di Alfio Pelleriti
Come il vino buono che migliora con gli anni, anche i libri che tengo ordinati nella mia libreria, stagionando, sembra migliorino. Invecchiato dodici anni prendo “Venuto al mondo” di Margaret Mazzantini.
Colpisce subito la sua scrittura per soavità e leggerezza espressiva; sfiora temi importanti come può esserlo il rapporto di una madre con il figlio adolescente, con poche essenziali battute che bastano già per capire l’amore senza limiti per il figlio, all’apparenza insensibile prigioniero di un’inedia totale di cui lui si compiace.

Da due anni ormai scrivo recensioni dei libri che sono stati in casa ad assorbire polvere in attesa che li degnassi d’un po’ d’attenzione. Ed è arrivato il momento del viaggio in quelle storie di uomini e di donne. Ho scoperto che accompagnarsi a quei personaggi che hanno la facoltà di essere carta inchiostrata o di animarsi aleggiando tra i miei muri e poi d’entrarmi dentro e di rendermi felice o di farmi piangere e di sconvolgermi, beh, tale magia ha un prezzo. Devi restare solo e concentrare l’attenzione sulla tua storia, sui tuoi sbagli, sui tuoi incontri, su quanto il caso ha giocato un ruolo decisivo nelle tue scelte; sui tuoi doveri, sulle tue vili ritirate, sul tuo tempo sprecato, sulle tue rughe che cominci ad apprezzare poiché ti aiutano a prendere le distanze dal tuo narcisismo giovanile, che ottunde e ostacola la comprensione del senso che ha avuto la tua vita.
Dicevo che, pagato tale prezzo, allora puoi entrare nel mondo dei libri e patire, gioire, piangere, rivivere antiche emozioni, ma soprattutto capire chi sei. Quelle storie ti aiutano a capire meglio chi sei, a scoprire che anche a settant’anni puoi dare ancora molto alla comunità. E un libro dopo l’altro aggiungi una pagina al racconto della tua vita, soprattutto quando essi sono lunghi. Una buona storia deve essere lunga almeno 500 pagine se vuoi che possa elevarti spiritualmente, se vuoi che diventi una solida basola sulla strada che conduce alla comprensione della realtà.
“Venuto al mondo” ha tali caratteristiche: lette le prime duecento pagine comincio ad entrare in sintonia con Margaret; ormai è la mia amica perché soffro con lei, piango con lei, e la lascio sola quando assapora momenti di felicità con suo figlio, con il suo compagno. Nel libro, in terza di copertina, c’è una foto della scrittrice e spesso avverto la necessità di andarla a guardare per apprezzarne i lineamenti del viso, gli occhi azzurro chiari, profondi, intelligenti, penetranti; le labbra sottili ma evidenti e sensuali; il naso scultoreo, perfetto, che rende l’espressione austera, ironica, aristocratica; pochi capelli neri tirati all’indietro e fermati da un semplice elastico, a darle nobiltà nella semplicità della posa. Una donna bella e affascinante come lei, mi dico, non può non scrivere un romanzo interessante e coinvolgente, e dunque mi immergo nella lettura.

Pagina dopo pagina, aspetto che finisca con le sue descrizioni di ambienti e di azioni della quotidianità con l’uso continuo del presente indicativo che appiattisce la narrazione trasformandola in cronaca. Ma è la giusta preparazione a un viaggio nella ex Iugoslavia, nella Serajevo ch’era stata martoriata durante la guerra serbo-bosniaca.
Mentre Bruno Martino canta le sue stupende canzoni, evocatrici d’una gioventù lontana, leggo “Venuto al mondo” e sto con la Mazzantini per un po’. Non è affatto poco, altro che solitudine, è un vero privilegio. Lei, in questo suo romanzo, senza alcuna titubanza, apre la sua anima donandola alla protagonista, Gemma, disincantata e triste mentre osserva ciò che le accade attorno e le sembra tutto banale e stupido. Si confida col lettore, riempie pagine e pagine senza badare a costruire periodi articolati, eleganti, con rimandi intellettualistici. Una scrittura paratattica hanno i suoi periodi che esprimono, uno dopo l’altro, come in un elenco, fatti, pensieri, umori, sentimenti, adoperando un’amara, sottile ironia. E pian piano succede che sì, anche tu, credi di aver provato quel desiderio di mandare all’aria tutto, di sbattere la porta e andartene, evitando di incontrare falsi sorrisi o sentire ipocriti che tessono gli elogi di se stessi parlando di religione, di politica, di filosofia o pigmei che si credono giganti. E vorresti in qualche modo accostarti a lei, vicino a lei sederti e accendere anche tu una sigaretta, riprendendo a fumare dopo tanti anni, come lei.
Intanto l’accompagno nella sua scelta di separarsi da Fabio, suo marito, per continuare un rapporto con Diego ch’era stato con lei durante un viaggio in Portogallo. È lui che viene a trovarla per riprendere quel rapporto lasciato sospeso e da cui nascerà un amore passionale, adolescenziale, irrazionale. Tuttavia non traspaiono note romantiche piuttosto il rapporto si consuma in incontri dove il sesso diventa il solo collante per due individui fondamentalmente tristi e soli.
Proseguo, ma la mia perplessità continua a persistere e man mano mi allontano dalla vicenda che mi sembra quella di una borghese in crisi d’identità che cerca ostinatamente una realizzazione di vita con un’anima gemella che rappresenta la scelta anarchica e anticonformista, che ha fatto cioè la sua stessa scelta di vita, ma in maniera ancora più radicale (alcool, droga, sciatteria, relativismo intellettuale). Lei ama la vita d’artista, quindi è attratta da quel giovane che vive alla giornata, al di là del bene e del male, guidato più dall’istinto che dalla ragione, che trasgredisce le convenzioni sociali con sottile compiacimento, che gioca a fare il povero indossando jeans comprati in boutique; che ama le moto potenti e rumorose piuttosto che una banale Mercedes o una BMW. Insomma la Mazzantini dà l’impressione di essere un’intellettuale aperta solo alle avanguardie, al brutto che fa tendenza, collocandosi tra le élite chic altoborghesi cui i valori della tradizione popolare fanno venire l’orticaria.
Alla protagonista piace muoversi mettendo avanti i suoi difetti, la sua propensione all’auto dissolvimento; lei è attirata dal buio e, con compiacimento, elenca le sue sconfitte (fallimento del matrimonio, incomunicabilità col figlio, non realizzazione nel lavoro).

