Il “caso Trump” spiegato da Wilhelm Reich ne “Psicologia di massa del fascismo”

di Alfio Pelleriti

Joe Biden si avvicina a grandi passi verso la Casa Bianca per diventare il nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America, spodestando Donald Trump condottiero del populismo e del sovranismo bianco americano, che ad urne ancora aperte si è proclamato vincitore di questa tornata elettorale che ha battuto ogni record di partecipazione popolare. Osservatori e politologi si chiedono come abbia fatto questo tycoon prestato alla politica, ad ottenere un così vasto consenso, non solo tra gli americani, ma in tutto l’Occidente. Perché ha un tale seguito un politico che ha mentito, che ha sbeffeggiato scienziati del calibro di Anthony Fauci, che ha accusato i medici di arricchirsi sui morti di Covid, che ha irriso alle norme di contrasto alla pandemia; che ha evaso da anni le tasse e che si rifiuta di rendere pubblica la sua dichiarazione dei redditi; che ha giustificato le violenze dei suprematisti bianchi e della polizia nei confronti degli afroamericani; che ha annullato il tentativo di fornire ai cittadini americani il diritto alla salute senza alcuna distinzione, rendendo l’assistenza sanitaria pubblica, quindi gratuita.

Donald Trump

In realtà Donald Trump non ha alcun segreto né ha alcuna capacità dialettica capace di creare consenso, né ha un particolare carisma capace di trascinare masse popolari. Egli, come tutti i despoti di ieri e di oggi, ripete soltanto le convinzioni delle masse, incarna gli atteggiamenti più grevi e volgari, è la grancassa dei loro bassi desideri e dei pregiudizi ottusi, ingiusti, amorali. Trump è la cartina di tornasole che ci informa sul livello culturale della società americana, così basso da toccare il fondo.

Per tanti anni, soprattutto negli anni settanta dello scorso secolo, si è mitizzata la cultura americana, la sua letteratura, la sua musica, il cinema, tuttavia come succede in tutti gli innamoramenti, si guarda la realtà percependola secondo schemi fissati nella mente e nel cuore e dunque non si riesce ad avere piena contezza delle caratteristiche vere di quel mondo. Dunque, quando si presenta un guascone come Trump a rappresentare il partito dei repubblicani americani, ci si chiede perché mai sia potuto diventare Presidente. in realtà la società americana, così violenta e razzista, votata al materialismo e al consumismo più sfrenato, non poteva non scegliersi un “tipetto” come Trump come comandante.

Roberto Saviano in questi giorni ha denunziato questa realtà da “terzo mondo” opulento. E voglio sostenere l’analisi sul rapporto tra il fenomeno Trump e la società americana proponendo le tesi di Wilhelm Reich, psicoanalista e sociologo, espresse in un suo lavoro scritto negli anni Trenta e diventato poi famoso e letto in tutto il mondo. Un testo che ancora può svelarci quali forze pulsionali della psicologia delle masse entrano in gioco nelle dinamiche sociali che portano all’affermazione di una dittatura.

   

Wilhelm Reich, Psicologia di massa del fascismo

di Alfio Pelleriti

Nato nel 1897 in Austria e morto negli Stati Uniti nel 1957, medico e psicoanalista, Wilhelm Reich pagò le sue analisi sul totalitarismo e sul nazionalsocialismo in particolare, con l’esilio, lasciando la Germania, dove si era trasferito. Ma non trovò la serenità neanche in terra americana, poiché venne accusato di essere collaterale alla sinistra comunista e quindi fu condannato ad una pena detentiva nel penitenziario di Lewisburg e in carcere ebbe un infarto che gli fu fatale. La sua analisi “sessuo-economica” e “caratteriale” del nazismo risponde ad una domanda fondamentale che, ancora oggi, intellettuali e analisti politici si pongono: com’è possibile che, nonostante i progressi scientifici e i miglioramenti legislativi in campo sociale ed assistenziale, le tesi reazionarie e populiste possano attecchire sulla grande massa della popolazione in determinati contesti storici, tanto da indurre la maggioranza degli individui di certe comunità a sacrificare la propria libertà personale consegnandola nelle mani di un despota? Tutto questo avvenne, ad esempio, negli anni Trenta in molte realtà nazionali, divenendo addirittura caratteristica continentale e globale.

