6° Salotto letterario – I grandi classici: Omero, L’Iliade

di Alfio Pelleriti

La recensione allo splendido libro di Matteo Nucci, Le lacrime degli eroi, valga come introduzione all’Iliade di cui proporremo brani tratti dai libri I, VI, XXII e XXIV. Il lavoro di Nucci fornisce al lettore le giuste coordinate connotative per guidare nella lettura e comprensione del testo.

Matteo Nucci, Le lacrime degli eroi

I Greci hanno creato quel che noi chiamiamo “pensiero”. Scoprirono, altresì, l’anima umana facendo nascere una nuova concezione dell’uomo. Da Omero in poi e in seguito con la filosofia, con la poesia, col dramma si assisterà al tentativo di dare corpo alla conoscenza della natura umana e della sua essenza. Nei poemi omerici fondamentale è l’azione degli dei, che scaturisce dai loro desideri, dalle loro emozioni, spesso dai loro capricci e gli uomini subiscono la loro volontà e sono fortemente condizionati nelle loro scelte. In Omero l’uomo non si sente artefice del proprio destino, tale svolta avverrà solo più tardi con l’avvento della tragedia. Mi piace cominciare con questa sintesi tratta dai primi capitoli di un testo che merita certo uno studio accurato, quello di Bruno Snell, La cultura greca, edito da Einaudi nel lontano 1963, sottotitolo: Le origini del pensiero europeo.

In Omero tutto è narrazione, azione, parlano cioè i fatti; poi si affermerà la lirica, dove prevarranno le descrizioni dei sentimenti (Esiodo, Saffo) e poi sarà il momento del dramma, dove gli uomini diventano padroni della loro vita e in maniera autonoma scelgono la strada da percorrere per la loro personale realizzazione, a seconda delle loro scelte esistenziali e dei loro ideali morali e politici.

L’interessante libro di Matteo Nucci, “Le lacrime degli eroi” è un saggio sui due poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea che mette in risalto un mondo dove non esiste un confine netto tra gli uomini e gli dei. Le due dimensioni si intersecano e si condizionano a vicenda. Sentimenti e passioni, desideri e dubbi li accomunano. Solo l’immortalità distingue le due categorie, poiché essa appartiene solo agli dei. Ciò tuttavia non impedisce ad essi di innamorarsi e amare uomini e donne destinati a subire la corruzione del tempo (Achille è figlio della dea Teti e di Peleo uomo destinato all’invecchiamento e alla morte; Apollo si innamora di Dafne – in una versione del mito in cui la fanciulla è presentata come mortale).

L’autore accompagna il lettore in un viaggio attraverso la Grecia classica indicando tempi e luoghi che si suppone abbiano visto contrapporsi l’esercito degli Achei al comando di Agamennone e quello dei Troiani. Sulla spianata antistante le mura di Troia si combatteva ormai da dieci anni, quando si giunse all’epilogo e agli ultimi 51 giorni, quelli decisivi, cantati nel poema più letto, perché più antico, più drammatico, più avvincente e poetico che mai sia stato scritto.

Saltiamo a piè pari l’annosa “questione omerica” indicandone sinteticamente la conclusione: non esiste certezza sulla esistenza di Omero e del luogo della sua nascita (le città più accreditate sono Smirne, sulla costa occidentale dell’attuale Turchia o Chio o Scio, isola dell’Egeo che guarda frontalmente la Turchia); la tradizione lo descrive come un aedo cieco (Omero in greco significa “cieco”, o me oròn). Di Omero ne parla Erodoto, Plutarco, Esiodo. La vicenda narrata nei 24 libri dell’Iliade è da ricondurre al 1300/1200 a. C. e nei secoli successivi degli aedi o cantori trasmisero oralmente le vicende epiche riguardanti l’assedio di Troia e la sua caduta e dei suoi eroi che si scontrarono e che morirono su quella spianata. Nel VI secolo a. C. i racconti degli aedi che si erano tramandati oralmente si cominciarono a scrivere, nell’epoca in cui ad Atene regnava Pisistrato. E dagli aedi si passò ai rapsodi, specialisti nella recitazione di Omero. Solo in epoca ellenistica i poemi si diffusero sotto forma scritta.

Le prime versioni si fanno risalire al VII/VI secolo a. C. (Zenodoto di Efeso), anche se i filologi concordano che le versioni definitive dell’Iliade furono scritte in epoca ellenistica, tra il I e il II secolo d. C. Bisogna usare il plurale perché c’era una versione dell’Iliade ad uso degli scolari, una per il popolo, una per gli intellettuali (pare che Aristotele ne avesse ordinata una copia per lui).

La prima parte del saggio spiega come il mondo presentato da Omero nel quale uomini e divinità vivono in armonia, in un ordine perfetto stabilito da Zeus dopo la sua vittoria sui titani e sui giganti, ad un certo punto crolla sotto i colpi della filosofia del IV/III secolo a. C.   Platone prende posizione contro Omero ovvero la razionalità contro la passività dell’uomo; la conoscenza che rende saggi e liberi contro la conservazione e l’immobilismo culturale e contro la violenza e la guerra. Gli eroi omerici subiscono i capricci degli dei e piangono per il loro ineluttabile tragico destino. E Platone li ammira per tale coraggio, e sta dalla parte dell’umanità che sa andare oltre la forza bruta, che sa provare sentimenti nobili come la pietas che costituiva una immensa virtù. Inoltre, Platone è il filosofo che vuole erigere una nuova comunità sociale divisa per categorie e per funzioni e diretta da governanti filosofi e quindi non può accettare la debolezza degli eroi facili al pianto e non adatti al comando. Non esiste posto per i caratteri fragili nello stato che vuole edificare.

