello di prima e, l’opera, a sua volta, subirà l’interpretazione del lettore che l’arricchirà e muterà insieme. Questo interessante gioco avviene quando si legge, poiché leggere un libro non significa affatto “ammazzare il tempo!” anzi, al contrario, si vive intensamente il tempo.
A volte vien proprio da pensare che certi critici in poltrona vanno per le lunghe con le analisi appuntite e rigorose per fare in modo che quel tesoro che hanno avuto tra le mani non vada al “volgo”, al popolo, che non capirebbe; un atto estremo d’avarizia, di neghittoso gesto aristocratico che li porta a dissuadere ad accostarsi alla lettura, ma non potendo dire un “no” chiaro e tondo, allora vanno giù con gli arzigogoli, con infiocchettature stucchevoli, con infiorescenze barocche che non dicono niente ma stordiscono il povero lettore che comincia ad impaurirsi, a sentirsi non idoneo all’intrapresa e non volendo essere velleitario o troppo arrogante mettendosi alla pari di quei pochi luminari, rinuncia al “viaggio”, chiude il libro rimandando a tempi migliori.
Non sono pentito, dunque, d’aver saltato qualche pagina dell’erudita accademica introduzione del professore saggista e giornalista, critico letterario Pedullà. Sono io che intraprendo il difficile viaggio o la “scalata”; sono io, col mio vissuto che mi misurerò con la storia di D’Arrigo, che sarà un pianoro, un prato a primavera, un sentiero pietroso come quelli che s’inerpicano su per la montagna che ti fanno sudare e tremare le gambe per la grande fatica ma che ti consentono pure di godere con un solo sguardo della valle, con le colline a farle da corona, con in vetta il grigio di nembi che svaporano.
Questo romanzo colpisce perché riporta ad una esperienza solita nella vita dei ragazzi degli anni Cinquanta del Novecento quando, in un pomeriggio ventoso e freddo non potendosi organizzare i giochi consueti, il più grande tra noi, nello slargo davanti alla “carcara”, (un fabbricato ch’era servito a far mattoni e a cuocerli) ch’era ormai ridotta all’osso, al riparo di quel rudere, seduti ciascuno su una pietra, a cerchio, iniziava a raccontare una storia, “u cuntu” e tutti si stava zitti ad ascoltare. Era un racconto presentato da chi aveva innata l’arte dell’affabulare, d’inventare lì per lì, tenendo a base un canovaccio di una storia che aveva i contorni di un mondo a noi estraneo, con tanti particolari a noi noti ma tanti altri creati dalla fervida fantasia del narratore. Il linguaggio era il risultato di uno strano miscuglio di italiano e di siciliano e con tanti termini inventati, allusivi, onomatopeici. Raccontava quell’animale da palcoscenico, con le giuste pause, tenendo noi ragazzi attenti, tesi i muscoli e le orecchie, a seguire quella storia ch’era una vera e propria performance teatrale.
“I fatti della fera” è assimilabile al “nostos” dell’Odissea e racconta di tutti gli ostacoli incontrati dall’eroe e dai suoi compagni prima di giungere alla meta ambita, il ritorno in patria, alla famiglia, al lavoro usato, al mondo in cui si era nati e vissuti dove ogni angolo rappresenta una tappa importante della vita. ‘Ndrja, un pescatore di Acqualadroni, una piccola comunità della provincia di Messina, è il novello Ulisse che dopo essere stato in guerra con la divisa di marò nella Regia Marina, vuole tornare nella sua casa e ormai c’è quasi arrivato, lo separa il braccio di mare tra Scilla e Cariddi e lo trattiene Ciccina Circè, che con sé vuole tenerlo con la sua arte di “femminota”, seducente e ammaliatrice.