Continuo. Sono quasi a metà del libro e non ne posso fare più a meno. Non voglio più andare veloce con la lettura. Voglio avere gli stessi ritmi di Gemma e di Diego. Sono con loro adesso sulla spiaggia acciottolata di Dubrovnik. Gemma soffre, con i suoi sbalzi d’umore; si sente sola col suo desiderio d’essere madre, naufragato dopo tre aborti spontanei, un raschiamento e la sentenza finale del ginecologo che le comunica che non potrà avere figli. È sterile. E ora lì, su quella spiaggia croata incontrano Ante un ragazzino che sta in disparte, solo, solo come lei, che sta immerso nell’acqua per ore cercando d’afferrare i pesci con le mani. È un bambino povero, denutrito, che una mattina, durante la sua “pesca”, all’improvviso viene risucchiato dalle onde di un mare stranamente agitato. Diego si tuffa, annaspa, beve acqua salata, lo salva. E da quel giorno un legame forte lo lega a quel bambino taciturno e povero e Gemma non capisce perché, si lascia andare a pianti improvvisi al pensiero di quel bambino vestito di stracci che vive ogni giorno alla stessa maniera, subendo la vita senza protestare, accettando che la madre lo picchi non potendo dargli da mangiare, sopportando gli scherni degli altri ragazzi che lo usano come un giocattolo rotto cui dedicarsi nei momenti di noia.
Gemma è decisa, lo vuole con sé, lo vuole adottare, piange di gioia per essere uscita da un grigiore opprimente, pesante, e quel bimbo ch’era attento solo ai suoi pesci le fa apprezzare ancora il calore del sole, la meraviglia del mare, le urla impudenti dei gabbiani e piange sorridendo, cercando di dare sfogo a quella felicità che ora le gorgoglia nel cuore, e io come uno stupido piango con lei.
Ma tale sogno non si realizzerà poiché quando è lì sul punto d’afferrarla la felicità essa sfugge, si dilegua. Gemma continua a perseguirlo il suo sogno, quasi spinta da una forza sconosciuta, profonda, che somiglia a quella messa in campo dalla Natura per difendere la Vita, spingendo ogni essere a perpetuare la specie.
Finchè l’imponderabile non entra in questa storia e allora scompare ogni determinazione, ogni riferimento e tutto diviene magmatico e i colori e le sfumature del reale si appiattiscono e si capisce allora il perché Mazzantini ha scelto una scrittura agile e impetuosa, veloce e senza fronzoli. Tale modalità espressiva le serve per un flusso ininterrotto di emozioni, di sentimenti che le inondano l’anima e hanno urgenza di guadagnare la pianura, di uscir fuori e farsi riscaldare un po’ dal sole. Del resto se il tema diventa la morte insensata che colpisce alla cieca come il virus in una pandemia, tutto diventa fluido, tutto si intreccia e assume un identico colore: la guerra che infiamma la ex Jugoslavia dal 1992 al 1995 e che distrugge Sarajevo, i cecchini che ammazzano i passanti intabarrati che stringono un pane per sopravvivere quel giorno; le granate che esplodono improvvise sulla gente in fila al mercato; la ragazza colpita alla testa che stramazza e resta a terra come uno straccio impolverato. Tutta questa insensatezza invade e fagocita i personaggi di questa triste storia e Gemma, Diego, Gojko, diventano Sarajevo, un muro dell’infelice città, un campanile, un tavolo della locanda dove erano soliti mangiare zuppe di pesce.

