di Agata Salamone

Antonio Castelli nacque a Castelbuono, in provincia di Palermo, nel 1923. Compiuti gli studi classici a Cefalù, si laureò in giurisprudenza a Palermo e nel giugno del ’52 venne assunto alla Regione Siciliana avendo superato un pubblico concorso (si licenzierà trascorsi pochi mesi). Dopo aver collaborato al «Mondo» di Pannunzio ed al «Caffè» di Vicari, nel 1962 pubblicò il suo primo volume, Gli ombelichi tenui, nella collana “Narratori” della Lerici. Nel 1967, per i tipi della Vallecchi, vide la luce Entromondo, seconda ed ultima opera pubblicata in vita da Castelli, se si eccettua il volume selleriano Passi a piedi passi a memoria del 1985, che è un florilegio dei primi due. Nel febbraio del 1986 Castelli ricevette la cittadinanza onoraria di Cefalù, sua seconda “culla”. Lo scrittore è morto tragicamente precipitando nella tromba di una scala nel 1988 a Palermo, città nella quale risiedeva da molti anni. La pubblicazione, per i tipi della casa editrice Sciascia e a cura di Giuseppe Saja, dell’Opera omnia dell’intellettuale castelbuonese, autore tanto schivo quanto esigente con la propria scrittura, ha consentito di far conoscere e apprezzare (tra materiali editi, inediti e dispersi) non solo le sue prose brevi e i suoi personaggi-caratteri non stereotipati, ma anche il magistero della sua lingua e del suo stile, che deflagravano spesso in un’allusiva ma sempre fine ironia. Qualche esempio:
«..È il primo del mondo, per vastità, e non il terzo, il palcoscenico del Teatro Massimo, se misurato com’è giusto e doveroso che si misuri, dalla ribalta, praticamente alla soprintendenza».
«…Il tempo medica ogni cosa… In forza di questa carismatica, incruenta filosofia della viltà, gettiamo via la nostra cassetta di pronto soccorso. E le ferite incancreniscono, nell’anima»
“…Quella passione ustoria della musica per cui il resto è parola”
“ (riferito ai lavoratori della terra siciliani) …a ‘deportarsi’ in Germania per vivere e far vivere i familiari con le ‘rimesse”.
Se si volessero rapidamente enucleare i temi principali presenti nella narrativa di Castelli non potremmo dimenticare la morte e l’annullamento della civiltà contadina, la condanna dell’uniformazione dei costumi prodotta dalla civiltà industriale, l’omologazione linguistica e la resistenza da parte della lingua letteraria, sempre più minacciata dall’insignificanza, dalla referenzialità banale.
C’è una seconda anima, neanche tanto nascosta, nella scrittura di Castelli: quella del ‘polemista’ accorto, tagliente, commosso e indignato, partecipe e razionale. Castelli testimonia il crollo di un’intera civiltà, di cui voleva contribuire a salvare quantomeno il ricordo ‘materiale’ «a futura memoria», per dirla con il suo fraterno amico ed estimatore Leonardo Sciascia. C’è anche una vena sperimentale, testimoniata dal testo teatrale del 1969 incompiuto, ma ora ricostruito, La condizione accordale. Mono-melo-mimo-dramma di uomini e cose, breve opera da musicare, che dimostra la simpatia di Castelli verso le novità più interessanti del panorama culturale di quegli anni, ed in particolare verso la cosiddetta “Scuola di Palermo” di Testa, Di Marco e Perriera; quest’ultimo autore, ne La spola infinita, dà uno dei ricordi più struggenti e densi dell’intellettuale madonita. Castelli fu autore apprezzato da scrittori, intellettuali e critici come Romano Bilenchi, Mario Luzi, Geno Pampaloni, Ennio Flaiano, Vincenzo Consolo, ovviamente Sciascia, e altri ancora.
Profetico circa la questione del rapporto dell’uomo con l’ambiente.
La vedova Liana Di Pace ha donato al Comune di Castelbuono la casa e il giardino già proprietà del marito, simbolicamente un auspicio a non abbandonare l’agricoltura e le sue tradizioni in omaggio ai princìpi che Antonio Castelli aveva sostenuto con le proprie scritture letterarie e con le stesse scelte di vita.
(tratto da pubblicazioni varie)

Scritture e scrittori da scoprire.