Insieme a lui vi sono i suoi compagni che non sono guerrieri ma miseri pescatori, “pelle-squadra”, definiti nel romanzo, che devono sopravvivere in un momento storico drammatico, gli anni della seconda guerra mondiale e in particolare il ’43, quello della svolta, quello dello sbarco alleato in Sicilia e del crollo del fascismo che aveva portato in guerra la nazione inseguendo il sogno della ricostituzione dell’Impero, costato morti e feriti ed estrema povertà a chi già viveva di stenti, alla maggioranza del popolo che dovette patire l’ennesima ingiustizia voluta stavolta dal pettoruto dittatore che affascinava le folle roteando gli occhi e, le mani ai fianchi, gesticolando lanciava le sue minacce al mondo, aspettando infine il grido di battaglia di una folla elettrizzata, felice e senza testa che ripeteva “Alalà”, “Vincere!” scandendo poi, convinta e commossa, “Duce! Duce! Duce!” all’istrione che prometteva fasti e che produsse solo tragedie e nefandezze.

Sono entrato subito in sintonia con questo mondo fascinoso e magico di una Sicilia che appare a tratti senza tempo, che mi ricorda tanto il “realismo magico” di Gabriel Garcia Marquez in “Cent’anni di solitudine”. Entrambi, del resto, sono scrittori del Sud del mondo e conoscono bene gli umori e le passioni popolari oltre che le pene e le miserie, e il rapporto magico che quegli uomini sanno creare con elementi del loro territorio: il mare, la montagna, gli alberi, gli animali; e di tutto quel reale ne sentono scorrere dentro l’energia.
È una grande storia che ne contiene tante altre al suo interno e tutte riescono a toccare le corde del cuore di chi ne ha intrapreso la lettura. Un poema che non è scritto in versi ma si avvertono nelle sequenze narrative il ritmo e i tempi propri della poesia. Per esempio l’alternarsi sapiente della voce narrante con il discorso diretto dei vari personaggi, mi ha riportato a quel mondo della mia infanzia ch’era pieno delle stesse armonie linguistiche, delle stesse assonanze; e tale musicalità ha per strumenti una lingua singolare che si adatta ad ogni personaggio: ora l’italiano quando parla l’ufficiale di marina, ora il dialetto siciliano arcaico se a parlare sono i pescatori o le “femminote”, una lingua a tratti inventata, ibrida, gergale.

Il lettore che vuol cadere dentro questo romanzo ride, piange, si emoziona, e legge a volte assecondando il ritmo scelto dall’autore e se la pagina gli piace e lo emoziona intanto la segna con la biro e poi se la rilegge e, arrivato all’ultima parola, fa una pausa, prende un bel respiro, sorride e si compiace, come se avesse visto un Raffaello o un Caravaggio. Oppure, può succedere che tira avanti dritto a leggere per ore e nel frattempo scava pure nel suo subconscio perché quel che vivono ‘Ndrja e i suoi compagni stimola ricordi, fatti, discorsi, semplici parole che erano rimossi in angoli sperduti della sua memoria. Insomma in chi legge, come accadeva al cinema tanti anni fa, scatta il meccanismo psicologico della identificazione, per cui insieme a ‘Ndrja, anche il lettore c’è su quella felùca con gli “acqualadronesi” e anche lui si dà coraggio quando poi si incontrerà la fera. Chiariamo subito, a proposito di “fera”, che con questo termine i pescatori definiscono il delfino, che per loro è un nemico dichiarato perché si avventa sulle loro reti strappandole per impadronirsi del pescato oppure, al tempo della passa del pescespada o dei tonni, i delfini rivaleggiano con loro a prenderne a man bassa o farne strame mentre il tonno è ancora dentro alla palamitara.
Certo è inevitabile fare qualche accostamento con altri scrittori durante la lettura. Per esempio in ogni rigo, in ogni pagina, penso a Vincenzo Consolo poichè anche lui scrive come se anziché il foglio bianco avesse uno spartito musicale per far sentire poi nella lettura ritmi andanti, allegri, suoni caldi, dolci e poi vibranti come quelli che ritrovi, tali e quali, in Retablo o ne “Il sorriso dell’ignoto marinaio”.
