Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto. Prima parte

Alfio Pelleriti

Durante la pandemia da Covid 19 abbiamo assistito ad una contestazione anche aspra degli scienziati da parte dei cosiddetti “No vax”, negazionisti a oltranza nonostante l’evidenza dei tragici effetti del virus; costoro sorridevano, supponenti e arroganti, dei rapporti delle organizzazioni mondiali della Sanità, dei medici specialisti e ricercatori proposti dal Ministero della Salute  per affrontare un problema enorme che avrebbe causato milioni di morti (130 milioni di infettati e 7 milioni di decessi nel mondo e 130 mila morti in Italia). Politici, attori in cerca di visibilità, portuali e gente comune, sono scesi in piazza contestando gli scienziati e affermando che era tutta una montatura dei giornali e di certi medici e infermieri “venduti” (si fermarono perfino le ambulanze per smascherare il “complotto”) e che a causare le morti non era il Coronavirs ma il vaccino. Con le dovute distinzioni, non c’è affatto da meravigliarsi se tanti italiani quando si avvicina il 25 Aprile, data della Festa della Liberazione dal giogo nazifascista, sbuffino annoiati o irritati inveiscano davanti agli schermi televisivi nelle loro “tiepide case”, presenti mogli e figli, contro i “comunisti”, gli “intellettuali della Sinistra” e i “giornaloni” che strizzano l’occhio ai radical scic della Sinistra. “Ma si occupassero di risolvere i problemi veri, non di tali fregnacce!”, “Ancora, ma basta! Ogni anno è la solita solfa! Sarebbe ora di finirla! Per fortuna hanno trovato pane per i loro denti e gente capace al governo, finalmente!” Poi lo stesso Tg manda in onda un servizio da Milano dove, come ogni anno, 1000 persone si vedono inquadrati a rendere onore a Sergio Ramelli, gridando “presente!” salutando romanamente, e gli stessi che avevano tuonato contro la Resistenza si zittiscono, è da supporre, commossi.

Il saggio.

“Ma perché siamo ancora fascisti?” titola il suo ottimo saggio lo storico e scrittore, Francesco Filippi, naturale continuazione dell’altro saggio “Il fascismo ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo.” (recensito su questo sito).

La domanda dello storico non è peregrina, poiché in tanti, dopo la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943 e, dopo la conclusione della lotta resistenziale contro il nazifascismo, il 25 aprile 1945, ancora la propongono, nonostante siano trascorsi quasi ottant’anni.

La risposta, secondo lo storico, va ricercata innanzi tutto nella mancata epurazione di tutti coloro che si erano compromessi col passato regime. Tale operazione fu particolarmente complicata e di difficile attuazione anche perché le forze militari angloamericane che dovevano sovrintendere al passaggio dalla dittatura ad un governo democratico, dovevano contrastare un altro nemico dopo quello nazista, quello rappresentato dal comunismo staliniano. Inoltre i numeri erano grandissimi e quasi impossibile ne fu la gestione, poiché in tutte le istituzioni statali i componenti di tutti i livelli, dal semplice impiegato fino all’alto dirigente, dovevano prestare giuramento allo Stato fascista ed essere tesserati al PNF. In venti anni si impose la perfetta coincidenza tra le finalità dello Stato e il fascismo, e divenne “naturale” l’essere fedeli ad uno Stato fascista e niente poteva essere immaginato, attuato che non fosse in armonia con l’istituto del fascismo. Dalla pubblica amministrazione alla scuola, dalla magistratura all’università, dall’industria al commercio e al mondo finanziario, fino ai vertici delle forze militari e della polizia, dal mondo culturale e all’editoria, allo spettacolo, allo sport, al tempo libero, al giornalismo, tutto era accompagnato dall’aggettivo “fascista”.

Fu un condizionamento attento, puntiglioso, pervicace, che accompagnava gli italiani “dalle culle alla bare” per riprendere il titolo d’un famoso saggio di Maria Antonietta Macciocchi. Fin dalle scuole elementari, oltre ai manuali, lo studente aveva in dotazione i due volumi di mistica fascista: “Il primo e il secondo libro del fascista”.

Francesco Filippi

Non uno dei settori pubblici fu lasciato libero di operare, ma tutti erano costantemente controllati dall’OVRA (Opera Vigilanza Polizia Antifascista). Chi si fosse ostinato a difendere la propria libertà di coscienza, avrebbe perso il lavoro, sarebbe stato isolato e mandato al confino, o arrestato o eliminato. In tale opera repressiva il regime fu particolarmente efficiente, fin dalle origini, ricorrendo agli attacchi squadristici alle organizzazioni sindacali, alle sedi dei partiti, e alle aggressioni ad esponenti socialisti, liberali, del partito d’azione, fino al delitto Matteotti del 1924. Le libertà democratiche furono eliminate con l’emanazione delle leggi liberticide del 1925/26 con le quali si abolirono i partiti politici, i sindacati, le associazioni non fasciste; la milizia volontaria per la sicurezza nazionale, era già stata fondata il 1° febbraio 1923, dotando il PNF di una milizia armata che avrebbe seminato il terrore con i suoi manipoli.