“I bambini sono di tutti. Anche gli uccelli sono di tutti, e hanno pure essi il padre e la madre. La loro attitudine naturale è il volo, perciò appartengono al cielo. La letizia è l’attitudine naturale dei bambini, perciò essi appartengono all’umanità.” Antonio Castelli.
Comincio da questa citazione perché mi sembra la più appropriata per me, adesso. E’ un mistero come accadano certe strane coincidenze tra esperienze e incontri casuali che si combinano armonicamente, combaciano, con un nostro pensiero o con un fatto contemporaneo. A volte si tratta di un libro: ci accorgiamo che quello che stiamo leggendo ribadisce proprio una frase appena sentita o un pensiero appena sopravvenuto. Allora sembra che non è quello che leggiamo che provoca un nostro sentimento, ma piuttosto che, nelle circostanze e nelle congiunture del momento, quella lettura, proprio quella, ci sia venuta incontro. È qualcosa che mi capita in questi tempi così fecondi sul piano emozionale.
Quello del distanziamento sociale è diventato tempo di letture forsennate, ed è consolante trovare scrittori che hanno saputo narrare la lontananza in modi belli e chiari. Lontananza dai luoghi, dai tempi della “normalità”. E mi capita coi libri quello che mi capita in cucina, quando faccio sposare i rimasugli di ingredienti che casualmente si trovano nel frigo per desiderio di un gusto nuovo e anche per pura economia. Così incrocio le letture. Ho letto contemporaneamente il nostro Antonio Castelli e un autore nigeriano di nome Chinua Achebe, entrambi a me prima sconosciuti (…la mia fortuna è che il numero delle cose che non conosco è ben maggiore di quelle che conosco e potrò avere da leggere e da imparare finché campo). In contesti lontanissimi e separati ho trovato le parole per dire l’esilio, l’esilio da un mondo scomparso, il dolore della distanza infinita che in un attimo si è allungata tra la vita normale di prima e lo stravolgimento doloroso di poi: Castelli nel suo sicilianissimo mondo contadino e paesano che tramonta, appartato rispetto al mondo urbano della modernità, e Achebe nella sua Africa nera dei villaggi e delle loro tradizioni tribali che improvvisamente si trovano ad avere un ospite inatteso che li assoggetta esportando in quelle terre la strada e con la strada la “civilizzazione” forzata e violenta. Mondi che scompaiono, uomini e donne che vivono in trasparenza tra l’essere e il non essere più. La vena nostalgica però non è dominante, tutt’altro. In entrambi invece tanta tanta ironia, addirittura tanto umorismo nel senso pirandelliano del termine. Così che si smaglia ogni tentazione di assolutizzare, di ideologizzare un solo stato di mondo sui tanti che sono possibili nella danza degli stati di mondo che cambiano.
L’habitat di Il crollo di Achebe, del 1958, è la Nigeria precoloniale, illuminato da un punto di vista africano, un mondo che aveva una vita dignitosa, una morale ben regolata, una filosofia che l’autore recupera alla memoria col desiderio di darsi fiducia malgrado la denigrazione che proveniva dal punto di vista occidentale. Chinua Achebe, africano istruito, che ha studiato in Inghilterra, uomo di due mondi, è sempre a disagio (“Ormai a disagio” uno dei suoi titoli) anche quanto torna a casa (..ma cosa è tornare? E cosa è partire?). La narrazione è diventata un dovere civile, un compito di testimonianza dell’accaduto. Nelle sue pagine un vero documento storico, ma anche umano, segnato dalla tragedia del crollo, ma trattato con ironia per prendere la giusta distanza dai valori tradizionali della “razza eroica” a cui personaggi come Ezeulu o Okonkwo sentono di appartenere. In questo mondo arriva la corruzione e l’avidità.
