di Alfio Pelleriti
A quattro anni dal mio pensionamento è d’obbligo tirare le somme sullo stato della scuola italiana dal punto d’osservazione di un insegnante della provincia del profondo Sud.
Tanti cambiamenti hanno interessato l’universo scuola a partire dagli anni Settanta del Novecento, gli ultimi in ordine di tempo che incidono fortemente sul rapporto docente – discente sono contenuti in una legge a cui è stato dato il nome che è già un giudizio di merito, la “buona scuola”, voluta fortemente dall’allora premier Renzi, una scuola nuova, moderna, che apre alla tecnologia. Ogni classe è dotata di una lavagna interattiva, ha un collegamento ad Internet e gli insegnanti sono dotati dei nuovi registri elettronici. Via quegli ingombranti, antiquati, antiestetici registri cartacei! Quel registro era un segno d’identità: ti sentivi sicuro, forte, dispensatore di felicità o di tristezza nei cuori degli adolescenti che ogni giorno giudicavi; te lo stringevi al petto e provavi la stessa sensazione che provava Achille quando indossava la sua armatura prima di affrontare, impavido, il nemico: dava un senso di divina imbattibilità. E dunque, veniva curato, personalizzato con segni particolari che rimandavano a improvvidi comportamenti degli alunni o invece, a partecipazione attiva e diligente in classe. Qualche docente con maniacale perfezionismo, usava attenzione massima nel piegare le pagine, nel segnare linee con la stessa pressione nella penna e con l’ausilio di un righello ben pulito e non troppo lungo tanto che potesse uscir fuori dagli spazi già segnati. Era un po’ come la coperta di Linus, quel vecchio, caro, “registro personale”. Era segno tangibile della tua professionalità. Dal 2016 invece il docente è un re senza il suo scettro.

Questa è la scuola del fare che evidenzia la sua anima rivoluzionaria già ad inizio d’anno quando ogni insegnante decide come programmare la sua azione professionale, con quali contenuti, con quali modalità metodologiche, con quali strumenti didattici, in vista del raggiungimento di quali mete educative. In questa fase il bravo docente che ha accettato entusiasticamente la “buona scuola” è pronto al martirio: riempie pagine su pagine, copia e incolla grafi, schemi, tabelle, dove emergono acronimi, neologismi incomprensibili, inglesismi a iosa; distingue, esaltandosi, micro e macro obiettivi; pretende dagli alunni comportamenti standardizzati “ex ante” “in itinere” ed “ex post”; dichiara che curerà i suoi alunni con interventi didattici personalizzati tenendo conto della situazione di partenza relativa alle conoscenze ed alle abilità ma anche alle caratteristiche psicologiche di ciascuno. E infine col coraggio dei martiri, sceglierà gli argomenti disciplinari da trattare non tanto perché abbiano importanza in sé ma perché strumenti per il raggiungimento di competenze e di abilità e il tutto avendo come orizzonte valoriale “Cittadinanza e Costituzione”.
Il tutto poi va condito con metodologie che prediligano attività meta cognitive o metodologie CLIL, cioè la trattazione di una disciplina non linguistica, come ad esempio la filosofia o la storia o la fisica, non in Italiano (no! Sarebbe troppo banale!”) ma in lingua straniera. E questa performance dovrebbe attuarla un docente non laureato in lingue straniere e neanche un insegnante di madre lingua laureato nella disciplina in questione, ma un docente che abbia frequentato un corso che gli abbia consentito di avere poi una certificazione linguistica. Tale “follia”, criticata aspramente dal presidente dell’Accademia della Crusca, si fa a gara per realizzarla nelle varie scuole italiane, perché diventa segno di cosmopolitismo culturale e non fa niente se poi quei ragazzi che hanno studiato la filosofia in francese o in inglese non sappiano nulla di filosofia e sono un po’ confusi con la lingua francese o inglese, ma hanno però sperimentato il valore della “buona scuola”.

Nella vecchia scuola, cioè nella “cattiva scuola” non si programmava nemmeno, non esisteva il PEI o il POF, né ancora si organizzava il lavoro quotidiano con le UDA. Non era previsto dunque un percorso didattico che includesse la cosiddetta “alternanza scuola-lavoro”. Quest’ultima è un’idea ottima, visto che il completamento di tutto il percorso didattico vuole l’inserimento nel mondo del lavoro. Ma la materia è fin troppo seria per poterla risolvere obbligando i Consigli di classe ad inserire attività per il raggiungimento di tale meta con totale pressapochismo e con un colpevole velleitarismo. Ma i docenti della scuola del “fare”, pur non avendo alcuna preparazione per affrontare siffatta materia, dicono subito si. Sono pronti. Non conoscono il tessuto produttivo del territorio né l’attuale legislazione sul lavoro in generale e sull’imprenditoria giovanile in particolare, ma intanto presentano progetti che svolgono in orario extracurricolare culminanti con prodotti concreti, visibili: filmati da supporto ad improbabili guide turistiche, dove si balbetta in inglese presentando una serie di diapositive power point; qualche gruppo impara come si confeziona la marmellata di arance o di prugne.
Sarebbe importante che gli alunni dimostrino di possedere conoscenze, soprattutto sulle caratteristiche culturali del XX secolo; che abbiano solide capacità critiche in grado, dunque, di individuare analogie tra i vari aspetti che connotano un’epoca. Dovrebbero possedere buone capacità espressive ed espositive, e una maturità complessiva che li renda capaci di intraprendere gli studi specifici per praticare una professione o per avviare con successo una intrapresa economica.
Allora, al di là di quanto indichino le teste d’uovo del Ministero, occorre che ciascun docente faccia i conti con la propria coscienza professionale per mettere in campo tutte le risorse a sua disposizione per trasmettere ai ragazzi innanzi tutto i saperi fondamentali delle discipline curricolari, curando la formazione di abilità permanenti nella scrittura, nella espressione orale, nella lettura, strutturando capacità di analisi e di sintesi apprezzabili.

È auspicabile che i docenti siano orgogliosi di esercitare una delle professioni più nobili, che siano consapevoli della responsabilità che si assumono nell’istruzione e formazione delle giovani generazioni; che contribuiscano ad educare i ragazzi alla difesa dei valori universali della nostra millenaria cultura; perché possano prendere il testimone dell’impegno civico permanente per il trionfo della democrazia, della solidarietà, della giustizia.
Afferma Umberto Galimberti: Sono persuaso che compito della scuola fino a 18 anni è avere come obbiettivo la formazione dell’uomo prima delle sue competenze, comprese quelle digitali che gli studenti già conoscono meglio dei loro professori. Ma la scuola italiana non è mai stata pensata per l’educazione dei giovani, ma fondamentalmente come creazione di posti di occupazione per insegnanti, senza preoccuparsi se, oltre alla loro preparazione non sempre garantita, gli insegnanti avessero una vera motivazione e predisposizione a questa professione, fossero davvero capaci di comunicare, di interessare, di affascinare, cosa che è facilmente verificabile con un test di personalità. E inoltre, avessero conoscenze approfondite di psicologia dell’età evolutiva, dal momento che hanno a che fare con ragazzi che si trovano in quella stagione incerta della loro vita che si chiama adolescenza. Qui passa la differenza tra “istruzione”, che è pura trasmissione di contenuti culturali, ed “educazione” che si prende cura delle differenze di intelligenza di ciascuno studente e delle vicissitudini emotivo-sentimentali che inquietano il loro cuore. Già Platone avvertiva che la mente non si apre se prima non si è aperto il cuore.
U. Galimberti, La Repubblica, 10 ottobre 2020