Chi voleva lavorare per lo Stato e nelle sue istituzioni doveva avere la tessera del partito e giurare fedeltà allo Stato fascista. Nel febbraio 1929, col Concordato tra Stato e Chiesa, perfino l’essere cattolico non doveva essere in contrasto con le scelte del fascismo. Tale rigidità ideologica, insieme all’impegno che forze dell’ordine e magistratura misero nel controllare che nessuno si sottraesse allo Stato totalitario, rese difficile se non impossibile una defascistizzazione delle istituzioni statali a liberazione avvenuta e una epurazione di elementi che avevano operato e collaborato col regime. Il fascismo continuò a covare e gli Italiani rimasero ancora fascisti pur avendo cambiato il colore della propria casacca, pur apponendo il segno in un simbolo diverso dal fascio littorio al momento delle libere votazioni. In fondo la percezione della realtà che ogni uomo o donna dava sui fatti storici del recente passato e sulla personale esistenza condotta in quei vent’anni fu assolutoria. I problemi poi furono pratici: chi nella magistratura, nell’esercito, nelle forze di polizia, nella scuola doveva essere portato in giudizio e da chi, visto che tutti quel giuramento lo avevano fatto e la tessera del partito l’avevano avuta? Per chiudere i conti con quei vent’anni e con la guerra civile combattuta fino all’aprile del 1945 il ministro della Giustizia Palmiro Togliatti varò un’amnistia nel primo governo De Gasperi, per cui si cancellarono i delitti politici e anche gravi delitti commessi da ex camicie nere repubblichine della GNR che avevano partecipato ai rastrellamenti insieme ai tedeschi massacrando soprattutto donne e bambini, come fu il caso della Banda Carità[1] o la tristemente famosa banda Koch, pari alla prima per le torture praticate sui partigiani. Tutti usufruiranno dell’amnistia e nel 1953 gli arrestati vennero liberati, tranne i due capi; Carità ucciso in un conflitto a fuoco da soldati americani, Koch condannato alla fucilazione.

Processo alla banda Carità

Si dovette aspettare che si formassero nuove generazioni non compromesse col regime, dotate di spirito critico, per difendersi dai condizionamenti dei propri padri, degli insegnanti che si erano prestati a fare propaganda e indottrinamento, si sperava in una generazione nuova con una mentalità nuova, con valori etici riscoperti dopo la notte buia di una dittatura che aveva corrotto le coscienze. Solo a partire dagli anni Settanta del Novecento si cominciò a parlare di diritti come era avvenuto nella Francia del 1789; si ricominciò a studiare oltre ai classici anche i filosofi della scuola di Francoforte, che all’avvento del nazismo erano stati costretti ad abbandonare la Germania (Horkeimer, Adorno, Marcuse, Fromm), i filosofi esistenzialisti; la letteratura internazionale riprese a circolare e ci si aprì alla produzione americana, russa, sudamericana e si conobbe e si cominciò a studiare la psicoanalisi, anche attraverso un divulgatore d’eccezione come Cesare Musatti; e poi con la pittura, la musica, il cinema, il teatro ci si poteva esprimere liberamente, andando oltre il provincialismo e il campanile.

i torturatori di Salò
La banda Koch

La mancata epurazione di elementi fascisti dalle istituzioni statali contribuirà non poco alla persistenza di quella mentalità autoritaria che si era formata sotto il fascismo. In particolare, nell’amministrazione pubblica quasi il 90% degli addetti rimarrà al proprio posto, perfino i prefetti della RSI. E così dicasi per la scuola secondaria e primaria e per le università. Gli insegnanti fascisti e di formazione fascista rimasero tutti al loro posto, perfino Giuseppe Bottai fu reintegrato nel suo ruolo di docente universitario nel 1951. “A dieci anni dalla fine del regime fascista e ad appena otto dalla Liberazione, praticamente più nessun fascista dichiarato colpevole di reati anche gravi risulta in carcere.[2]

Molti personaggi della politica post bellica che avevano avuto un passato imbarazzante nel passato regime, come Amintore Fanfani, democristiano, che sarà per cinque volte presidente del Consiglio, nel 1936 aveva ottenuto la cattedra di storia delle dottrine politiche all’Università di Milano e fu tra i 330 firmatari del Manifesto della Razza che diede inizio nel 1938 alle leggi razziali. Fernando Tambroni, anche lui democristiano, e presidente del Consiglio nel 1960, già nel 1926 aveva aderito al PNF. E avevano svolto una brillante carriera universitaria durante il regime anche Luigi Einaudi, Antonio Segni e Giovanni Leone, futuri presidenti della Repubblica.