Naturalmente la questione viene affrontata con complicate e sottili argomentazioni che attengono la qualità e profondità culturale di una comunità, la peculiarità del leader, le contingenze economiche sfavorevoli, le insufficienti legislazioni sociali a favore dei ceti più disagiati, la mancanza di politiche in tema di immigrazione, le tensioni sociali tra etnie ecc. ecc.

Wilhelm Reich in questo suo famoso lavoro ribalta totalmente l’impostazione del problema affermando che non è il leader a condizionare le scelte delle masse, al cui interno si pongono individui provenienti da diverse categorie sociali, produttive e culturali, ma è un’esigenza del corpo sociale che, in relazione a determinate caratteristiche psicologiche e quindi, caratteriali, ha bisogno di un capo che lo guidi, che prenda decisioni al posto suo, che segni il solco e indichi le mete da raggiungere. Non è stato Hitler ad aver condizionato le masse tedesche con le sue abilità istrioniche e oratorie. Dice il Nostro: “L’hitlerismo non è relegabile entro i limiti del partito nazista o entro i confini tedeschi; esso compenetra le organizzazioni operaie degli ambienti liberali e democratici. Il fascismo non è un partito politico ma una concezione della vita e un atteggiamento nei confronti dell’uomo, dell’amore e del lavoro”. E ancora: “La struttura personale di Hitler e la storia della sua vita non hanno nessuna importanza per la comprensione del nazionalsocialismo. Tuttavia è interessante notare che l’origine piccolo-borghese delle sue idee coincideva sostanzialmente con le strutture di massa, pronte ad accogliere queste idee.”[1]

Le spiegazioni vanno ricercate, quindi, negli individui costituenti le masse e in particolare nel loro carattere, nella loro percezione della sessualità; e ancora, nella persistenza della famiglia autoritaria patriarcale. Certamente, afferma Reich, una causa importante della tendenza all’autoritarismo e alla ricerca del capo cui affidare la propria esistenza va ricercata nella costrizione morale, religiosa, culturale cui per secoli è stata costretta la donna. Ad essa è stato imposto di svolgere un ruolo di procreatrice e di perpetuazione della specie, della razza, dell’etnia, della nazione e ciò ha comportato l’eliminazione di qualsiasi autonomia esistenziale della donna che, inevitabilmente, ha occupato un ruolo di subalternità all’uomo. Questa condizione, afferma Reich, ha avuto come conseguenza la convinzione profonda, sia negli uomini che nelle donne, in tempi remoti e in quelli più prossimi, che la sessualità della donna fosse meno profonda, meno complicata e in età infantile assente rispetto a quella dell’uomo.[2] Per molto tempo si è teorizzata l’assoluta negazione del piacere sessuale della donna, poiché, qualora provasse piacere, non sarebbe una buona madre né una buona moglie. Insomma la libertà sessuale in generale e tanto meno la libertà di scelta della donna sono state considerate sia dal popolino che dal mondo accademico cause di eversione sociale e pericoli per la tenuta dell’istituto della famiglia.

Tali convinzioni che poggiano su un’ancestrale paura di castrazione e di sovversione di un ordine “naturale” stanno a fondamento di una forma irrazionalistica di misticismo e di religiosità su cui si basa la formazione di una massa ubbidiente e pronta a sublimare tutti i suoi sensi di frustrazione nella venerazione di un capo, lui sì, perfetto, forte, deciso, inattaccabile, pronto a difendere come un padre amorevole i figli, deboli e impauriti. Lui, il capo, ha le idee chiare, indica i valori in cui credere, sintetizzati nei tre pilastri su cui fonda la sua fede politica: “Dio, patria, famiglia”. E se provassimo a ribaltare l’asserzione dovremmo concludere che una società che si basi sulla parità di genere e quindi sulle stesse opportunità lavorative tra uomo e donna, svilupperebbe anticorpi contro il populismo e le dittature.

