di Alfio Pelleriti
“Il sorriso dell’ignoto marinaio” è il secondo romanzo di Vincenzo Consolo. Il titolo è riferito al dipinto di Antonello da Messina, custodito nel museo civico di Cefalù, che occupa una parte rilevante all’interno della narrazione. La vicenda si svolge nel 1860 in Sicilia, nei mesi successivi allo sbarco di Garibaldi che determinerà sanguinose sommosse popolari a danno di nobili e borghesi locali prima della liberazione dell’isola dai Borbone.

Il libro fu pubblicato nel 1976, in un contesto storico caratterizzato da radicali cambiamenti e da sordide manovre che misero a rischio la tenuta del sistema democratico. Cambiamenti che interessarono tutte le istituzioni e che segnarono un passaggio epocale nella sensibilità popolare, nei costumi, nella mentalità, nei rapporti tra governanti e governati, nella famiglia e in tanti altri settori.
Come si colloca dunque “Il sorriso” in tale contesto? Cosa può dire al lettore di quegli anni e a noi lettori degli anni Venti del nuovo millennio, un romanzo “storico” sui fatti, già controversi, delle sommosse popolari durante la “dittatura” garibaldina in Sicilia? Cosa può dirci quel sorriso enigmatico ed ironico insieme che punta dritto agli occhi dell’osservatore e sembra denunziare sarcastico e spietato la burbanza e l’inanità di ciascun siciliano?
A vent’anni dalla pubblicazione, nel 1996, uscì una nuova edizione con appendice critica al testo dello stesso autore. L’opera stilisticamente si presenta con un linguaggio aulico pur sembrando, ad un primo assaggio, ibrida con i continui inserimenti di termini dialettali. In effetti del dialetto assume termini arcaici e gergali, ma la struttura sintattica e tutta la costruzione del discorso, oltre che l’impianto narrativo rivelano un’originale ricerca e un’impostazione a tratti poetica, altre volte volutamente barocca e ricercata. Elementi questi che si ritroveranno nel portentoso stupefacente “Retablo”, pubblicato nel 1987 e che personalmente preferisco nonostante “Il sorriso” sia indicato dai critici come il suo capolavoro.
Il romanzo di Consolo si inserisce in una tradizione letteraria che si apre con Verga e De Roberto per continuare con Pirandello, con Tomasi di Lampedusa, con Sciascia. Egli stesso si colloca nell’alveo di quella sicilianità che mette in evidenza una visione pessimistica sul popolo siciliano e sulla sua possibilità di riscatto dopo tanti secoli di assoggettamento all’ignoranza e all’indigenza, rassegnato a subire la tracotanza e l’ottusa violenza dei governanti isolani.
Consolo, osservando da “lontano” gli eventi che hanno interessato la Sicilia (Milano è stata la sua città d’adozione), non si fa certo sedurre da certe tendenze di revisionismo storico tendenti a presentare l’isola come la terra oppressa e vilipesa dai governanti “piemontesi” dopo la raggiunta unità nazionale, tradita dal generale Garibaldi che aveva promesso “libertà” e terra ai picciotti. Anche lui, come già Verga, presenta le insurrezioni popolari come una vendetta cieca dei contadini senza terra (i “bracciali”) nei confronti dei “civili”, dei proprietari terrieri, del notabilato locale. Una violenza fine a se stessa, una esondazione d’odio contro il nemico di classe che i “nullatenenti” avevano invidiato e temuto, nei confronti del quale, di generazione in generazione, si tramandava acredine, rancore, un livore difficile da nascondere, e che adesso esplodeva con una forza ferale, con una soddisfazione orgiastica ad Alcara Li Fusi, a Caronia, a Bronte, a Biancavilla. Di fronte a tali violenze il responsabile militare e politico intervenne sedando duramente le rivolte non guidate né programmate, fuori da ogni strategia politica, semplicemente istintuali.
Nella sua nota critica in appendice al romanzo Consolo accosta la sua produzione a quella di Gadda e di Pasolini, i due scrittori che operarono una vera rivoluzione in campo letterario e culturale in generale, che brillavano di luce propria, non collocandosi in questo o quel filone della tradizione italiana o internazionale; non seguendo le tendenze e le mode del momento (gruppo ’63) che osannavano il modello americano tralasciando qualsiasi altra proposta, anzi bocciandola senza appello (si pensi alla stroncatura del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa da parte di Vittorini, “gran sacerdote” della letteratura americana). Gadda e Pasolini risposero a modo loro alle istanze del loro tempo, alle tensioni sociali e alle forti contraddizioni degli anni della ricostruzione. Ascoltarono la loro coscienza e diedero voce nella forma e nel contenuto a quella realtà povera e arrogante, meschina e velleitaria, provinciale e aristocratica, gretta ma anche capace d’ardimentose imprese presente soprattutto nelle periferie urbane e che guardava ai risultati luminescenti del boom economico senza poterli afferrare. La loro fu una rivoluzione linguistica, per cui l’espressione formale non era semplice materia da plasmare ma parte sostanziale per poter esprimere emozioni, idee, argomentazioni, riflessioni. Con i suoi “idioletti” (definizione di Arbasino) Gadda se ne infischiava della purezza linguistica e faceva strame delle norme linguistiche codificate dalle Accademie. Pasolini, a sua volta, usava termini dialettali, gergali per i suoi “ragazzi di vita” che non conoscevano altro che la violenza come strumento di sopravvivenza. Consolo con il suo romanzo vuole fare emergere non fatti storici, non interpretazioni più o meno revisioniste, ma gli umori profondi di quel tempo che si sono cristallizzati divenendo sostanziali, parte integrante ed essenziale del sentire isolano fino ai nostri giorni. Ecco perché ai due scrittori egli si accosta, dando al lettore una chiave interpretativa al suo “Il sorriso”.