Sono alla fine ormai e sono sempre più convinto che la Mazzantini ha costruito una storia perfetta all’interno della quale il lettore può muoversi su diverse strade connotative: c’è quella principale di una donna, Gemma, che cerca disperatamente di realizzarsi in un rapporto con un’anima gemella che però si rivela mancante di qualche elemento per lei essenziale; oppure un’altra strada è quella della sovrapposizione di una sofferenza individuale con quella di un popolo, quello serbo-bosniaco, martoriato da una guerra fratricida atroce e violenta, come tutte le guerre civili, nelle quali si smarrisce ogni sicurezza o speranza; c’è la strada che conduce allo smarrimento esistenziale dentro cui precipitano sia Gemma che Diego, il suo compagno fotografo che cerca di fissare col suo obbiettivo elementi del reale che gli sembrano poetici, veri, belli ma che messi insieme formano un mondo che a lui sembra ostile, contraddittorio e ingiusto; c’è infine il tema della maternità voluta, sentita come fosse un bisogno primario ma che si rivela a tratti come la necessità della specie che abita nei recessi più profondi della donna e che condiziona fortemente le sue scelte.
La parte finale in cui, come nelle più classiche delle tragedie, c’è il disvelamento di tutti i quesiti lasciati sapientemente aperti nel corso della narrazione, sviluppata con una tecnica antinarrativa tipica della costruzione cinematografica, senza cioè presentare i fatti con modalità temporale lineare per cui un fatto segue l’altro, con conseguenzialità causa/effetto e secondo un ordine cronologico. Gemma è l’io narrante che corrisponde alla protagonista della storia e che di volta in volta fa ricorso per la sua narrazione ora ad elementi realistici, ora a quelli fluidi delle emozioni forti, ora ad elementi fortemente drammatici dove il tempo si sospende, sfugge ed evapora. Ecco allora l’uso del flashback (ritorno al passato), del flashforward o prolessi (anticipazione di fatti che dovranno accadere nel futuro), del tempo “sospeso” o neutro, in cui protagonista diventa la realtà che domina in maniera assoluta (nel cinema si passerebbe dal dettaglio ai vari piani e campi, fino al campo totale).

Mazzantini rivela una capacità rara di raccontare, dimenticando volutamente l’impianto strutturale dato in precedenza al racconto per darsi senza censure ad un’indagine psicologica della protagonista o ad una autoanalisi dell’autrice medesima, per cui il livello di phatos del narrare sale e il lettore entra in una dimensione altra rispetto al suo presente e avvia un processo di identificazione come se fosse nel buio della sala cinematografica o, in un tramonto estivo, seduto in un gradone del teatro antico di Siracusa ad ascoltare Antigone o Elettra o Edipo; e Gemma non è più lei, diventa tua madre, tua moglie, tua figlia, diventi tu Gemma e, come a teatro, piangi e soffri con lei. E il suo lutto improvviso diventa il mio lutto e piango come se a morire sia stato un mio caro amico, un mio congiunto. No, non si scrive così una recensione a un libro! Sono un po’ labile o semplicemente sto diventando vecchio.
Conoscevo lo stile della Mazzantini per aver letto un suo precedente lavoro, di cui è stato fatto anche un film, e non dico niente di nuovo se le riconosco una grande bravura, ma così come ne parli tu , è tutta un’altra cosa!
È evidente che il romanzo ti abbia conquistato e portato lì con lei, ne hai percepito palpiti e respirato emozioni nei luoghi che tanto la tua sensibilità ha chiaramente acquisito come tuoi.
Niente ti sfugge e niente è tagliato fuori, ti soffermi perfino a studiare dalla foto dell’autrice, i lineamenti che descrivi affascinato.
Ed io leggendo mi lascio trasportare dal tuo temperamento carismatico e vivo con te quei sentimenti che trapelano dalle confessioni sincere , l’introspezione attenta e scrupolosa del proprio vissuto e la sensibilità raggiunta ad alti livelli che si traducono in empatia che già hai dimostrato di comunicare con altri lavori, tipo “I fatti della fera ” di D’Arrigo, che arrivano a toccare nel profondo il cuore di chi legge e ascolta.
Mi piace concludere alla consueta maniera,cioè con tanti complimenti, ma questa volta aggiungo un piccolo rimbrotto, se permetti: si diventa vecchi quando non si ha più nessun interesse, ma questo mi pare non sia il tuo caso…
Ciao, buona serata. Un caro saluto a tutti gli amici del Salotto .
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Anche se con ritardo voglio ringraziarti Santina per il tuo apprezzamento.
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