Antonio Bruno, il futurista romantico (Prima parte)

di Alfio Pelleriti

Antonio Bruno

Nel corso della mia vita e della mia permanenza a Biancavilla ho sempre detto a me stesso e agli altri che il paese vantava tra i suoi uomini illustri un poeta, Antonio Bruno, senza preoccuparmi di conoscerlo leggendo i suoi scritti, con la sicumera degli stolti e dei distratti colpevoli.

Ebbene, finalmente il momento è arrivato e mi sono deciso ad aprire il volume che raccoglie parte delle opere del Nostro, contenente “Fuochi di Bengala”, “Un poeta di provincia”, “Lettere a Dolly Ferretti”, le traduzioni e un saggio su Giacomo Leopardi. (Antonio Bruno, Opere, 1987)

Confesso che ho iniziato la lettura con un pregiudizio di fondo che mi portava a ritenere Bruno come il rappresentante della borghesia nostrana che, al massimo, lo portava ad essere un esteta, un viveur, un “megafono” delle mode culturali del suo tempo, e del futurismo in particolare. Tali elementi, invero, ho riscontrato e confermato, man mano che mi sono inoltrato nella lettura di “Fuochi di bengala”, fino a sviluppare un sentimento di fastidio e di netta opposizione con le prime pagine del suo duro attacco al poeta e giornalista catanese Villaroel. Il suo attacco era forte, tagliente, mordace, velenoso, martellante e il sentimento che reggeva la metodica distruzione dell’avversario era l’astio rancoroso che lo portava all’offesa e alla derisione.

Intanto andavo avanti, pagina dopo pagina, e cominciavo ad essere colpito dalla costruzione del discorso, sempre preciso, ricco ma non esondante, articolato e complesso ma efficace, con una struttura interna rigorosamente logica e dal ritmo incalzante: dal piano pianissimo all’andante, ai picchi degli acuti e al vibrante, per risolversi nella placida enunciazione della conclusione, forte e appassionata, sebbene espressa con i mezzi toni cui si ricorre nell’esprimere verità che stanno già in piedi da sole, sorrette da un’energia intrinseca per cui i “sostegni” appaiono inutili e sovrabbondanti.

Sempre più spinto dalla curiosità di chi vuol capire l’uomo, con l’inconfessabile pretesa di dare giudizi ultimativi e apodittici sull’artista, convinto che avrei dovuto trovare soltanto altri indizi o prove schiaccianti a un giudizio senza appello che avevo già pronunciato, ho invece pian piano aperto gli occhi, scuotendomi e, liberatomi dalla toga di giudice pronto ad etichettare il reo come colpevole di gravi delitti, ho scoperto invece la genialità di uno scrittore di rara eleganza, di profondo sentire, di vastissima cultura. Mi sono trovato davanti ad un gigante nell’arte antica del compositore di opere scritte che rivelano la forza della statuaria di Fidia, l’espressività vigorosa e sfrontata delle composizioni pittoriche di Picasso o del visionario Dalì, e ancora l’estro giocoso e guerriero di un allegretto mozartiano, la trasparenza innocente e sublime di un canto leopardiano; la bellezza vigorosa di una prosa aristocratica, dal lessico ricercato, complesso, antico e moderno insieme, che lascia il lettore senza fiato e attonito, come davanti a un Caravaggio al cui cospetto ti ritrovi, accesa la luce all’edicola che lo ospita, vinto dall’energia interna dell’opera di un genio.

Esagero? Forse. Ma come non esultare di fronte a questo giovanissimo scrittore che, come tutti i geni, mostrava una competenza espressiva di rara eleganza non solo nei componimenti poetici ma anche nella prosa, che è così sapida, così pregnante di saggezza e di armonia, di equilibrata ironia e di mordace energia che ti chiedi come sia possibile che tali qualità possano ritrovarsi in un giovanissimo ventenne. È come se ogni anno della sua vita fosse da moltiplicare per tre o per dieci, così profondo e vasto il suo sapere; così tese le corde del suo cuore nel cogliere le più dolci e sottili sfumature della vita.

Antonio Bruno sembra appartenere a quella progenie di scrittori che, oltre ogni confine di spazio e di tempo, sono fratelli o comunque, hanno identica sostanza, e dunque colgono, aldilà delle fugaci apparenze e delle luci abbaglianti che subitanee scolorano al crepuscolo, ciò che i filosofi nomano “sostanza” o “essenza” o “essere”, l’insieme di quelle caratteristiche che, per ragioni di comunicazione e comprensione, ai più si dice essere il Bello, il Giusto, il Vero.

