“I cani e i lupi” di Irene Nemirovsky

di Alfio Pelleriti

L’autrice Irene Nemirosky scrive “I cani e i lupi” avendo presente la sua personale storia e quella del suo popolo. Lei vive l’infanzia a Kiev come Ada, la protagonista, poi seguirà il padre a San Pietroburgo per trasferirsi definitivamente a Parigi, come Ada. Quest’ultima lascerà la Francia per tornare nuovamente in Russia e continuare la sua lotta dura con la vita che non è stata con lei benigna. Irene non tornerà in Russia poiché lei e il marito saranno arrestati dalla Gestapo nel 1942 e mandati ad Auschwitz dove moriranno dopo due mesi.

Il romanzo, se volessimo darne un’interpretazione metanarrativa, potremmo presentarlo come un’analisi delle caratteristiche psicologiche e della personalità dell’ebreo. Calcolatore e cinico, poco propenso a farsi sopraffare dai sentimenti, ha tendenzialmente il desiderio di profittare di ogni occasione propizia per accumulare denaro. “I soldi facevano comodo a tutti, ma per un ebreo erano più necessari dell’aria, dell’acqua. Come vivere senza soldi? Come pagare i favori sottobanco? Come far entrare i figli a scuola quando la percentuale di ammissioni consentite era già stata raggiunta? Come sfuggire al servizio militare? Ah, Dio mio, impossibile vivere senza soldi!” Niente dubbi o remore morali nel fare profitti e aumentare il capitale e in tale visione non è escluso Dio, anzi, si invoca la Sua protezione, e il successo nel lavoro, come affermerà il buon Max Weber, è la dimostrazione di essere in grazia di Dio, un predestinato alla salvezza, e che Lui è dalla tua parte! “Dio è con noi!” o “Dio lo vuole!” gridavano i nazisti mentre maciullavano gli ebrei e ogni oppositore; e la stessa convinzione era quella dei crociati durante i massacri degli “infedeli musulmani”; ed era con questa orribile blasfemia che gli inquisitori bruciavano vivi gli eretici, gli scienziati o chi si dava a studi di teologia che andavano fuori dai canoni fissati dal Concilio della Chiesa, depositario della Verità.

L’autrice non è tenera con i suoi correligionari, lucidamente ne mette in evidenza i lati oscuri, i comportamenti censurabili che hanno adottato nel lungo periodare della storia. Qualcuno afferma che, avendolo scritto in Francia durante l’occupazione nazista, volendo salvare la famiglia e le due figlie soprattutto, dà al romanzo un tono antisemita o accentua il taglio particolarmente mordace, fino al dileggio, verso atteggiamenti e comportamenti del tipo ebraico. Anche il titolo contribuisce a sostenere tale ipotesi: “cani e lupi” sono le due classi sociali in cui si collocano gli ebrei protagonisti della vicenda: i primi sono ricchi, quelli del quartiere alto, che vivono in lussuose ville che danno su splendidi viali alberati; gli altri, i lupi, sono gli ebrei che vivono nel quartiere basso, in case piccole, in tuguri, tra la sporcizia e una povertà che abbrutisce, che fa ammalare, che rende vittime di periodici pogrom da parte della cavalleria cosacca, che si diverte a dar la caccia al “vile ebreo”. Sono lupi costoro perché condannati ad inseguire i cani, perché lottano, corrono, le loro mani si trasformano in artigli perché loro non vivono, combattono. Tuttavia non è questa la mia interpretazione anche se non è certamente tenera l’autrice in diverse sequenze in cui personaggi come Ben e i suoi anziani zii, ricchi finanzieri, sono presentati come gli archetipi dell’ebreo, col naso adunco, mellifluo e astuto, che mira solo all’accaparramento, solo ad accrescere il suo tesoro.

Altre figure che escono con le ossa rotte sono la zia Raisa e Madame Mimì, donne che aspirano alle scalate sociali, come tutti gli ebrei che il rispetto se lo devono sudare lavorando a testa china, senza dare giudizi, senza perdere tempo con le discussioni sui princìpi. Ma a riscattare un popolo c’è la protagonista, Ada, che è l’eroina romantica seppure calata in un contesto sociale iperrealistico; e, nonostante il piano della Nemirovsky di fare strame del suo popolo volendolo presentare privo d’ideali, dedito all’usura, abbietto e calcolatore in nome del profitto a tutti i costi, ecco si pone al centro della scena Ada, un’adolescente prima e poi una giovane donna che crede nell’amore, anche quando sembra irraggiungibile, che crede nella consolazione che può derivare dalla creazione artistica; una giovane ebrea povera fin dall’infanzia ma che ha fiducia in se stessa e, senza invidiare nessuno, lavora anche solo per la sopravvivenza. Tuttavia, anche lei del carattere della sua gente ha la caparbietà, perché non rinuncia ad Harry che ama pur appartenendo a una classe sociale superiore, pur vivendo nel quartiere alto di Kiev, quello dell’alta finanza e dei banchieri. Bastò vederlo una volta e se ne innamorò talmente da legare la sua vita a quell’immagine, perché tale rimase per lei per tanti anni, solo una chimera. Ma a tale sogno dedicò la sua vita ogni suo gesto, tutti i suoi pensieri. “Le sembrava quasi di avvertire la presenza al fianco, quando, all’uscita dalla scuola, affrettava il passo nelle buie strade invernali, alitando sulle mani intirizzite, in mezzo alla neve e al vento gelido che le faceva bruciare gli occhi. Gli parlava e inventava le sue risposte. Recitava per se stessa una commedia piena di sorprese, avvenimenti lieti, incontri, litigi, rappacificazioni.