Il reazionario di ogni coloritura”, afferma Reich, “condanna il piacere sessuale (non senza caderne vittima egli stesso in modo patologico) perché esso lo provoca e allo stesso tempo lo respinge. Egli non riesce a risolvere dentro di sé la contraddizione fra bisogni sessuali e inibizioni moralistiche.”[3]

Già Maria Antonietta Macciocchi, in un suo scritto degli anni Settanta sulla condizione delle donne durante il ventennio fascista affermava che il duce era percepito dalle donne come padre, marito, figlio ideale e dunque egli veniva accettato e adorato non per la forza delle sue argomentazioni ma perché oggetto delle pulsioni emotive delle donne, che, in quel frangente storico, si occuparono di accompagnare i nati nel ventennio dalle culle alle bare.

L’opera di Reich che tiene insieme l’analisi sociale ed economica di Marx e le teorie sulla struttura psichica di Sigmund Freud e di quest’ultimo l’analisi delle energie profonde che determinano il carattere e le scelte dell’individuo, è di estrema attualità, poiché il dibattito internazionale verte oggi sulla tendenza delle varie comunità nazionali a superare le classiche categorie sociologiche per le quali esisteva un rapporto diretto tra situazione economica e appartenenza politica, tra classe sociale e visione ideologica della organizzazione sociale, tra livello di istruzione e scelta conservatrice o progressista. Il tema più trattato oggi dagli osservatori politici è il diffondersi del populismo e del sovranismo, la tendenza o il bisogno, ancora, a distanza di 70/80 anni, di trovare un leader capace di intercettare le ansie, le paure, i desideri delle masse popolari per rielaborarli e trasformarli in slogan e imperativi categorici taumaturgici. Un capo che pensi e parli e agisca come uno del popolo ma che abbia il potere assoluto per far diventare i sogni realtà, per eliminare le paure individuando i nemici e annientandoli, dopo aver loro addossato tutti i mali del mondo.

E man mano che le ansie individuali aumentano per la paura di perdere il lavoro, di non avere abbastanza risorse per soddisfare le esigenze indotte da un consumismo sempre più pervasivo; man mano che la presenza del “diverso” viene avvertita come una minaccia, ecco che gli individui rinunciano alla libertà personale, non si fidano degli esperti, non vogliono pensare o confrontarsi; non vogliono aspettare le “lungaggini” del sistema democratico. Vogliono soltanto confondersi in una massa, acefala ma finalmente appagata, ebbra d’aver dato la stura agli istinti più grevi, alle istanze più becere. Ciò accade ormai in tante parti del mondo, dagli Stati Uniti al Brasile, dalla Russia alla Turchia, dall’Italia all’Ungheria, dall’Inghilterra alla Germania, dalla Polonia ai paesi scandinavi, per rimanere nell’ambito dei paesi occidentali, ma si potrebbero aggiungere tanti altri paesi di altre aree geografiche.

La psicologia di massa si spiega andando oltre l’ideologia o l’istruzione o l’appartenenza a questa o a quella classe sociale. Quel che conta è una personalità strutturata in relazione alla famiglia di nascita, alla qualità degli insegnanti, ai rapporti di gruppo (amici, conoscenti, il parroco, il partner); quel che conta è il proprio vissuto e soprattutto la gestione della sessualità: contrasti e divieti da parte di genitori troppo repressivi o eccessivamente permissivi, fino all’indifferenza; fissazioni in fasi evolutive, rimozioni fallite o sublimate di eventi traumatici per la psiche; potenti difese dell’Io rispetto alle pulsioni libidiche o aggressive; spostamenti dell’attenzione emotiva su soggetti o interessi accettabili per l’Io personale.

