Alfio Pelleriti
“Tutto è vanità!”, afferma Qohelet nell’Ecclesiaste, condannando il comportamento dello stolto ma anche quello del sapiente che si affanna, velleitario, a cercare la verità. Grande è la distanza tra Dio e gli uomini e sottile è la differenza tra conoscenza e superbia, tra giusta consapevolezza delle proprie potenzialità e invidia verso il Creatore che tutto sa, tutto dispone nella totale libertà e potenza.

È una visione amara e pessimistica sull’uomo e sul suo destino quella di Qohelet che, dunque, suggerisce agli uomini di prendere atto dei propri limiti, di accettare la condizione inevitabile di “peccatore” e di affidarsi alla grazia di Dio.
Nel nostro presente, alla luce dei drammi e delle speranze vissute durante il XX secolo si potrebbe parlare di vita autentica e di vita inautentica. Con Qohelet possiamo dire che lo stolto è colui che, essendo guidato da una visione egocentrica, assume conseguenti comportamenti che mirano ad esaltare se stesso senza tenere in considerazione gli altri e la loro dignità di persone. Tale vita è da considerarsi inautentica. L’altra scelta è quella del sapiente che tuttavia non si crogiola con la materia che lo appassiona dimenticando il prossimo. Il vero saggio sta nel mondo e alla luce dei valori universali che esaltano la dignità dell’uomo e del Creato tutto, vive di relazioni, apprezza ogni aspetto della vita, difende l’ecosistema e ogni sua creatura, vive conscio della sua finitudine e del suo limite e ritiene che la preghiera di ringraziamento a Dio sia fondamentale e che nutrirsi del Corpo e del Sangue di Gesù con l’assunzione dell’Eucarestia sia fondamentale.

Edith Stein affermava che ogni volta che ci accostiamo all’Eucarestia fortifichiamo lo spirito; assumiamo l’energia necessaria per diventare come Cristo, per assumere l’Amore come condizione inalienabile per la nostra vita. Tale assunto diventa necessariamente ricerca del Vero e del Giusto, con una pratica incessante della Ragione e una difesa forte delle regole etiche e morali.
Sulu ‘u Signuri sapi dari paci
St’aria fridda mi pari nu rasolu
ca ‘a facci, senza pena, mi frinzia,
mi giru a sciarpa comu n’ furriolu
e caminu cu st’arma ca pinia.
Speru d’incuntrari quarchi cunsolu:
n’amicu ca mi dassi curtisia,
n’parenti ca parra e nun duna dolu,
n’politicu senza minzugnaria.
Chiddu ca vidu e ‘ncontru è sdisolu[1]:
megghiu ristari senza cumpagnia
ca ragiunari cu n’ veru fasolu.
Allura, Signuri, vegnu nti Tia
vardu i ta chiaji, cca, di stu pisolu,
e nun scutu a cu fora si sciarria.
[1] desolazione