Dunque, io fortunato, povero lettore di questa lunga storia dico a me stesso che in equilibrio devo stare tra cuore e mente per non perdermi nei mille particolari, nei tanti personaggi che sembrano tutti importanti e assai centrali, tanto che ti chiedi a volte dov’è finito mai il protagonista. E queste “femminote” sono forse calate nello stesso ruolo ch’ebbero le sirene nel distrarre Ulisse? Donne gagliarde, seppur povere, che non hanno soggezione alcuna di fronte alla boria dei padroni e impavide vanno incontro ad un destino che per loro non era stato provvido o benigno. E agli acqualadronesi è facile accostare la “compagna picciola” da cui non si separa ‘Ndrja che arde dal desiderio di ritornare alla sua sponda, lì in Sicilia e, come l’eroe acheo, non si lascia distrarre da chi sovrasta perfino le “sirene”, popolana certo, senza castello, ma col cipiglio di regina, Ciccina Circè. La differenza sta però nel fatto che “I fatti della fera” non sono l’Odissea di Omero né ‘Ndrja è l’Ulisse di Dante che voleva “divenir del mondo esperto”. Qui ogni personaggio che si incontra racconta la sua storia avendo in comune con quegli eroi l’identico ambiente in cui muoversi, il mare, e in questo romanzo un solo nemico a rappresentare i violenti, i ladri, gli ingordi, i sopraffattori, la “fera” o il “bestino”, che quelli che non sono uomini di mare chiamano “delfino”.
Storie di “vinti” nel romanzo, per esempio le due donne sedute sull’arenile, madre e figlia, che raccontano di un figlio e d’un fratello uscito fuori di testa; o di quell’altro che s’era assunto un forte debito avendo comprato la barca per uscire a pesca col cognato e il fratello e poi, partiti quelli per via della guerra, rimase solo e perse anche la barca, sequestrata dai soldati tedeschi che in Sicilia divennero non alleati ma occupanti; o quella di Ferdinando Currò, vecchio saggio pescatore, conoscitore di tutti i segreti di quel mare in cui aveva speso tutta la vita.
Tante storie dunque nel romanzo incontra il lettore e tutte accomunate dalla lingua di quel popolo che soffre lottando contro un destino ingrato. D’Arrigo non esclude proprio nessuno e a tutti dedica ampio spazio, ed io ch’ero bambino nei Cinquanta, posso testimoniare che davvero c’era quel mondo che resisteva ogni giorno contro la miseria e aveva una grande voglia di cambiare il destino se non a se stessi almeno ai figli o ai nipoti. Personaggi strani si potevano incontrare, simili al vecchio con cui si trattenne a parlare Bocca d’Opa, vestito con quello che aveva raccattato: una giacca da soldato americano, pantaloni da carabiniere, berretto da fante del 15/18. Un personaggio che ho sentito familiare, con la sensazione perfino d’averlo visto anch’io, perché di tipi strani se ne incontravano anche dalle mie parti in quegli anni. C’era quello, per esempio, che vendeva la “fortuna” o la “ventura” meglio, come si diceva. Girava il dispensatore di vaticini per le strade sterrate del paese e quando vedeva delle signorinelle riunite a crocchio cominciava a proporre l’intrigante mercanzia: dieci lire soltanto per conoscere ciò che avrebbe riservato a ciascuno il destino. Teneva in mano una gabbia con dentro un pappagallo che prendeva a un suo ordine preciso con il becco un bigliettino che le ragazze stringevano in mano e poi di corsa s’appartavano fremendo per sapere quanto tempo dovevano aspettare prima che il principe azzurro venisse finalmente per maritarsele e per cominciare a vivere, perché di sognare erano ormai stanche.
D’Arrigo non lesina spazio ai suoi personaggi, ne segue le fantasie, i desideri, facendo occupare loro il centro della scena, anche se “minori”. Egli infatti, come dicevo, è il nostro Marquez. Qui siamo tra Scilla e Cariddi e lì a Macondo; lì i Buendìa e qui i Cambrìa; e ognuno si esprime con le parole che appartengono a quel mondo, privo di tutto tranne della lingua, certo popolare, appresa dai padri e la stessa che i nonni avevano appresa dai loro nonni; una lingua antica, arcaica, colorita e misurata per quella loro realtà intrisa di dolore e di fatica, di delusioni e di speranze, di sangue e di sofferenze acute e di morte, temuta e aspettata quest’ultima come sola liberatrice da un mondo ingiusto e misero.