L’habitat dell’umanità di Antonio Castelli, è Castelbuono, il paese meglio amministrato della Sicilia secondo la recente guida turistica di Caterina Messina che ho letto recentemente. Del paese conosciamo il circolo dei civili o di compagnia, e la sua fauna: personaggi tipici che frequentano il bar e/o la sala di biliardo, microcosmo dell’umanità tutta, con le sue debolezze e le sue cattiverie: “paese come cosmo” – dice lo stesso Castelli. Nell’incipit di Ombelichi tenui, edizione del ‘62 di cui ho trovato una rara copia nella biblioteca Pozzoli di Lecco, si disegna il quadretto: “Alla sommità della montagna, sopra un largo mammellone rugoso, sta arroccato il paese. Un fitto reticolo di case basse e tozze, di tufo, livide, tumefatte dall’umidità, che la calce tiene appena unite con il suo midollo decrepito. Nei mesi freddi la vita si rapprende, quasi agonizza, svenata dal cielo e dalla tramontana. Gli uomini, quelli che possono scamparla, vanno a svernare al bar o al circolo dei civili. Tutti e due sul Corso, a pochi metri l’uno dall’altro, essi sono i pochi luoghi del paese che consentono di durare sino all’estate, di sopravvivere, forse.”
Castelli non è però un impressionista, è più un filosofo, e dalle sue metafore ricava un surplus di significato che richiede un surplus di attenzione.
“…il biliardo sembra la carcassa di un mammifero remotissimo, catturato chissà dove, in un tempo che è antico e tuttavia presente, in quell’età della provincia in cui il sentimento del gioire e del patire insieme conserva ancora un lievito schietto come il pane di casa, appunto, di provincia.”
“…il circolo si anima, raggiunge il plenum di sera, dopo cena. I soci, allora, allineati quasi di fronte al decano della sforbiciata, che siederà fuori riga, riprenderanno con disteso agio, e concluderanno, gli argomenti soltanto accennati prima, nel pomeriggio. (Chi darà conto del numero dei colonnelli a riposo esistenti nel paese – un ossario di colonnelli! – numero che lampantemente risulterà sproporzionato rispetto alla popolazione, così poco combattiva, se si eccettuino i preti; chi tratterà di alcune signore, non ancora vedove e già allegre…). Così anche per i soci del circolo dei civili è suonata la mezzanotte; tutti, ora, abbastanza alleggeriti, volentieri andrebbero a casa; ma nessuno di essi, a quel grado di accumulazione e di spremitura, prende l’iniziativa, nessuno da solo ce la fa ad andarsene; perché sa che, come capitò ad altri i quali, andati via imprudentemente, lasciarono che al circolo venisse “letta” la loro vita da quelli rimastivi, con puntuale diligenza, fino al giorno precedente; e anche a lui, nella sua assenza, toccherà la stessa sorte.”
L’oggetto principale dei suoi strali è “il circolo” e, per come lo sento io, il monolitico maschilismo che ne esonda come lava da un vulcano, seppellendo tutte le opinioni più miti e pietrificando la “cultura” del posto.
“Un grande salone, con un anello di poltrone e divani d’un vivido rosso cardinale, grandi specchi alle pareti, un tavolo di mogano, il giornale del mattino, qualche rotocalco e i pettegolezzi del paese, possono restituire molto schiettamente, un’immagine netta di qualsiasi circolo di compagnia che si rispetti. …..
.. P. arriva prestissimo al circolo, veste doppiopetto di lana, cappotto molto spesso, a cinque centimetri sul livello dei piedi, il basco, la sciarpa di lana, i guanti. Starà immobile e parlerà poco, eccetto per le discussioni politiche….. Abbondantemente nostalgico, e scettico sull’avvenire del mondo; dipendesse da lui, guerrafondaio com’è, nonostante si renda conto della scomodità di una tale posizione, i conflitti mondiali si farebbero con lo stesso ritmo dei campionati di calcio.” …. “La sera lasciare il circolo è un affare grosso per lui; indugia prima, saltellando e sfregandosi, nell’ingresso, poi fa rapide sortite sotto i portici per tastare l’aria, e, rassegnato, finalmente si decide per la traversata; che è assai agitata per quel tratto di corso, una specie di estuario ventoso, che deve necessariamente percorrere prima di imboccare la sua stradina. Ma appena l’ha guadagnata, procede alacremente, rasentando i muri delle case.”
Ci sono pagine esilaranti. Sentite:
“…Al funerale del paese:
“Povero Morelli, s’è liberato, finalmente, soffriva da tanto tempo.”
“Aveva cinquantasette anni.”
“Sono rimaste la vedova e la sorella, malaticcia.”
“Come camperanno?”