Nelle sue note critiche al romanzo, Consolo non cita Stefano D’Arrigo, l’autore del portentoso Horcinus Horca, eppure non poche sono le caratteristiche che li accomunano. Innanzitutto la ricercatezza e la preziosità della costruzione linguistica; la considerazione della lingua come il giusto viatico per fare risaltare ed esaltare insieme l’umanità dei personaggi che si presentano al lettore così come sono, con limiti, pregi, speranze, cadute e sogni, esperienze e realizzazioni. Anche D’Arrigo come Consolo e come i grandi autori della letteratura siciliana, guarda “da lontano” i protagonisti della loro storia; prova compassione per loro, piange per loro sapendo dei loro inutili tentativi di trasformare gli incubi in sogni estatici; consapevole dell’inanità degli sforzi di un popolo che aspira a raggiungere dignitose condizioni di vita senza dovere temere il futuro.

Antonello da Messina
Quel marinaio sorride e ti guarda come se leggesse in fondo all’anima scoprendo ogni recesso del tuo Io, lasciandoti nudo e senza difese, con i tuoi limiti e le contraddizioni che sono venuti alla luce e non si possono più nascondere. Quel sorriso amaro e senza tempo dice che non esiste alcuna soluzione a tutta la drammatica vicenda di un popolo che è vissuto e vive trascinato “da’ limarra”, anzi “da’ddraunara” della storia. E prende in prestito, a mo’ d’esempio, il 1860, l’anno della rivoluzione e della “libertà” donata ai “bracciali” da “Garibardu”, l’anno del tricolore che avrebbe dovuto portare giustizia finalmente e che registrò semplicemente un cambio di guardia alla guida del Palazzo, mentre il popolo ebbe la “solita” giustizia, quella che già conosceva e di cui portava i segni sulla pelle annerita dal sole, sul viso segnato anzitempo da rughe profonde, nelle ossa ancor giovani ma già ricurve e ingobbite per i giorni infiniti (dall’alba al tramonto) passati a zappare la terra, a scerbare il grano ancor giovane, a mieterlo poi sotto il sole cocente di giugno. E cantava quel popolo, a squarciagola, guardando all’”antu” ancora lontano, per non essere vinto dalla fatica e beveva un vino schifoso che il padrone aveva spillato dalla botte dell’aceto, capace però di spegnere l’arsura e i pensieri più inquietanti. Quelli che dovevano essere ricacciati indietro e inghiottiti insieme all’acidolo vino. Quel tricolore aveva sostituito il giglio borbonico: il nuovo padrone era un borghese arricchito o il massaro, capobastone e mafioso. Erano ancora “più giusti” del barone o del marchese o del principe, tutti falliti e passati in molti a tramare nell’ombra delle consorterie.
Questa realtà triste e ingiusta c’è dietro la lingua usata dallo scrittore, che non è esattamente quella popolare, il dialetto siciliano, né quello della tradizione dei poeti vernacolari o dei cantastorie o dei pupari con le loro “riduzioni” dei poemi di Ariosto e del Tasso. La lingua de “Il sorriso” è una sintesi originale che attinge ad arcaismi e ad idiomi della provincia siciliana; una lingua originale e ricercata che entra fortemente nell’area connotativa della narrazione; diventa essa stessa protagonista della vicenda. Una lingua che nasce e diventa sempre più matura in Consolo, fino a diventare, in Retablo, musicale e aristocratica, nobile seppur barocca, pronta ormai per un grande concerto, poiché Retablo non va semplicemente letto ma dovrebbe essere recitato da un attore che abbia un’anima sensibile alla poesia. Una costruzione linguistica che procede leggera su note che occupano la medietà sulla scala delle tonalità e i cui ritmi sono lievi come quelli richiesti da dolci melodie dove abbondino fioriture d’accenti ma solo soffusi e accennati. In Retablo, pubblicato nel 1987, la lingua risuona e si fa canto e dunque ha bisogno di interpreti adeguati.