Con la parola, tuttavia, chi aveva fame s’illudeva d’essere sazio, chi era stanco si dava un po’ di forza, chi era senza speranza si dava qualche illusione, perfino chi era vecchio, usando ad arte la parola, credeva ancora d’essere giovane e si sentiva vivo e forte, in grado di fare scuola ai giovanotti perché loro, i vecchi, parlavano “per cose viste” non “per sentito dire”. Ecco, con la sua lingua, piena d’espressioni e termini dialettali, di locuzioni popolari “s’arrichia” il Nostro a creare stupende melodie e i tempi li decide lui, con l’andante, l’allegretto, lasciando spesso spazio all’assolo di un unico strumento/personaggio che arriva fino in fondo, fino al finale, con l’acuto. Certo è sempre lui che dirige il concerto e sa quando è il momento di finirla di “babbiari” e riconduce sulla strada maestra il suo narrare.
Pagine e pagine dedica D’Arrigo al comportamento della “fera”, indaga sul perché della sua presenza in quel tratto di mare dello Stretto. Domande su domande si pone, quasi a volere svelare un arcano che riguarda tutta la natura, pur occupandosi solo di un suo elemento. Qui, nei “Fatti della fera”, il lettore si chiede fino a che punto sia ‘Ndrja il protagonista e non la fera e fino a che punto essa rappresenti il Male oppure non sia un ossequio, quello dell’autore, alla Natura tutta, col suo mistero, con la sua forza brutale, con la sua fredda indifferenza verso l’uomo e le sue aspirazioni.
Questa visione pessimistica dell’uomo in D’Arrigo non è indirizzata all’umanità come lo era in Leopardi o in Montale dove il pessimismo diventa totale, senza lasciare scampo all’uomo che vorrebbe rifugiarsi almeno nel Dio consolatore; oppure in Verga che era convinto dell’inutilità dell’impegno, dell’illusione di coltivare ideali e nutrire ambizioni che potessero migliorare la vita del singolo e della comunità sociale.
D’Arrigo presenta gli umili e i gli sfruttati dal potere economico e politico e ne evidenzia il solco profondo che divide il mondo degli uni che sono vinti e l’altro, quello borghese, che sembra divertirsi a fare guerre, a ricreare imperi, a trasformare vere canaglie in uomini d’ordine in camicia nera. È a quel mondo di sfruttati che dà voce il Nostro e per una volta almeno saranno loro al centro della scena parlando con la loro lingua, presentando la loro visione della vita, spiegando cosa sia per loro la sostanza del reale, dicendo al lettore cosa vuol dire avere fame e lavorare solo per poter mangiare.
L’opera di D’Arrigo dunque è assimilabile a un saggio di sociologia o se si vuole d’antropologia; ma soprattutto è un “urlo” del popolo, da sempre umiliato, costretto all’ignoranza e ad una miseria materiale e spirituale insieme. Per i “pelle-squadra”, manovalanza delle barche da pesca, non esistono delfini esistono solo fere, indifferenti alle loro paure, ai loro stomaci vuoti; alla loro ansia per lo scorrere della loro vita sempre uguale in tutte le stagioni, al loro terrore d’invecchiare, perdendo tutti gli ardimenti della gioventù e di morire infine, essendosi mossi solo tra Scilla e Cariddi, tranne per andare a far la guerra e a tornare magari senza una gamba, come avvenne a Bocca d’Opa e a riprendere la lotta di ogni giorno contro la fera.
Anche la fera è un elemento della natura con cui i pescatori devono misurarsi, con la sua intelligenza, con l’astuzia che la contraddistingue e con l’ardimento che in lei è una caratteristica innata, come in tutte le fiere, come l’emettere lava ed eruttare lapilli per il vulcano; come le tempeste che scoperchiano le case; come il mare quando s’ingrossa e s’abbatte poi con la sua tremenda forza sulle rocce che, pur solide e dure, cedono forma e s’arrotondano piegandosi anch’esse a quel gigante.

Si ripensa inevitabilmente al Verga dei Malavoglia, quasi il romanzo di D’Arrigo fosse un naturale completamento della vicenda amara dei Toscano: lì il mare più nero che azzurro, qui il mare luogo infernale e ferale delle fere, eterne nemiche di quei pescatori di Acqualadroni. Ma in questo romanzo è presente lo “spirito del popolo” che si manifesta nei dialoghi, lunghi, impreziositi da termini dialettali che solo chi ha parlato tale lingua può capire e insieme sussultare, perché ad ogni parola ti sovviene un volto, un fatto, una situazione, un’atmosfera che avvolge il lettore, almeno il siciliano che ha passato ormai i sessanta.
