di Riccardo Ricceri
Essendo arrivato a Camilleri tramite il Montalbano televisivo (come credo quasi tutti), confesso di aver sempre nutrito una certa insofferenza per l’universo vigatese del piccolo schermo. Trovo un po’ ipocrita la descrizione di un mondo fortemente caratterizzato da elementi tradizionali (lingua, città, paesaggi), ma ripulito da quel predominio mafioso che connota tristemente l’intera isola. Una descrizione patinata e stereotipata buona solo per i turisti, insomma.

Sennonché, lo scorso Natale mi capita tra le mani Il birraio di Preston nell’inconfondibile edizione Sellerio e, un po’ per curiosità, un po’ per sfida con l’autore, decido di leggerlo: da subito comprendo che il mio giudizio era stato, se non del tutto errato, quantomeno avventato.
L’opera, agile e a tratti spassosa, appartiene al filone dei romanzi di ambientazione storica, e vede la luce nel ’95. Periodo cruciale per Camilleri, che proprio in quegli anni dismetterà i prestigiosi panni dell’uomo di teatro, che lo avevano visto regista in molte produzioni Rai e insegnante all’Accademia nazionale d’arte drammatica, per indossare definitivamente quelli dello scrittore di successo.
Mi sembra più appropriato parlare di “ambientazione storica” più che di “romanzo storico” perché qui non è il passato in quanto tale il vero protagonista, quanto un presente “mascherato” da passato. Il nucleo storico della vicenda esiste ed è reale, ovvero i misteriosi tumulti che seguirono l’inaugurazione del nuovo Teatro Margherita di Caltanissetta (qui camuffata in Vigàta) nel 1875, con la piéce teatrale Il birraio di Preston del poco noto Luigi Ricci. Ma tale nucleo storico funge solo da spunto, da sostegno, oserei dire da pretesto per la narrazione.
Ancora, del romanzo storico manca quel rigore che emana dalla verità dei fatti. Anzi, i fatti sono abilmente ritorti e riscritti, ribaltando verità acquisite, onori e meriti, in un gioco di maschere, o scatole cinesi, dietro le quali Camilleri si diverte a camuffare le verità, consegnandoci solo precarie apparenze. “Il lavoro dello storico è tutto un imbroglio, un’impostura” sembra dirci l’autore riprendendo le parole di quel mirabile impostore che fu l’abate Vella narrato da Sciascia. E’ una metafisica di squisita matrice teatrale, degna erede della tradizione pirandelliana, che riporta alla mente la misteriosa moglie del signor Ponza in Così è (se vi pare), quando nel finale declama “io sono colei che mi si crede!”, gettando nello sconcerto gli astanti. Come in Pirandello, anche qui il teatro si fa metafora metaletteraria della vita stessa, e della vita siciliana in particolare, gioco di falsità intrecciate, di scambi, di equivoci e rimandi:
“E nasceva magari il dubbio che tutto quello scangia scangia fosse un finto scangia scangia, che non c’era stato nessun errore, che lo scangiamento era stato solamente un alibi, addirittura un vezzo. E allora di che cosa poteva ridere per uno scangio più finto di quelli finti, gente che al contrario nello scangio quotidiano viveva?”
Anche l’impianto narrativo, disposto in ordine non cronologico, volutamente confonde e depista: fra flashback e flashforward si vive una costante dissincronia che rifrange lo svolgimento dei fatti e li proietta in una vasta zona d’ombra:
“quando il bianco sta vicino vicino al nìvuro fino a toccarlo, si forma, tra i due colori, una linea media, una linea d’ùmmira, dove il bianco non è più bianco e il nìvuro non è più nìvuro. […] E dentro quella linea, dove due colori maritandosi ne hanno figliato un terzo, ogni cosa è difficile che trovi nome e figura di netta visione”.
