“Todo modo” di Leonardo Sciascia

di Alfio Pelleriti

Questo libro ha aspettato paziente 42 anni nella mia libreria, perché lo acquistai nel 1978. Lo guardavo di tanto in tanto rimandandone sempre la lettura e adesso che finalmente ho deciso, dico a me stesso, com’è avvenuto per altri autori, che ho perso troppo tempo, perché ci sono libri che aiutano a capire meglio il mondo e quindi te stesso.  

Dopo le prime 20 pagine mi è venuta alla mente l’immagine di Sciascia, coi suoi pochi capelli che lasciavano libera e ampia la fronte e immagino che contenesse un cervello sopraffino come conviene a un uomo di vaste conoscenze, conoscitore profondo dell’animo degli uomini ch’egli sapeva sondare mettendone in luce contraddizioni, ansie e dolori, con l’ausilio di una scrittura rapida, essenziale, ma non del tutto semplice, come conviene a chi non vuol presentare solo una cronaca o una vicenda ben costruita per allietare il lettore, magari in estate sotto l’ombrellone.

Ma dicevo del suo volto: gli occhi piccoli e un poco all’orientale, con le pupille nere come olive che sapevano osservare uomini e donne del suo piccolo mondo provinciale, e analizzando quel microcosmo sapeva avanzare tesi o trarne deduzioni che riguardavano l’intera umanità.

Me lo immagino seduto al bar del centro col suo vestito grigio perla, a parlare con gli amici di politica, di calcio o tenendo una breve lezione su Spinoza o su Pascal, con l’immancabile sigaretta accesa che tirava come i grandi fumatori, facendo brillare la brace che avanzava svelta rendendo sempre più corto il bianco cilindretto di tabacco, legando insieme il gruppo con una ragnatela di fumo d’una “nazionale”.

Quest’uomo, pur essendo un grande letterato conservava un non so che di provinciale, senza usare l’aggettivo in senso negativo, per evidenziarne magari un limite, un difetto. Anzi! Ma per accostarlo a persone che ho conosciuto nella mia “provincia”, qui, nel catanese che avevano la virtù innata del sapere raccontare.

Ricordo ad esempio un maestro elementare che veniva al circolo sempre azzimato, capelli lisci e imbrillantati, la cravatta moderatamente colorata e sempre con la sigaretta in mano, che conversava amabilmente, senza mai alzar la voce, con un fare d’altri tempi. Parlava anche con me, ch’ero solo un giovanotto e a lui che poteva essermi padre, dopo tanti suoi inviti, lo chiamai per nome, dandogli del ”tu”. Anche lui quando esprimeva un’opinione su qualsiasi argomento era come mettesse un suggello a quel suo dire; si poteva ascoltare ma non proprio contraddire.

E un altro esempio era Pippo, il gran disegnatore, l’artista che aveva conosciuto le grandi firme del fumetto d’autore e i vignettisti ospitati in giornali a tiratura nazionale. Quando parlavo con lui era come se ricevessi una lezione su come l’arte non sia da considerare del tutto settoriale, perché Pippo, nonostante la pittura fosse l’attività principale, sapeva di letteratura (amava il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes), di storia delle religioni (apprezzava il buddismo e le filosofie orientali) e di filosofia e non si tirava indietro quando l’argomento riguardava la fisica, la storia, la sociologia. Tuttavia al crocchio preferiva, come Socrate, il dialogo, guardando dritto negli occhi l’interlocutore.

E un ultimo ricordo cui mi conduce la figura di Sciascia, è Alfio, anche lui insegnante; anche lui a tirare la sua “Diana”, anche lui col suo vestito grigio, e anche lui ascoltavo imbalsamato e ammirato per la sua cultura e per la passione che metteva nell’argomentare. S’entusiasmava quando parlava della classe operaia, dei poveri e dei diseredati e lui, ch’era un comunista radicale, ti parlava con le lacrime agli occhi di Gesù Cristo e del suo messaggio ch’era per tutti e soprattutto per gli ultimi non solo per chi non si perdeva una messa la domenica o per chi sedeva tronfio davanti alla sede che per simbolo aveva la croce rossa sullo scudo.