[1] La banda inserita all’interno del GNR operò soprattutto in Veneto con metodi brutali: praticavano costantemente la tortura, si davano ad esecuzioni sommarie, ad attentati e all’assassinio di intellettuali.

[2] Francesco Filippi, Ma perché siamo ancora fascisti? edizione speciale Gedi 2021, su licenza di Bollati Boringhieri editore, Torino 2020, pag. 89


Una risposta a "Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto. Prima parte"

  1. COMMENTO di Angela Carrà
    La tentazione é pensare che ci siano modi migliori di portare avanti il regno di Dio rispetto a quello indicato da Gesù. Nessuno é immune da questa tentazione, bisogna farci i conti. Essa é pericolosa per due ragioni: la prima é che approfitta delle nostre ferite per spingerci a desiderare il peggio per coloro che riteniamo responsabili. A tutti sarà capitato di subire ingiustizie e di ritrovarsi a fantasticare di vendette sopraffine. Ci sarà capitato di cullarci con pensieri del tipo: ma perché il Signore non toglie di mezzo Tizio e Caio? Non sarebbe migliore il mondo se non ci fosse quel mascalzone? E mentre ci trastulliamo con questa domanda non ci accorgiamo che il nostro cuore coltiva effettivamente il desiderio che Tizio e Caio non ci siano. Difficilmente poi ci viene da considerare l’eventualità che Tizio e Caio potremmo essere noi nel pensiero di qualcun altro. Alla radice di questi pensieri sta la convinzione che la misericordia sia uno stile inadatto al mondo duro e crudele che é il nostro. Che la Parola di Gesù sia senz’altro bella ma che per portare avanti il regno di Dio sulla terra bisogna avere nelle maniche gli assi giusti, quelli che contano da queste parti. E che tutto sommato sia ragionevole la logica occhio per occhio e dente per dente. La seconda ragione che spinge a seguire vie diverse da quella indicata dal Signore é la bontà del fine: se si tratta di annunciare il Regno di Dio ben venga qualsiasi mezzo. E il gioco é fatto: con un pizzico di potere in più chissà quanto bene si potrebbe fare. Con un pò di denaro in più chissà quanti poveri potremmo sfamare. Con un pizzico di cattiveria in più chissà quanti malvagi potremmo mettere fuori gioco. Con un poco di sapere in più, con un poco di salute in più, con un poco di agganci politici in più chissà quanti progetti umanitari potremmo promuovere. Come si vede, la tentazione é relegare lo stile di Gesù a un pugno di buoni sentimenti e preferirgli le logiche mondane. Ora, se il Regno di Dio avanza non é certo per i puntelli mondani che i suoi testimoni illusoriamente cercano. Essi credono di farlo per il regno di Dio ma non é vero. Lo fanno perché fondano il proprio agire su sé stessi. Il regno di Dio passa invece esclusivamente attraverso la mitezza, il perdono, l’invito alla conversione, la preghiera e la carità, attraverso il dimenticare sé stessi a vantaggio dei fratelli e del Signore. Quando Gesù invita i discepoli a rimanere nel suo amore vuole appunto metterli in guardia dal rischio di essere attratti e coinvolti dalle logiche mondane. Non basta aver capito il Signore. Si tratta di entrare nella logica del Vangelo e rimanerci. Entrare e uscire infatti é più facile di quel che sembri. Si tratta invece di seguire il Signore anche quando la sua logica appare perdente agli occhi del mondo. Non a caso Gesù parla espressamente della potatura dei tralci. La potatura consiste ad esempio nel vedere frustrato il desiderio di fare subito i conti e di essere noi a farli al posto del Padre. La potatura consiste nel trasformare le umiliazioni che subiamo in palestra di umiltà. Consiste nel credere in Gesù e nel praticare i suoi comandamenti (le Beatitudini) anche quando ci sembra che, così facendo, i furbi abbiano la meglio. La potatura consiste nel lottare con tutte le forze per crescere nelle virtù della fortezza, della prudenza, della temperanza, della giustizia, della speranza, della fede, della carità e della purezza di cuore e nel contempo nel consegnare al Signore i propri limiti e i propri fallimenti, perché possa apparire più chiaramente che é Lui a salvare. Se vogliamo che la nostra vita sia di vantaggio al regno di Dio dobbiamo seminare quello che dice il Signore non a modo nostro ma a modo suo. Altrimenti non porterà frutto, avremo perso tempo e anche noi stessi. Tralci gettati via.
    Angela Carrà

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