Il Giorno del Ricordo: l’eccidio delle foibe

Alfio Pelleriti

Il 10 febbraio è il Giorno del Ricordo del massacro delle foibe nel territorio istriano e dell’esodo giuliano dalmata.

La tragica vicenda inizia dopo la prima guerra mondiale con l’occupazione italiana di Fiume e si concluderà con il trattato di Parigi del 10 febbraio 1947, con il quale Fiume, Zara, l’Istria e le isole dalmate passarono alla Iugoslavia. Da quel momento iniziò un vero e proprio esodo degli italiani da quelle regioni e Trieste ritornò ad essere italiana il 26 ottobre 1954.

Dalla firma dell’armistizio dell’Italia con le forze alleate dell’8 settembre del 1943 al febbraio del 1947 si consumò la tragedia delle foibe. Durante questi anni almeno 8000 italiani furono vittime delle rappresaglie dei partigiani titini che si diedero a consumare vendette contro gli Italiani, fascisti, ma anche antifascisti e partigiani, accusati di essere anticomunisti o contrari alla politica annessionistica di Tito e 250 mila furono gli Italiani che lasciarono quei territori perdendo le loro proprietà, costretti a vivere da esuli.

Volevano punire i fascisti che avevano cambiato i loro cognomi; punirli per avere impedito agli slavi di usare la loro lingua; perché avevano distrutto case e bruciato interi villaggi per ordine del generale Roatta; per avere subito processi sommari con successive fucilazioni e condanne anche all’ergastolo. Gli Italiani ora dovevano scomparire o morire: carabinieri, poliziotti, finanzieri (97 prelevati nelle caserme e uccisi), ma anche imprenditori, proprietari e soprattutto oppositori di Tito. Legati l’uno all’altro per i polsi, già distrutti per le torture subite, vennero condotti sull’orlo della foiba (fenditure profonde del terreno carsico) di Basovizza o di Opicina o di Obova e lì aspettavano increduli e inebetiti il crepitio freddo e insensato del mitra del boia che colpiva i primi due della fila che cadendo trascinavano con loro tutto il gruppo. 

Sento i volti di quegli uomini e di quelle donne che mi guardano aspettando che dica qualcosa per loro della loro vita spezzata, delle loro urla inascoltate, del loro ultimo sguardo verso il cielo o verso un albero fiorito o semplicemente verso un filo d’erba col suo verde intenso.

Niente volevano perdersi con quell’ultimo sguardo prima che il colpo duro del piombo della pallottola alla nuca li precipitasse nel buio della morte. Ora queste nostre parole non siano false o ipocrite. I loro pianti e le sofferenze furono veri e non fermarono i boia, e caddero, ammonticchiati lì nel fondo del baratro.

Ricordare quei momenti significa provare ad essere lì con loro e piangere disperati perché un’altra orrenda ingiustizia era stata perpetrata sull’altare dell’odio e della vendetta.

L’auspicio è che tale tragedia sia lasciata agli storici e che non sia più brandita come ragione politica o per equipararla ad altre tragedie consumatesi in quel periodo storico, come la Shoah. I giudizi vanno emessi nei confronti dei responsabili ma senza logiche di appartenenza o peggio di propaganda ideologica e politica.


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