E’ stato davvero un bel viaggio attraverso i lasciti superbi di un poeta, per condividerne le ansie, i desideri, gli ardenti fuochi della sua passione che si nutriva dei palpiti del cuore, delle scoperte di una mente mai paga d’esplorare, di un’anima volta ad apprezzare e gioire e piangere per gli artisti autentici. Anche Bruno fu artista vero poichè riuscì a cogliere l’essenza della vita, lì ove s’inseguono opposti sentimenti, dove coabitano santi e gaglioffi, eroi e traditor del vero. Anche lui si mosse in una realtà dove l’eterno gioco tra ciò che appare e ciò ch’è invisibile ma esiste ed è il fondamento del primo, è l’enigma sul quale gli uomini grandi hanno avanzato le loro interpretazioni, hanno creato “sintesi” belle trasformatesi in fari di luce cui dirigersi affrontando i marosi oscuri delle tempeste senza vento, l’impeto delle trame terribili ordite da chi vive solo in superficie, da chi pensa di conoscere tutto e di saper mettere in un sacco anche i più furbi.

Il giovane Antonio Bruno, come il giovane Leopardi, soffrì l’incapacità del “selvaggio borgo natio” di capirne la grandezza creativa; nati entrambi per essere testimoni del Bello e del Vero, e per ciò stesso condannati dalle comunità coeve e dai posteri al compatimento e all’incomprensione. In vero, tuttavia, sono loro che resteranno immortali in grazie delle opere luminose, ma anche in forza dei loro patimenti, delle amarezze subite, delle copiose lacrime versate.

Biancavilla ha intitolato una scuola media all’illustre suo figlio per poter aggiungere nella pagina culturale di una guida turistica una celebrità che insieme a pochi altri possa dar lustro ad una comunità che dei tanti “Bruno” se ne infischia altamente, oltremodo, preferendo sollazzi, rumorosi schiamazzi, volgari sghignazzi, sempre seduti attorno a grandi tavoli per soddisfar le panze, per tracannare vino forte di Montalto (altro che Chiesetta). Attorno a un tavolo sì, dove poter sparlare dell’amico ch’è assente; di godere della voglia inconfessata di far l’elenco delle disgrazie altrui: di chi è caduto e non s’è più rialzato, di chi s’è ammalato, di chi è morto. Per questi pupi che mostrano se stessi come eroi soffrì e soffre ancora Antonio Bruno, misconosciuto ai più, liquidato con una battuta sciocca o volgare oppure con un sorriso accennato carco di velenosa invidia, di indifferenza e di tutte le ottuse malignità del mediocre.

Biancavilla
Lodi alla Francesca

BREVE BIOGRAFIA (A.P.)

Casa Bruno in Via Vittorio Emanuele a Biancavilla

Antonio Bruno nacque a Biancavilla il 26 novembre 1891 da famiglia borghese. Il padre Alfio Bruno, notaio e imprenditore (suoi i mulini ad acqua) e proprietario terriero, sensibile alle esigenze della parte più indigente della popolazione, partecipò attivamente alla vita politica divenendo sindaco, con una lista di partiti democratici, liberali e socialisti alle elezioni del 1924. Quell’amministrazione ebbe vita difficile a causa di un’opposizione aggressiva e violenta dei fascisti locali, il cui leader era l’avv. Arcidiacono, che costringerà nel 1926 alle dimissioni la giunta.

Antonio Bruno visse a Biancavilla gli anni della fanciullezza e dell’adolescenza, poi passò a Catania presso il Collegio Cutelli ove conseguì la licenza liceale. Dopo aver concluso gli studi viaggiò molto, ritenendo che chi ama la letteratura e di essa non è semplice fruitore ma attivo protagonista, deve dare largo spazio ai viaggi e alle conoscenze di realtà e ambienti diversi dai luoghi frequentati abitualmente. Così fecero i grandi scrittori e così anche lui volle vivere e conoscere altre città oltre Catania. Fu dunque a Palermo, a Roma, a Londra, a Parigi e poi a Firenze. Ebbe modo di respirare le tendenze letterarie del primo Novecento e innanzitutto la corrente più radicale, il futurismo, di cui conobbe diversi rappresentanti ed ebbe modo di incontrare anche il suo fondatore Filippo Tommaso Marinetti. Fu poliglotta e bravissimo traduttore. Conosceva il francese, l’inglese, il tedesco, il greco e il latino. Pregevoli le traduzioni dei poeti francesi, di Baudelaire e di Mallarmè in particolare, oltre che di poeti della tradizione cinese (dal francese).