Sciascia nella sua Racalmuto

Ecco, Sciascia si presenta come un intellettuale che ama stare in provincia e a Milano o a Roma, preferisce Racalmuto. Fu scrittore, saggista, giornalista e drammaturgo, ma scelse di lavorare a scuola, maestro elementare. Anche lui amava passeggiare sul corso con gli amici, ridere con loro, conversare, entrare al bar per prendere un caffè e intanto motteggiare, ma poi al chiuso nel suo studio, amava confrontarsi coi grandi scrittori conterranei, con gli illuministi francesi e italiani e scrivere romanzi, saggi, poesie.

Tornando al romanzo, ciò che colpisce è come Sciascia non sprechi le parole: tutte sono giuste, con una costruzione calibrata, essenziale e utile al racconto, pieno di sfumature che servono a presentare i personaggi ma anche la vicenda, che scorre naturale, e a te, lettore, sembra di stare lì all’eremo di Zafer con il narratore che sta lì, pure lui nella vicenda e da protagonista nei panni di un pittore che presto si trova dentro un gruppo di cattolici penitenti riunitisi, come ogni anno, a seguire gli esercizi spirituali in preparazione della Settimana Santa, diretti da don Gaetano, un prete abile, astuto, erudito, gran conoscitore dei limiti umani, delle debolezze, delle aspirazioni, delle forti passioni e ambizioni dei suoi ospiti: banchieri, ministri, vescovi, cardinali. E anche il lettore, come il pittore, capitato lì per caso, non sa se ammirare o temere il prete che dominava tutti costoro ma non per il carisma religioso, piuttosto per il cinismo, l’arroganza e la spregiudicatezza.

Sciascia procede nel racconto avendo perfetta cognizione della sua struttura, per cui può lasciarsi andare all’ironia, a descrivere particolari che all’apparenza sembrerebbero di troppo, ma sono invece opportune pennellate sottili a rendere comprensibile il quadro complessivo, che si presenta vieppiù come un autentico capolavoro.

Me lo immagino Sciascia seduto sulla sedia che il suo amico sarto, contento gli preparava vedendolo arrivare. E in poco tempo, qualche minuto, si radunava intorno a lui un’ampia schiera, seduti o in piedi a non perdersi una parola, una battuta, ad apprezzare un gesto, a seguirlo quando alzava la voce a sottolineare qualche idea, qualche passaggio o un’occhiata di richiamo a chi s’era troppo avvicinato. E tutti incantati a seguire quel grande narratore.

Mi è facile presentarlo con questo quadretto lo scrittore di Racalmuto, perché mentre leggevo pensavo ad un affabulatore noto qui nel mio paese che aveva innata l’arte del narrare. Anche lui trovava ospitalità dall’amico sarto lì sul corso e quando lo vedevano gli amici e i conoscenti s’avvicinavano con una scusa banale, in realtà attratti dal grande incantatore. Teneva desto quel “pubblico”, che diventava in poco tempo sempre più folto, col suo repertorio di “passati”, cioè storie vissute, non molte ed erano sempre quelle, ma il suo pubblico voleva riascoltarle perché a risentirle arricchite con sempre nuovi particolari, era come ascoltarle per la prima volta. Sto parlando di don Placido Grigoli, per tutti “Teddu Cianciana”. Tutti seguivano il racconto, attenti ad ogni suo gesto o movimento, ad un alzar di ciglio, al ritmo che accelerava o si bloccava con pause che acuivano l’interesse e l’attenzione degli spettatori. Un vero attore, insomma, che non aveva avuto alcun maestro né aveva frequentato scuole o accademie, era un talento nato che alla fine del racconto aveva l’applauso spontaneo degli astanti, tranne di quelli intenti ad asciugar le lacrime suscitate dal gran ridere.

Torniamo a “Todo modo”: quando si giunge a metà del libro la velocità di lettura e l’attenzione aumentano, le pagine si divorano. Non sembra nemmeno che sia un libro che tieni tra le mani ma uno strumento arcano che ti conduce d’un tratto lì in quei luoghi dove sono riuniti ministri, imprenditori, vescovi e anche un cardinale e a un certo punto cominciano a fioccare morti ammazzati. Il primo cade mentre, nel grande spazio antistante l’eremo, si recita il Rosario.

Commissario, procuratore, il pittore narratore, Don Gaetano, la mente acuta che conduce gli esercizi spirituali a quella congrega, lui ch’è un semplice prete ma che si muove e parla come fosse un papa, tutti di colpo si trovano sulla scena d’un delitto e a questo punto ci si trova dentro un romanzo poliziesco, dove il ritmo è incalzante, anche se l’ironia usata con sapienza dall’autore non diminuisce affatto, si fa semplicemente “nera”.