“Forse andranno col fratello, a Roma.”
“ Lui può aiutarle, ha un ottimo impiego.”
“Brava persona, il fratello.”
“Cornuto.”
La seconda parte del suo primo libro (fu pubblicato nuovamente con delle aggiunte per la casa editrice Sellerio con il titolo “Passi a piedi e passi a memoria”) è composto da una serie di frammenti, alcuni brevissimi, che hanno un ritmo e una andatura stravagante come nuvole al vento, ma sorprendenti. I suoi “bozzetti”, i suoi “caratteri” visivamente rimandavano a quelle incisioni di Coco che su Piazza grande Alfio Pelleriti ha letto e commentato. Bozzetti e frammenti in una scrittura laica, antilirica, che non indulge, non indulge. Rinuncia anche alle narrazioni che si concludono, alla parola ornata, gonfia, che tanto piaceva a Bufalino. Castelli scrittore è personaggio dolente, tormentato dalle incomprensioni e provato da tante avverse vicissitudini letterarie. Consolo scrisse che meritava un giusto riconoscimento per essere “uno scrittore vero, appartato, sciolto da qualsiasi legame con quella industria culturale che dal Nord del nostro Paese, faceva sentire tutto il suo potere aggressivo e discriminante”.
Castelli si suicidò lanciandosi dalla tromba di una scala, a Palermo.
Scrisse Castelli in una delle ultime prose non pubblicate in vita: «Più che di paura della morte (la mia ventiquattr’ore per la morte è pronta da tempo) io soffro di una sindrome – come dire? – della cancellazione…»”. In quei fatidici anni ottanta qualche anno prima con la stessa modalità era scomparso Primo Levi che si era caricato di chissà quali angosce invivibili.
Resistere alla cancellazione e al nulla che avanza come nella “Storia infinita”. Anche per Castelli scrivere è resistenza, compito civile, testimonianza. E per noi lo è leggere.
Ti ringrazio, carissima Agata, di avermi dato l’onore di pubblicare sul nostro sito il tuo articolo su Antonio Castelli, uno scrittore che ci hai presentato con la tua garbata lieve profonda scrittura.
La tua recensione, meritoria d’essere pubblicata su una blasonata rivista letteraria o, senza volerti blandire, su un quotidiano a tiratura nazionale, ci consente di apprezzare il conterraneo scrittore già prima di avere tra le mani un suo libro.
La tua voglia inesausta di nutrirti di letture, accorciando il tempo dedicato ponendoti all’attenzione più testi contemporaneamente è un’esperienza che capisco e apprezzo, poiché anch’io sento tale “sacro fuoco” di farmi “attraversare” dalle storie altrui, dal vissuto profondo degli scrittori di qualità, che abbiano o no ricevuto l’alloro dai posteri.
La tua collaborazione, sempre gradita, contribuisce non poco allo scopo che fin dalla sua nascita “Piazza Grande” si è dato: allargare l’orizzonte culturale di riferimento oltre i confini spazio temporali della nostra comunità locale per poter cogliere i principi fondamentali che hanno mosso e muovono gli uomini verso una loro piena realizzazione.
Alfio Pelleriti
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Ho letto la dotta e profonda recensione della prof.ssa Agata Salamone sullo scrittore Antonio Castelli e mi hanno colpito le sue parole a proposito dei bambini.
“I bambini sono di tutti.
Anche gli uccelli sono di tutti…
La letizia è…dei bambini, perciò essi appartengono all’umanità.
E come dice la nostra prof.ssa “a volte le cose che leggiamo ribadiscono il nostro pensiero appena sopravvenuto”.
Infatti mi ricollegavo al 1954 quando dall’ONU vennero stabiliti “I 10 diritti fondamentali dei bambini” per ricordare all’umanità che questo essere indifeso ha dei diritti che devono essere riconosciuti e rispettati da tutti. Questa citazione si ricollega al pensiero del nostro scrittore quando afferma che “i bambini appartengono all’umanità” da cui traspare un animo sensibile, avveduto e responsabile verso i più deboli per cui deve tradursi in un incitamento a tutti di prendersi cura di loro per garantire una esistenza dignitosa.
Einstein diceva: “Non ci saranno grandi progressi fino a quando ci sarà un bambino infelice sulla terra.
Vittoria Ricceri
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