Verga narrava e si metteva in alto, da buona posizione, ad osservare quei personaggi che già sapeva vinti, che faceva muovere e poi annaspare e infine crollare, perché per loro solo quel destino esisteva non un altro. D’Arrigo non si può dire che sia meno pessimista: presenta una realtà che è misera e anche i suoi appaiono dei vinti, tuttavia la loro lotta è come quella degli eroi, dei combattenti; li presenta come dei guerrieri che sanno bene qual è il loro destino, ma con ardimento vanno alla battaglia e nel mare o in terra hanno molto chiaro chi sono i loro nemici: le fere in mare e i fascisti in terra. Insomma c’è un elemento politico che fa capolino nel romanzo e l’autore denunzia con mordace ironia ogni apparizione delle camicie nere e del loro comandante in capo, il “mussola e lino”, presentandoli come fossero pupi che si devono portare in scena ma soltanto per qualche fugace apparizione.
Non mancano pagine davvero esilaranti, quando ad esempio si apre una questione su come definire l’animale che domina lo Stretto: fera o delfino? Il dibattito è serrato anche se non si svolge ad armi pari, poiché a condurlo è il guardiamarina Braggini, veneziano d’antica casata nobiliare e Crocitto e Cambria, semplici marò imbarcati su una corvetta, siciliani, pescatori e poveracci.
È il mondo dei pescatori, ma poteva essere quello dei braccianti, dei minatori, degli artigiani, di tutta l’umile gente che da sempre ha sofferto prepotenze e ingiustizie. Un popolo umile e povero diventa protagonista di un grande fatto culturale (tale fu considerata l’opera di D’Arrigo quando fu pubblicata) e anche l’autore fa un passo di lato; la lingua, i pensieri, le passioni, le ambizioni, i sogni, i pregiudizi sono tutti popolari. L’autore scrive e non pensa più a se stesso o ai “messaggi che deve lasciare ai posteri”. No! Lui pensa a ‘Ndrja e alla sua “zita”, a Marosa e descrive il loro primo incontro come potrebbe farlo solo un poeta dell’amore, un Prevert, un Garcia Lorca, un Neruda o un Tagore, e attraverso questo suo farsi da “canto” innalza un vero canto alla sua terra, al suo popolo e alla sua storia. Ecco perché questo non è un romanzo ma un poema.

D’Arrigo poi, adotta come tecnica narrativa quella propria del grande regista, di quelli che vogliono occupare tutti i ruoli, come Chaplin o come Pasolini, dall’idea alla sceneggiatura, alla scelta delle angolazioni per le riprese, al dosaggio della luce, alla scelta degli ambienti e poi alla selezione delle scene e al montaggio. Un regista, insomma, che vuole essere sempre presente a dare direttive, muovendosi incessantemente sulla scena, entrando nel cuore di tutti i personaggi, che considera sue creature, che ama, che accompagna in ogni loro moto, in ogni respiro. Così egli ama ‘Ndrja come se fosse figlio suo e anche Marosa, la fidanzata e capisce le impuntature di suo padre, il vecchio Caitanello Cambria, e apprezza la lealtà di Masino, il suo giovane amico e di tutti i “pelle-squadra”. Egli è un regista che bada a tutti i particolari e tesse la sua tela tra il mare, le fere, l’orcaferone e tutti i personaggi vecchi, “muccusi”, “femminelle”, “femminote” e il lettore lo segue e si appassiona e non si lamenta perché la storia è lunga, anzi, giunto nel finale, rallenta il suo ritmo perché lo conosce già, anticipato nell’introduzione del grande Pedullà. Come tutte le tragedie greche la storia si concluderà con la morte dell’eroe, anche se in quel contesto la morte significa vita e conquista dell’immortalità. Così come la morte dell’orca che muore sì ma, con l’acqua del mare che le attraversa la carcassa in ogni suo passaggio interno, è come se la sciogliesse pian piano fino a diventare essa stessa acqua di mare, come se svaporasse quel fetore di carogna trasformandosi in profumo, in brezza, conquistando così una vera immortalità rispetto a quella che le attribuivano gli uomini, terrorizzati dalla sua grande mole.