Un romanzo, elegante, raffinato, che spesse volte tuttavia non tralascia i toni rudi e non poche volte si pensa a Dickens, il grande scrittore inglese, soprattutto quando, con  tocco leggero, riesce a portare chi legge nello stesso sogno di Ada, ancora intenta ai giochi con Ben, suo cuginetto, ancora ragazzi ma cresciuti in fretta in un mondo difficile che a nessuno fa sconti, e lei, l’autrice, in questo “film”, con la voce fuori campo, accompagna l’azione, spiega il turbinio dei sentimenti dell’adolescente Ada che ama Harry Sinner, lontano parente ma che appartiene ad una classe sociale alta e ricca. Lo incontrò la prima volta durante una festa che si teneva nella stupenda villa dei Sinner: “Ada era tutta occhi. Non si limitava a vedere quel che la circondava. Lo beveva, come un assetato si slancia verso l’acqua e la sorbisce senza riuscire a saziarsi, senza decidersi a posare il bicchiere; così ogni colore, la forma di ogni oggetto, le facce di tutti quegli estranei sembravano penetrare in lei sino a un luogo profondo e segreto, nascosto nel suo cuore e di cui fino allora non aveva mai sospettato l’esistenza.” L’autrice narra con le modalità tipiche del romanzo ottocentesco, a tratti pensi anche ai romanzi d’appendice, ma tali accostamenti non tolgono nulla alla superba capacità del raccontare, i cui toni sono sempre pacati ma capaci di toccare le corde più sensibili e profonde del cuore del lettore.

Disegno di Rosa Zappalà

Ada, la giovinetta povera, orfana della madre e sola, diventa presto l’eroina del romanzo, e i suoi pianti e le sue gioie, i suoi sogni diventano anche i tuoi e succede allora che anche quando si chiude il libro si pensa a lei e ripeti a te stesso: “Aspetta Ada, torno presto, torno fra un po’!” – dimenticando che anche Ada, in fondo è una “lupa” che insegue il suo “cane” Harry anche quando sa che è sposato, che ha una figlia, che sembra felice, tranquillo. No, lei non recede, e l’inseguimento continua, e non le era d’impedimento il fatto che anche lei fosse sposata, con Ben, a cui però aveva detto chiaro e tondo che non l’amava e che il suo cuore era solo per Harry. “Si diresse verso la casa di Harry. Da quando era sposata e libera d’andare dove voleva era tornata spesso sotto le sue finestre, canzonandosi da sola ma traendo da quell’inutile inseguimento un piacere raffinato, intenso e sommesso. A spingerla lì adesso, non era più soltanto l’ombra, la presenza di Harry, ma gli scorci di un’esistenza più bella, più dolce della sua, meno inumana soprattutto, perché Ada si rendeva conto che la sua vita aveva qualcosa di anormale.

Alla mia povera mamma, dall’animo romantico, anzi crepuscolare, le sarebbe piaciuta la storia di Ada che aveva una sola ragione di vita, l’amore per Harry; che amava star da sola a pensare un roseo avvenire anche nei momenti più difficili; che curava poco il suo aspetto perché per lei ciò che contava era ciò che le faceva palpitare il cuore e, avendo un talento naturale per la pittura, con i colori esternava le sue emozioni.

Disegno di Rosa Zappalà

Anche mia madre amava la pittura e lasciò tanti disegni di donne e di fanciulli e anche Ada avrebbe sicuramente ritratta, magari quando seduta su una panchina, sola e da tutti abbandonata, piangeva, quando un bambino le si avvicinò per consolarla. “Con i capelli scarmigliati, la guancia pesta a furia di sfregare contro il ferro, sotto gli alberi del viale, pianse a lungo: l’unico a fermarsi fu un bambino, che le rivolse uno sguardo grave e di fraterna pietà. Ada gli sorrise tra le lacrime, e il piccolo sentendosi incoraggiato, domandò:

‘Il tuo bambino è ammalato?’

Ada incontra Harry
Ben e gli altri
Ben, ecco chi era.

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