E in questa linea d’ombra, ecco muoversi i veri artefici della storia, figure intermedie (o intermediarie), anfibie come il luogo che le ospita. Su tutte si stagliano lo “zu Memè” e Gaetanino Sparma, “il cosiddetto campiere dell’onorevole Fiannaca” (che rimanda, credo involontariamente, al cosiddetto “stalliere” di quel Cavaliere che proprio in quegli anni scendeva in campo). Di entrambi è descritta con esattezza la ritualità dei gesti, delle espressioni, la meticolosità spietata con cui esercitano il potere del ricatto, del debito, del favore. Non occorre che l’autore ce li etichetti come mafiosi per capire come il loro operato e la loro psicologia rappresentino il senso più originario della parola mafia. E’ quella “politica” capace di intrecciarsi alle istituzioni, fino a fondersi in un grigio indistinto, grazie alla capacità di dirottare consensi, di piegare gli eventi, di imporre servigi e pretendere vantaggi. Di essa si dipinge inoltre il fertile humus che l’ha prodotta, quel ceto intermedio di falsi borghesi che erano i gabelloti, ben descritti dallo storico Rosario Romeo:
“[essi](ndr.) non agirono come veri imprenditori agricoli, […] ma si limitarono a lucrare sulla differenza tra il fitto pagato ai proprietari e i fitti riscossi dai subaffittuari […] servendosi dei diritti feudali preesistenti, del vincolismo economico, della povertà di mezzi del contadino, per togliergli la parte più grossa del frutto del suo lavoro”[1].
Falsi borghesi, appunto, che, lungi dal promuovere una cultura cittadina liberale o dall’appoggiare modelli economici innovativi, come avvenne in altre parti d’Italia, perpetrarono il vecchio assetto di potere: così come la nobiltà usurpò il potere regio[2], limitandosi spesso a uno sfruttamento spietato di uomini e terre, così i gabelloti lucrarono sul potere nobiliare, spesso parassitandolo fino a condurlo alla rovina.
A far da contraltare a questo corrotto sistema sociale, troviamo la complicità delle istituzioni “piemontesi”, fragili e ricattabili, prive degli anticorpi necessari per difendersi: ancora una volta, l’immagine fedele di un’attualità amara. Unica eccezione è il capo della Polizia locale, il delegato Puglisi, vero e proprio antesignano del commissario Montalbano, la cui onestà tuttavia si staglia solitaria sul buio circostante, flebile fiammella già pronta a spegnersi.
Lontano dunque dai clamori del linguaggio d’inchiesta, e con una lucidità che le trasposizioni televisive non lasciano immaginare, Camilleri non sfugge al confronto col problema mafioso, anzi punta dritto alla radice del male, ovvero a quelle contorte dinamiche psicologiche e sociali che ne hanno permesso, e ne permettono tuttora, lo sviluppo e il successo.
[1] Romeo R., Il Risorgimento in Sicilia, Laterza, Bari 1950, p. 28.
[2] “egli è a tutti manifesto – scrive lo Scinà (Storia letteraria, vol III) – che in quella stagione in Palermo non si parlava che di diritti usurpati alla corona da’baroni, e di mulini e di fiumi, e salti di acqua, ed ovunque risuonavano le voci de’ fiscali”. Vicenda ben espressa dall’impostura dell’abate Vella raccontata dallo Scinà stesso (op. cit., vol III) e dal Pitrè (La vita in Palermo, vol II), e magistralmente ripresa da Sciascia ne Il Consiglio d’Egitto.
Leggo sempre con piacere gli interventi di Riccardo e ogni volta vi trovo sapienza, perizia espressiva ed eleganza nel costruire il discorso. Avviene quando scrive di filosofia o di psicologia o quando propone delle interessanti rivisitazioni storiche o delle analisi sulla situazione sociale, politica ed economica della nostra isola e di Biancavilla in particolare.
Quest’ultimo suo intervento è una recensione su una delle più riuscite storie di Camilleri, Il birraio di Preston.
Il taglio che Riccardo ha dato alla recensione lo condivido in pieno, poiché non rimane dentro i confini del racconto e non si limita ad enucleare le specifiche caratteristiche di Camilleri, ma va oltre, inserendo riflessioni storiche e sociali sulla realtà siciliana e in particolare sul problema della mafia. La recensione è un esempio di scrittura “leggera”, dove non si ostenta il termine ricercato o la citazione dotta o continui rimandi ad illustri sebbene sconosciuti accademici.
Se si potesse tornare indietro nel tempo, quando di Riccardo avevo davanti il compito scritto d’italiano da correggere, a questa sua recensione metterei lo stesso voto che mettevo allora, un dieci.
Alfio Pelleriti
"Mi piace""Mi piace"
Grazie mille prof! 🙂
"Mi piace""Mi piace"