di Alfio Pelleriti

Tante le citazioni possibili con le quali si potrebbe iniziare un commento al “Gattopardo”, ma due tra le più famose sono quelle che si riferiscono ad altrettanti temi affrontati nel romanzo. “Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi!” risponde il giovane Tancredi in partenza per andare ad unirsi alle camicie rosse di Garibaldi allo sbigottito Don Fabrizio.
“Tutto questo non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli…; e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra.” Afferma Don Fabrizio, stanco ma lucido, della sua Sicilia rivolto a Chevalley che lo aveva invitato ad accettare la nomina di senatore del nuovo regno d’Italia.
La prima citazione spinge ad un’analisi storica sugli avvenimenti legati alla storia risorgimentale, alla costituzione dello stato unitario e alle tante implicazioni di carattere economico, sociale, politico che lo caratterizzarono. Tomasi di Lampedusa, diretto discendente del protagonista del romanzo, già dalle prime pagine non è tenero con i rappresentanti della classe aristocratica cui appartenevano i suoi avi. A loro imputa arretratezza e povertà della Sicilia e punta il dito accusatore anche sul nuovo potere costituito che si sostituirà ai vecchi governanti ma che nel breve e nel medio termine non risolverà gli atavici problemi isolani. A fine Ottocento si registreranno vere e proprie insurrezioni popolari, i fasci siciliani, sedati nel sangue per ordine di un primo ministro siciliano e che aveva trascorsi garibaldini, Francesco Crispi. Tuttavia avanzare una critica sulla gestione della politica economica e sociale non significa certo aver sposato delle tesi storiografiche reazionarie o revisioniste, anzi, al contrario, lo scrittore rivela obiettività d’analisi scevra da appesantimenti ideologici e da partigianerie consortili.
La seconda citazione rappresenta, a mio avviso, il focus del romanzo. L’autore sembra mettere da parte la narrazione ed entra in scena. Si mette al centro e la grida la sua verità a tutti quei Chevalley che da Nord a Sud e nella stessa sua terra mettono in evidenza ancora una volta in una elencazione diventata stucchevole le grandi risorse dell’isola: il cielo terso, la neve e il fuoco del vulcano, le numerose vestigia storiche, il mare azzurro e il clima mite. Ed evidenzia invece le peculiarità caratteriali dei siciliani: l’arroganza e la supponenza, la tracotanza nel perpetuare ingiustizie a danno dei più deboli, l’inedia e la mancanza di senso civico, il violento individualismo.
Non fa sconti in questa sua cruda e amara analisi; non esclude questo o quel gruppo sociale. Elenca delle debolezze che obiettivamente sono state d’ostacolo ad uno sviluppo economico e sociale della Sicilia nonostante le tante occasioni legislative: dalla cassa del Mezzogiorno, alla riforma agraria degli anni Cinquanta, nonostante la concessione di una forte autonomia amministrativa, che anziché essere volano di sviluppo economico è stata sfruttata dai Sedara di turno per arricchimenti personali o di consorterie e partiti di riferimento.
Detto questo, come non si può non amare questo romanzo. Magistrale nella descrizione degli ambienti da cui vengono fuori magicamente atmosfere e sensazioni che il lettore percepisce come un “déjà vu”, un “déjà connu” e ancora nell’introspezione dei personaggi evidenziandone debolezze e caratteristiche psicologiche. Non pochi sono i momenti in cui la linea di demarcazione tra personaggio e autore si assottiglia e allora Don Fabrizio resta lì come un semplice attore ad occupare la scena, ma a deciderne i movimenti, a spiegarne i moti dell’anima è l’autore che diventa, se ce ne fosse bisogno di dichiararlo, il vero protagonista. Lo è sempre stato, invero, ma nella parte finale del romanzo, tale sostituzione diventa manifesta, man mano che il suo eroe perde energia vitale ma percepisce meglio la realtà che lo aveva visto protagonista. Allora Tomasi diventa un filosofo/scienziato e descrive ciò che avviene nella mente di un uomo che sta per morire. In questo caso l’abilità letteraria dello scrittore supera di una spanna quella di qualsiasi addetto ai lavori in camice bianco, dando una dimostrazione di cosa sia la vita fatta di labilità, di finitudine, di inconsistente affanno riposto negli averi. Allora si mette in evidenza il venir meno dell’energia vitale in un individuo e il perpetuarsi della vita in individui più giovani, destinati anch’essi a lasciare il campo ad altri. Stiamo arrivando alla fine, alla conclusione del romanzo. Al punto in cui, sapete, mia madre avrebbe chiuso il libro e ripostolo lì nell’angolo accanto alla sua Singer, per qualche settimana si sarebbe limitata a guardarlo da lontano e a ripensare ai suoi eroi e alle loro vicissitudini e ad immaginare possibili soluzioni per la conclusione della storia. Un giorno le chiesi se avesse finito il suo libro (amava i romanzi d’appendice, quelli di Carolina Invernizio soprattutto o di Liala) e mi rispose che non voleva arrivare alla fine perché non voleva abbandonare quei personaggi che erano entrati ormai nel suo cuore e nella sua mente. Con loro aveva condiviso gioie e dolori e adesso doveva lasciarli. No! Ancora qualche giorno prima di arrivare alla fine. Quando poi lo riprendeva, man mano che andava avanti, diventava triste.