Siamo alla fine, dunque, e a ‘Ndrja vorrei dargli un volto perché devo pur immaginarmelo mentre impavido, per aiutare il padre e gli amici pelle-squadra, va incontro al suo amaro destino, e allora ricorro ancora ai miei ricordi legati al cinema e ai grandi attori americani che da ragazzino ammiravo seguendoli seduto nella fila centrale al cinema Stella, dove oggi ad una fabbrica di sogni si è preferito un supermercato come tanti. Ecco, allora, vorrei dare a ‘Ndrja il volto di Kirk Douglas quando vestiva i panni di Spartacus e capeggiava la rivolta degli schiavi contro i Romani, violenti ed oppressori o quando interpretava Ulisse che riuscì a spuntarla con il ciclope Polifemo e a menare strage, scoccando col suo arco frecce tremende, dei Proci nella sua casa usurpata ad Itaca. Oppure a ‘Ndrja darei il volto di Steve Reeves quando nei panni di Maciste affrontava eserciti, mostri e avversità facendo trionfare sempre la giustizia. Come ogni eroe anche ‘Ndria deve partire perché ha una missione da compiere per salvare se stesso e la sua comunità, procurare i soldi per comprare una nuova feluca e sperare in una pesca più ricca.
Prima di partire ‘Ndrja va a salutare Marosa che trova piangente e presaga di un destino malvagio che poteva colpire il suo amato. ‘Ndria muore infatti, colpito da una stupida pallottola sparata da una stupida sentinella inglese.
Immagino che D’Arrigo la sera, girandosi e rigirandosi nel letto, pensasse a quella fine dell’eroe e che tra sonno e sonno ripetesse che non poteva finire così la storia. Quella era l’ultima pagina ma aveva tante cose da dire anche sugli altri episodi, e fu così che si decise a smontare tutto il suo lavoro ma senza buttare nulla, anzi lo avrebbe raddoppiato con Horcynus Horca, un romanzo di 1257 pagine. D’Arrigo è follemente innamorato di quel suo lavoro e non lo vorrebbe dare in pasto a gente senza cuore o a quelli con il bilancino in mano che guardandolo da lontano gli diranno “Peccato, l’idea è buona ma è stata annegata in un oceano di parole! Di tutte quelle pagine ne sarebbero bastate solo duecento!” No, non voleva mollarla quella storia. A Mondadori, cui doveva consegnarla da contratto nel 1961, gli chiese ancora quindici giorni ma arrivati alla scadenza non era ancora pronto e se la tenne ancora quindici anni. Fu pubblicato alla fine del 1974. Del resto, era come consegnare al pubblico se stesso, perché il protagonista, ‘Ndrja Cambria, quel giovane marò, quel pescatore ardito, quell’uomo di parola, onesto e leale e rispettoso del vecchio padre Caitanello, era poi lui, Stefano D’Arrigo. Si girava e rigirava sul letto in piena notte e ripensava a ‘Ndrja e a come l’aveva fatto morire, così di colpo quando mancava poco al suo trionfo. Sentiva come delle fitte e dei rimorsi che gli toglievano la serenità. Ripensava alla giovane Marosa che l’aspettava invano, triste “Penelope”, che ricamava pesci sui centrini e smontandoli poi, punto per punto, per non finire il lavoro altrimenti l’amore suo non sarebbe più tornato, quello era il patto fatto con Dio.
Ti consiglio di ascoltare la recentissima canzone “Omu a mari” della cantautrice (originaria di Paternò) Eleonora Bordonaro, che merita di essere conosciuta e supportata nel suo valido percorso artistico. La canzone è ispirata a Horcynus Orca di D’Arrigo. https://www.youtube.com/watch?v=C9LGbqg7ltc&list=PLiZj6KgcCo2JPp3p3pRvzjRdYhKz_OEhq&index=6
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ottima interpretazione su un ritmo coinvolgente. La canzone completa l’articolo. Grazie per la segnalazione.
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