
di Alfio Pelleriti
E’ uno di quei libri che non mi ha annoiato né mi ha entusiasmato, ma certamente mi ha suscitato la voglia di sottolineare aspetti del romanzo che a me sono parsi deboli e, a tratti, non interessanti, non coinvolgenti.
Leggendo “Conversazione in Sicilia”, dopo i primi capitoli che fanno ben sperare il lettore in un viaggio tra le tante contraddizioni del popolo siciliano presentato in una prosa onesta, forte nella descrizione realistica di una terra sfruttata e vilipesa, essa cede poi il passo ad una voglia di strafare con il realismo più oltranzista, partorito tuttavia da un bisogno tutto teorico e intellettualistico di seguire una tendenza o addirittura con la necessità di sentirsi un “caposcuola”, protagonista d’una rivoluzione culturale cercata e tentata con stilemi che certo non appartengono né alla tradizione italiana, né a quella europea, francese e russa in particolare. La sua sembra una trasposizione della narratologia americana in una realtà che non può accogliere quel sentire, quei moti del cuore e della mente che sono di un popolo, quello americano, che ha vissuto, che vive situazioni sociali, economiche, culturali diverse dalle nostre. Uomini e donne abituati ai grandi spazi, che sono usi a cambiare continuamente luoghi come fossero alla ricerca di una identità che la loro breve storia non ha potuto dare. L’espressività linguistica e formale di un popolo dipende anche dalla sua storia che ciascuno poi declina a sua modo ma con un fondo che è comune.

Uno scrittore siciliano non potrà mai descrivere la natura come il norvegese Hamsun Knut; nè possiamo trovare il “realismo magico” di Gabriel Garcia Marquez nella scrittura impegnata e di denunzia di Aleksandr Isaevič Solženicyn.
Le pagine marcatamente sono allegoriche, il ricorso al discorso diretto esondante e dunque irritante; pagine in cui si piega ad una sensualità “fuori posto” che non seduce né incuriosisce ma invoglia soltanto a smettere di leggere, allontanano Vittorini dai grandi scrittori della letteratura italiana, ponendolo semmai tra i minori e gli sperimentalisti delle avanguardie. Niente a che vedere con i romanzi psicologici d’introspezione o con le narrazioni che elaborano problematiche d’un popolo. Emerge l’esigenza di porsi al centro di un percorso intellettualistico che pretendeva affermare un nuovo modo di narrare secondo un modello americano, cui forse inconsciamente ci si voleva inchinare essendo stati i liberatori dal giogo totalitario, masticando così oltre al chewing gum anche la letteratura d’importazione. Eppure gli scrittori neorealisti fino agli anni Sessanta del secolo scorso sono stati osannati, e Vittorini in particolare, dagli intellettuali “organici” di sinistra, per i quali divennero giganti della letteratura e quindi intoccabili.
Vittorini, autore siciliano che non conserva nulla della tradizione letteraria isolana, vuole essere cosmopolita, “scrittore vate”, in nome di un riscatto italiano sotto l’insegna stavolta della Repubblica parlamentare, avendone tardivamente scoperto i valori dopo la sua lunga militanza fascista.
Fu un caposcuola di quel neorealismo letterario che affidò alla bandiera della lotta partigiana un riscatto morale che non si concretizzò in opere di peso artistico e l’aver adottato il modello americano indusse Vittorini a rifiutare la pubblicazione del capolavoro del suo conterraneo Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, opera culturale a “tutto tondo” che si inseriva, essa sì, all’interno di una produzione siciliana che seppe cogliere negli elementi sociali e psicologici della sicilianità caratteristiche umane universali.
Michel David in “La psicoanalisi nella cultura italiana” afferma che Vittorini era certamente il meno dotato di tutti per l’analisi psicologica, poiché di tale materia ha “nozioni vaghe e approssimative” (451). “Egli scoprì Lawrence di cui tradusse quattro volumi tra il 1933 e il 1938, il quale gli fornì temi, ritmi, immagini corrispondenti alla sua esigenza di vitalità sensuale. L’America gli si presentò allora come enorme serbatoio di barbarie, di feroce purezza” (453)
Dice ancora David: «con “Conversazione in Sicilia” Vittorini scese in polemica contro la letteratura introspettiva e scelse Hemingway contro Proust e Gide. Non più “dice”, pensò” o “ricordò”, ma la rappresentazione oggettiva delle manifestazioni esterne dei personaggi.»