Don Fabrizio è triste, certo, lo domina il pensiero della morte. Tuttavia non è paura la sua, è angoscia invece, e l’angoscia è tipica degli uomini che vogliono affrontare i problemi e le situazioni difficili, che vogliono vivere tenendo gli occhi spalancati sul reale per coglierne tutti gli aspetti. Don Fabrizio non rimpiange, non si dispera come un qualsiasi Sedara. Lui continua con la sua passione, quella del ricercatore. La novità sta nel fatto che non si avvale del cannocchiale del suo studiolo che punta al cielo alla ricerca di costellazioni e di pianeti. Adesso vuole indagare puntando la sua attenzione su quel suo presente, in quella realtà in cui sta immerso, di cui vuol capire finalmente il senso, e poi guarda dentro il suo cuore per capire se ha vissuto in maniera autentica oppure inseguendo l’effimero ed il vano.
Insomma, Don Fabrizio si comporta da filosofo, anche se ad ostacolare la sua indagine sull’uomo intervengono l’orgoglio atavico d’appartenere alla classe dei potenti, l’irritazione per la vanità e superficialità dei nuovi ricchi, e quindi non possiede quella lucidità mentale, quella necessaria neutralità di cui si avvalgono coloro che aspirano ad accostarsi al Vero. Certo, sono momenti e stati d’animo che in lui si alternano: ora prova compassione per uomini e donne che sono a lui vicino ora, indignato e deluso, vorrebbe sbattere la porta, girare i tacchi e chiudersi ad un mondo che sente sempre più distante.
L’ultimo capitolo di questo straordinario romanzo conferma lo scrittore come meritorio di porsi accanto ai grandi della letteratura mondiale, non solo per la sua scrittura che con giuste e sapienti pennellate riesce a cogliere perfino le sfumature sentimentali o i dubbi esistenziali dei personaggi, ma è da porre tra i grandi della letteratura perché attraverso la storia di una famiglia siciliana riesce ad evidenziare il carattere di un popolo, le sue potenzialità, le frustrazioni, le indolenze, il servilismo, fino a diventare un saggio sull’uomo “tout court”.
Nelle ultime pagine “Il Gattopardo” conduce il lettore a riflettere sul tempo, sulla morte, sul rapporto con Dio, sulla vanità che conduce allo smarrimento dell’autenticità della vita. A Concetta, principessa di Salina, l’autore affida il compito di rappresentare quella vasta umanità che seguendo il proprio orgoglio, i pregiudizi del tempo, il falso e ingannevole senso d’eternità e d’onnipotenza, spreca il proprio tempo e d’improvviso, ecco che si ritrova alla fine della vita, quando la morte bussa alla porta per chiedere ad ognuno il resoconto prima e dopo il conto. Concetta sente forte un senso di vuoto e di solitudine. Una disperante realtà le si presenta innanzi. Tutto vede nella giusta luce e oggetti che erano assurti a simboli di coerenza, idealità e bellezza, presentano il loro vero volto di cose materiali e dunque, dopo tanti anni di sacrale rispetto, vengono buttati nell’immondezzaio.
Man mano che si procede sull’onda amara della disillusione di Concetta, nella mente del lettore emerge una storia parallela, quella presentata dal drammaturgo Tennessee Williams ne “La gatta sul tetto che scotta” e nel film di Richard Brooks del 1958 coi bravissimi Paul Newman ed Elizbeth Taylor e in particolare alla sequenza centrale e drammatica di un padre (un magistrale Burl Ives) che cerca di scuotere il figlio da una forte depressione dovuta alla sua omosessualità, proprio nel giorno in cui apprende che i dolori allo stomaco che gli tolgono il respiro sono dovuti ai morsi di un cancro che non perdona e che lo sta corrodendo ora dopo ora. Trova però la forza di fare a pezzi casse di souvenir, di oggetti costosissimi ma di poco valore artistico acquistati in anni passati ad inseguire il vano, le mode, l’effimero. Sì, il lettore pensa a quella straordinaria e commovente scena madre del film, dove l’approssimarsi della morte fa giustizia delle sovrastrutture a cui spesso gli uomini affidano la loro breve esistenza.
Purtroppo leggo solo adesso questo tuo pezzo, che trovo in assoluto tra i più profondi e commoventi!
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