Scrisse, ancor giovanissimo, componimenti poetici di rara bellezza rivelando un talento creativo non comune. Tuttavia proprio il suo desiderio d’essere protagonista del suo presente e l’urgenza di dare sfogo alla sua genialità che poggiava su una vasta e profonda cultura, non gli permisero di concentrarsi su un progetto creativo di ampio respiro, contentandosi di scrivere saggi, articoli per il Corriere di Sicilia, soprattutto, pamphlet. Si impegnò altresì, nell’edizione di Pickwick, rivista futurista che ebbe vita brevissima (marzo – maggio 1915).

Degna di nota la sua prolusione presso l’Università di Roma, il 7 maggio 1912, intitolata “Come amò e non fu riamato Giacomo Leopardi”, quando aveva compiuto 21 anni. Ma fu a Firenze che visse uno dei momenti più importanti della sua vita poiché lì incontrò una giovane donna di cui si innamorò e con la quale intrattenne un rapporto contrastato dai genitori di lei e che alla fine si concluse con la rottura. Era Ada Fedora Novelli, da lui chiamata Dolly Ferretti e alla quale indirizzò lettere dense di sentimenti d’amore, di speranze e infine di disillusione e di grande amarezza. La fine di questo amore influì negativamente sul suo equilibrio psichico e contribuì a fare entrare Bruno in una depressione da cui, nonostante gli impegni sempre più incalzanti, non uscirà più, trasformandosi presto in nevrosi che lo porterà infine alla scelta estrema del suicidio.

Nel 1920 pubblicò un pamphlet, “Un poeta di provincia: schiarimento catanese in difesa della poesia”. Una vera e propria invettiva, fortemente sarcastica, a tratti offensiva e denigratoria nei confronti del giornalista e scrittore Giuseppe Villaroel. Nello scritto non lesina critiche spietate ai siciliani in generale e ai catanesi in particolare, tra cui Mario Rapisardi.

Le sue traduzioni delle poesie di Baudelaire sono di rara bellezza oltre che rivelare grande rispetto per il testo di cui ne mette in primo piano il significato profondo senza sacrificare il ritmo e la musicalità della composizione, contenute in “I più bei poemi di Fiori del male di Baudelaire”. Del resto solo un poeta della sua caratura e un provetto conoscitore della lingua francese poteva così superbamente offrire quei testi nella nostra lingua conservandone tutta la bellezza.[1]

Dal 1926 fu in Sicilia, a Catania soprattutto, oltre che nella sua Biancavilla, e si dedicò alla pubblicazione sul “Corriere di Sicilia” di recensioni di opere di scrittori europei e alla pubblicazione di racconti brevi inseriti in appendice allo stesso giornale (Charles de Foucauld – eremita del Sahara – apostolo dei Tuareg; La donna e il burattinaio; Via Tornabuoni). Nel 1928 pubblicò “50 lettere d’amore alla signorina Dolly Ferretti” e Thea in “Il Tevere”, nel 1926.

Il 28 agosto 1932 si spense suicida a 41 anni in una camera d’albergo, dopo aver ingerito una notevole quantità di barbiturici, il Veranol.

Proprio in quest’ultimo periodo della sua vita Bruno manifestò un’attenzione particolare per gli ultimi, per gli sfruttati, considerati soltanto pedine da manovrare dai governi passati e da quelli che si stavano imponendo con la forza e con l’intimidazione. Così come ci ricorda Alfio Grasso nella sua biografia del poeta, “Antonio Bruno, letterato e politico” edita nel 2020, c’era in Bruno una tensione ideale che lo portò all’impegno politico, riuscendo nel 1924 a farsi eleggere come consigliere nella lista del padre che in quella occasione venne eletto sindaco di Biancavilla.

Nel 1966, l’allora sindaco di Biancavilla, avvocato Dino Laudani, concesse una tomba dignitosa al poeta, accanto a quella del padre, Alfio Bruno. Nel 1987, ancora sindaco l’avv. Dino Laudani, il prof. Gerardo Sangiorgio curò un’edizione degli scritti del poeta, committente l’amministrazione comunale, dal titolo “Antonio Bruno, Opere”. Nell’anno 2000 l’amministrazione comunale, sindaco Pietro Manna, pubblicò una raccolta di scritti di Bruno a cura di Ermanno e Graziella Scuderi.


[1] Delle traduzioni di Antonio Bruno si è occupato il professor Ermanno Scuderi nel commento ad alcuni testi nel suo “Dal salmista ai Maudits” edito nel 1966.


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