Si accentua poi il confronto/scontro tra i due protagonisti della storia e pian piano le due personalità si aprono e appaiono più chiare, e il lettore non solo è costretto a non lasciare il libro seguendo quella galoppata, sgranando gli occhi ad ogni altro omicidio che si consuma tra un sermone e un altro, ma sobbalza addirittura quando don Gaetano, il prete padrone dell’eremo ospitante, conduce il discorso sui principi universali, rivelando quale sia per lui il senso vero dell’essere cristiani; in cosa consista il ruolo dei pastori di quel grande gregge che chiamiamo Chiesa universale. Egli assume un atteggiamento sempre più inquietante, tipico d’un uomo che tante volte aveva accettato o cercato il compromesso, tanto da supporre che sia quasi automatico per il lettore ripensare al romanzo di Umberto Eco, “Il nome della rosa” e a quel monastero piemontese dove tra monaci benedettini si consumavano delitti e ad indagare in quel caso era Guglielmo da Baskerville, interpretato poi nella trasposizione cinematografica da un magnifico Sean Connery.

E poi si giunge alla fine di questo aristocratico, breve romanzo, costruito sulle allusioni, su molte citazioni, su analisi psicologiche, con un andamento che sembra quello del romanzo giallo, che invece tale non è. Del resto l’autore è Sciascia non Agatha Christie o Conan Doyle e quindi, come in altre occasioni (Il giorno della civetta, A ciascuno il suo), lui presenta un romanzo/saggio sul potere e alla fine non si può trovare l’assassino col capo chino e ammanettato, con ai lati due carabinieri, con l’ultima pagina dedicata al commissario sagace e dal gran fiuto, seduto tranquillo a lisciarsi i baffi come Poirot o a gustarsi tranquillo la sua pipa come Sherlock Holmes che soddisfatto si concede il riposo meritato e chiude il caso dicendo al suo aiutante che cerca di capire la soluzione dell’inghippo con la celebre frase: “Elementare Watson!”

Nel romanzo di Sciascia a vincere è il “potere”, quello più arrogante, quello che si lascia corrompere, che si dà a mille malversazioni sicuro di poterla fare franca. E quindi, così come il capitano Bellodi tornerà nella sua Parma lasciando la Sicilia non avendo potuto sconfiggere don Mariano, il capomafia, che continuerà a dominare su una comunità omertosa e rassegnata, anche qui il procuratore Scalambri dovrà cedere ai potenti e non troverà nessun colpevole dopo tre omicidi.

 L’amarezza e il pessimismo dello scrittore emergono nei confronti delle istituzioni politiche ma anche verso la Chiesa e i suoi rappresentanti, tanto che si potrebbe parlare con “Todo modo” di un elemento anticlericale che fa da denominatore a tutta la vicenda del romanzo, oltre ad una denuncia della ipocrita partecipazione ai riti e alle celebrazioni religiose. “Durante la messa non facevano che parlarsi all’orecchio, i vicini; salutarsi con cenni e con sorrisi, i lontani. Si sentivano in vacanza: ma una vacanza che permetteva di riannodare fruttuose relazioni, ordire trame di potere e di ricchezza, rovesciare alleanze e restituire tradimenti.” E ancora: “Lei, mi scusi, non sa di che cosa è capace la gente casa e chiesa, la gente col libro da messa in mano, la gente che dice di amare il prossimo suo come se stessa.”

Non manca Sciascia di presentare in don Gaetano il cinismo e la mancanza di umiltà e di spirito evangelico che invece dovrebbero caratterizzare i pastori della Chiesa. “Le cose che non si sanno, non sono – disse don Gaetano… i preti buoni sono quelli cattivi… il trionfo della Chiesa nei secoli, più si deve ai preti cattivi che ai buoni… il prete che contravviene alla santità o nel suo modo di vivere, addirittura la devasta, in effetti la conferma, la innalza, la serve.”

Don Gaetano infine assume i tratti dell’intellettuale che avanza dubbi nei confronti della tecnologia e di un progresso che annichilisce l’uomo destinato a perdere la sua identità, strumento utile ad un sistema politico ed economico, sempre più elitario. Scomoda allora il pessimismo di Pascal di fronte al mistero della vita e della complessità dell’Universo, fino alla pagina finale che Sciascia affida a Gide che riporta un dialogo tra due prelati che sembra quello tra due porporati che hanno scelto di servire l’anticristo.


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