Alfio Pelleriti

È veramente difficile uscire dalla retorica che dilaga ormai da anni in occasione della ricorrenza dell’attentato al giudice e alla sua scorta a Capaci in cui Giovanni Falcone venne ucciso insieme alla moglie Francesca Morvillo e a tre uomini della scorta. Tutti, anche coloro che sono usi alla trasgressione delle regole o a forzarle e piegarle per interessi privati o di partito o di congrega, tutti hanno in bella vista nei loro studi o nei loro uffici la gigantografia che ritrae i giudici Falcone e Borsellino sorridenti, seduti allo stesso tavolo, mostrando che c’era tra loro empatia, resa solida da una sincera amicizia, da identica abnegazione nel lavoro in difesa delle istituzioni dello Stato.
Si rischia dunque di ripetere le stesse parole di chi oggi come ieri prova attacchi di orticaria quando si parla della Sicilia come terra di mafia; di chi, ieri era contro i due magistrati e oggi ne è diventato il cantore.

Giovanni Falcone è stato un eroe della nostra Italia democratica e repubblicana che è caduto nella lotta intrapresa in difesa dei valori sanciti nella Carta costituzionale. Un eroe che lealmente ha servito lo Stato e le sue leggi svolgendo il suo lavoro senza risparmiarsi, anteponendolo alle esigenze personali, assumendosi tutte le responsabilità legate alla sua funzione di magistrato inquirente e rischiando la propria incolumità fino al sacrificio estremo della vita. Era questo il messaggio che intendeva trasmettere, soprattutto nei suoi incontri con i ragazzi delle scuole: se volete vedere la mafia sconfitta, occorre che tutti voi, fin da ora e in futuro da cittadini, assolviate sempre e fino in fondo il vostro lavoro rispettando le regole, senza mai venire a compromessi per aggirare la legge. Rispettare le regole significa per esempio non evadere le tasse o semplicemente non sostare in doppia fila o sopra il marciapiede.
Trent’anni fa il male, la mafia, uccideva uno dei più intelligenti, onesti, coraggiosi servitori dello Stato, ma il suo messaggio continua ad aleggiare in Sicilia come nel resto d’Italia. Alcuni prestano orecchio e ne raccolgono l’esempio, altri suonano la grancassa della propaganda per perseguire fini diversi rispetto a quelli indicati da Giovanni Falcone e da Paolo Borsellino.
L’attintatuni
di Alfio Pelleriti
– “Pirchì stasira hanu tutti a runna?
Auh! Chi fu? Chi è stu ladiu piu?
Nti si facci leggiu pena funna!
Chi fu, u cani o a jatta ca muriu?”
– “Turi, tu vuoi sempri babbiari
Stasira nun è cosa di schirzari!
Nienti sai veru? E quannu mai!
A Falconi mmazzaru, ora u sai!”
– “Oh, e pirchì su gran spaventu?
Si sapeva già ssa cugnintura:
unu ca pensa di brazzari u ventu
tempu passa, ma poi veni a sa ura!”
– “Ma dicu, a iddu cu ci’u cumannau
o fu u cirvellu ca si ci ppannau?
A guerra a mafia ci vosi dichiarari
e nta nenti a vuleva sdirrignari!”
– “I mafiusi nun si ponnu livari!
Cu principi e burgisi su cumpari,
i ruppa i sciogghiunu ca lupara
e a Capaci ci pripararu a vara.”
– “Ma allura n’avemu a rassignari?
St’assassini n’hanu a cumannari?
È distinu ca n’hanu a supraniari,
cu occhi vasci e muti n’avemu a stari?”
– “‘Ma nannu campau cent’anni pirchì
si fici i fatti so!’ Iu a pensu accussì;
e a mafia havi codici d’onuri
tieni ordini, nuddu sgarra.”, dissi Turi.
– “Poveri morti: Salvatore Carnevale
Pio la Torre, Beppe Montana,
Pippo Fava, Rocco Chinnici,
Dalla Chiesa, Impastato, Livatino,
Gaetano Costa, Accursio Miraglia,
Placido Rizzotto, Emanuele Basile,
Antonio Cassarà, Boris Giuliano…”