La produttività della politica di pace

Agata Salamone

Ci prendiamo uno spazio su questo blog per riflettere su una questione che da un anno ha messo le nostre coscienze alla prova: siamo contemporanei e co-spaziali di tante guerre che rubano all’umanità le energie e l’attenzione che dovrebbero essere spese per trovare soluzioni cosmiche al problema della sopravvivenza della specie umana, e invece vengono bruciate per moltiplicare il dolore e rendere inutili le fatiche fatte per la conservazione della vita e della pace per gli uomini. C’è un’idea molto comune che circola senza avere alcun fondamento perché è un’idea falsa: che è diritto del più forte affermare la propria supremazia, che le guerre sono inevitabili per realizzare ogni nuovo ordine, nuove gerarchie tra gli stati, che è ammissibile la guerra quando gli altri mezzi della politica non funzionano, che infine in guerra chi si fa ragione e vince sia automaticamente dalla parte del giusto.

L’idea classica che abbiamo di guerra è però ormai antiquata, inattuale, scaduta: non è più un confronto tra duellanti che cercano onore e riconoscimento opponendo le proprie ragioni a quelle del nemico. Il nemico è una costruzione ideologica, viene costruito con la propaganda che per sua natura mistifica la verità. Spesso, anzi sempre, la giustizia non ha a che fare con le leggi, con i codici, con la politica, ma con un ordine superiore di ragionamento che è quello morale che riguarda non una singola porzione di umanità ma che è universale.  Anche il concetto di nemico è un concetto scaduto. A riflettere bene in nessuna guerra moderna le vittime cercate sono state il nemico, le vittime sempre sono stati i civili, e tra i civili i più indifesi, i più deboli, i bambini, le donne, i malati.

A riflettere bene spesso le leggi sostengono ingiustizie: sul piano internazionale si bloccano i processi di sviluppo e di avanzamento civile e culturale di alcuni paesi deboli a vantaggio degli interessi di sfruttamento delle superpotenze, che sono superpotenze perché hanno sfruttato e sciupato   risorse di cui non erano padroni. A riflettere bene le guerre da moltissimo tempo non sono più nemmeno paragonabili a un duello leale dove il più forte acquista la gloria della vittoria, si fa molta fatica a distinguere chi vince e chi perde. Le guerre da oltre un secolo riducono in poltiglia la Terra e gli uomini tutti, vinti e vincitori. La vittoria diventa un fatto burocratico, ma nessuno esce salvo da una guerra quand’anche vince, cioè quand’anche gli avanzano uomini e mezzi quando dall’altra parte uomini e mezzi sono stati esauriti. In quanto è così, ogni guerra moderna è una catastrofe universale, un capovolgimento della logica, una sconfitta della intelligenza umana e della ragione: si fa il contrario di quello che sarebbe logico fare. La produttività di una guerra è distruzione che rende impossibili e inibisce proprio i cambiamenti a cui aspirano entrambi i contendenti; fa collassare la situazione preesistente senza possibilità di ricomposizione, né sul piano politico, né sul piano sociale.

A confronto quello che invece può fare la diplomazia è molto di più: le trattative tra gli stati possono portare a cambiamenti che soddisfano le parti senza aggiungere dolore e patimenti. Il gioco politico implica la collaborazione e l’attenzione di tutti e le soluzioni possono avere un valore più esteso dell’ambito dei contendenti locali. Le soluzioni diplomatiche possono avere un carattere temporaneo, valere come esperimenti, come prove di convivenza, lasciando aperte altre possibilità per altre più eque decisioni. La diplomazia lascia spazio al dinamismo politico che può produrre miglioramenti generali condivisi.  La pace può essere fattore di cambiamento: può rimettere in moto il politico e aprire la possibilità di rottura col passato e avviare dei cambiamenti migliorativi. La guerra invece comporta situazioni irreversibili. “La pace, come processo politico di trasformazione per il massimo dispiegamento di energie politiche e la massima valorizzazione della produttività politica insita nei conflitti può costituire la fonte di una morfogenesi”, cioè di un cambiamento.

Photo by Disha Sheta on Pexels.com

La guerra non è più da molto tempo una strada, è un buco nero, un’azione illusoria, una carneficina inutile, diceva papa Benedetto XV, che pure non conosceva ancora l’atomica. Dopo Hiroshima e Nagasaki il pericolo non è questo o quel popolo, questo o quel governo, ma “il pericolo in cui ci ha cacciato l’evoluzione tecnica, e che nessuno di noi è psicologicamente all’altezza di questa evoluzione” (Gunter Anders). Siamo noi uomini emotivamente e moralmente disorientati davanti ai nostri prodotti. La domanda attuale è to be or not to be. La situazione mondiale è definita dal fatto atomico. Se un barlume di intelligenza ci rimane dovremmo usarla per rivedere il concetto di sovranità che ci illude di chiudere fuori dai confini ogni pericolo e tenere dentro i confini ogni bene. Siamo sempre e per sempre nella situazione apocalittica di chi sa come annientarsi. Ciò vuol dire che la trasformazione dell’uomo auspicabile dovrà essere una trasformazione di coscienza: in coscienza dovremmo provare orrore e repulsione per la guerra, smettere di pensarla come la buona contesa, pensarla invece come il peggiore dei delitti, dovremmo radicarci nel tabù del conflitto armato tra stati. Servirebbe una trasformazione morale, cioè culturale: il diritto sovrano degli stati è un concetto vecchio, antico, ottocentesco, abbiamo preso coscienza di essere in un mondo che un filosofo, Vattimo, definisce “questa  piccola aiuola che è la nostra prigione”. Il concetto di nemico è antico, è una idealizzazione che esternalizza quelle ombre e fantasmi che coltiviamo inconsciamente nella nostra interiorità e che ci fa paura. La guerra inumana e senza scrupoli, ora che il rapporto tra le intenzioni e le azione risulta così spezzato, non è nemmeno ascrivibile alle azioni malvagie, somministra la morte come un qualsiasi processo produttivo, la morte anonima e senza tomba. E non abbiamo ancora capito su quale confine si sta dentro o fuori il pericolo atomico giacché quel confine non esiste.

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