In presenza di tali condizioni e di tali esperienze frustranti, l’individuo tende a trovare una soluzione che consenta una diminuzione della sua angoscia esistenziale; la sua ansia permanente non può dargli sicurezze o serenità nelle relazioni sociali e deve quindi trovare una soluzione rapida e indolore per essere accettato dagli altri e far crescere la propria autostima. La via più breve è quella di conformarsi al sentire comune della comunità sociale di cui è pronto ad accettare le idee forti, le credenze, i pregiudizi; ne condivide aspirazioni e desideri e impara a percepirne gli umori e a sentirne le passioni; le sue paure e le sue gioie non saranno quelle maturate in un’esistenza autonoma, libera, personale ma quelle del gruppo d’appartenenza, avvertite come “naturali”, storiche, tradizionali, popolari.

Chi rinuncia alla propria autonomia esistenziale ama il già visto, l’ordine e la sicurezza che per lui sono i comportamenti che si ripetono sempre uguali, perché aborre le novità, specie quelle che vanno contro la consuetudine, il già vissuto dai suoi genitori e dai suoi nonni. Non vuole leggere libri o giornali perché è convinto che tutto ciò che è scritto non sia vero o sia costruito ad arte per mettere nel sacco la “brava gente”. Egli è un conservatore in tutto: non ama le novità nella moda; non è attratto dall’arte in genere ma ama il figurativo nella pittura; i film comici sono la sua passione e irride il cinema d’autore; il teatro lo annoia e la musica leggera melodica è l’unica che ascolta.

Wilhelm Reich

Le tesi di Reich sono state suffragate da Erich Fromm, psicoanalista come lui, formatosi anche lui con Freud, il quale sostiene, per esempio in “Fuga dalla libertà”, che le minacce alla libertà non vanno ricercate soltanto nelle crisi economiche o nelle vicende politiche di epoche passate oppure nell’azione di forze anti democratiche a difesa di privilegi di classe o di etnia o di razza o di confessione religiosa, e nemmeno tali minacce risiedono nelle ideologie totalitarie tipiche dei regimi instauratisi nel corso del XX secolo, che la storia ha definitivamente archiviato.

In realtà, dice Fromm, il bisogno della libertà non è qualcosa di naturale che alberga nel cuore e nella mente, poiché per molti individui c’è la tendenza alla sottomissione al capo come caratteristica naturale. Dunque andrebbero indagate le personalità individuali e le loro psicologie per trovare risposte adeguate alle tante domande sulla libertà come valore universale o su come esso venga percepito e interpretato in certi contesti culturali di questa o di quella epoca, di questo o di quel popolo.

La tesi di Fromm prevede cioè che sia la psicologia sociale la disciplina che deve giustificare le caratteristiche personologiche degli individui, intese come tendenze pulsionali irrazionali che si affermano nella prima infanzia e che determinano poi tipi umani che possono diventare aggressivi o passivi o tendenti alla sottomissione.


[1] W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, Oscar Mondadori, Milano 1974, pag. 47

[2] Vedi a tal proposito le analisi del professor Nicola Pende, accademico dell’Italia fascista, convintamente razzista e strenuo oppositore delle tesi freudiane, secondo cui le giovinette italiane non fanno sogni con contenuto sessuale

[3] Ibidem, pag. 120


2 risposte a "Il “caso Trump” spiegato da Wilhelm Reich ne “Psicologia di massa del fascismo”"

  1. Complimenti per l’articolo e grazie per aver approfondito un autore che non conoscevo.
    Trovo inquietante come la nostra epoca si rispecchi nelle analisi di autori che hanno subito sulla loro pelle il nazismo, vi è come una sinistra corrispondenza.
    Un altro testo che ha descritto in maniera chiara il meccanismo con cui le nuove generazioni rinnegano i principi sacrosanti per cui i loro padri si erano battuti è ‘La ribellione delle masse’ di Ortega y Gasset, non a caso uscito in Spagna pochi anni prima dello scoppio della guerra civile e dell’avvento di Franco.
    Riccardo

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