Matteo Nucci

Ricordo che in epoca moderna Friedrich Nietzsche in “La nascita della tragedia” criticherà i tre grandi filosofi della classicità greca, Socrate, Platone e Aristotele proprio perché introdussero elementi di razionalità con le loro analisi tanto da indurre gli uomini a dimenticare gli dei e a smarrire per sempre quell’armonia che li legava indissolubilmente ad essi.

Matteo Nucci non lo dichiara ma sembra rivalutare la posizione nicciana, presentando gli eroi omerici come uomini che affrontano con coraggio il loro destino subendolo e dandosi al pianto che li riscatta rispetto a una vita dedita alle guerre e alle uccisioni. Il vero coraggio, sembra suggerirci l’autore, è quello di quegli eroi che sanno piangere, che cedono alla nostalgia, come Ulisse che desidera ardentemente la sua patria per la quale rinuncerà all’immortalità che Calipso è pronta a donargli.

E in quel mondo epico, posto tra cielo e terra, anche gli dei piangono. Piange Dioniso innamorato di Ampelo, bello fino allo sfinimento, che Ate spinge a cavalcare un toro che lo ucciderà. Davanti a quel corpo senza vita Dioniso piangerà, sconvolto dal dolore, finchè le sue lacrime miste al sangue di Ampelo si trasformeranno in una bevanda che offusca la mente, che consente di dimenticare il presente e spinge al sorriso e all’ebbrezza. Il vino è quella bevanda di cui Dioniso non potrà mai fare a meno, pena la ricaduta nel ricordo e nel pianto. Piange Mirra, dalla stravolgente bellezza, che invidiata da Afrodite, è spinta dalla dea ad unirsi in amore incestuoso col padre inconsapevole dell’identità dell’amata. Essendone venuto a conoscenza la insegue per ucciderla. Mirra piange e implora gli dei di eliminarla dal mondo dei vivi e da quello dei morti. Mirra verrà trasformata in pianta dalla cui corteccia trasudano gocce giallastre profumate, sono lacrime dolci amare e profumate.

“Tutto è memoria nei poemi omerici e tutto è memoria nella letteratura e la creazione in quell’ambito dipenderà sempre dal ricordo. E chi ricorda il passato è chi conosce il futuro e la memoria porta inevitabilmente al pianto” sostiene Nucci nel mettere in evidenza il significato profondo dei poemi omerici. Ma il pianto spesso è la conseguenza di un sentimento forte presente negli eroi dell’Iliade: esso è il poema dell’ira. Già dal primo canto assistiamo all’ira di Crise, sacerdote di Apollo, che viene respinto da Agamennone che non intende ridargli indietro Criseide, sua figlia. Tale decisione determinerà l’ira di Apollo che si vendicherà degli Achei diffondendo nel loro campo una pestilenza. Seguirà l’ira di Agamennone che dovrà cedere alle insistenze dei suoi prendendo tuttavia come schiava Briseide, dopo averla tolta ad Achille, suscitando l’ira di quest’ultimo che si ritirerà nella sua tenda rifiutandosi di combattere e permettendo ai Troiani di vincere in tante battaglie.

E ancora l’ira di Menelao cui Paride/Alessandro ruba Elena, sua moglie. L’ira di Ettore di fronte alla fuga di Paride innanzi a Menelao che lo sfida in duello. E ancora l’ira di Patroclo innanzi alla strage di Greci da parte dei Teucri guidati da Ettore. L’ira, con le morti e le distruzioni che provoca, induce al pianto e tutti gli eroi omerici piangono.

Dal momento in cui Patroclo muore per intervento di Apollo, e per mano di Ettore che lo uccide, il senso del poema cambia il riferimento al sentimento profondo (thymos) dei personaggi. Non più l’ira ma la morte. Da Patroclo ad Ettore, ad Achille. E sul fondo lo spazio unico su cui si muove l’intero poema: la forza.

E alla forza, cieca e violenta, fa riferimento Simone Weil in un suo saggio del 1942 sull’Iliade nel quale afferma che chi diventa succube della forza diventa “cosa”, sia chi ad essa soccombe sia chi la usa per annientare l’altro, anzi quest’ultimo si presta consapevolmente a diventare strumento, “cosa”, ancora in vita. Tale forza cieca domina tutto il poema. L’ira richiama la forza e la forza incontra la morte e dopo il dolore e il pianto.

Simone Weil e Rachel Bespaloff, giovani ebree che nello stesso anno, il 1942, vivono a Marsiglia e, senza mai essersi incontrate, partono lo stesso anno per l’America. Interessate entrambe all’Iliade sulla cui opera pubblicano un saggio che si presenta come sovrapponibile. Entrambe convinte che l’Iliade sia il poema dell’amarezza, anche se si dividono nel declinare quel sentimento: per Weil l’amarezza deriva dalla forza da cui tutto discende e che è rappresentata da Achille; per la Bespaloff in quel sentimento si rappresenta la resistenza dell’eroe, che per lei è rappresentata da Ettore.

OMERO, ILIADE

L’antefatto: Menelao, re di Sparta invita presso la sua corte Paride, giovane figlio di Priamo, re di Troia. In quella occasione, il giovane conosce Elena, avvenente moglie di Menelao e tra i due nasce subito un sentimento d’amore. Elena abbandona Menelao e parte nottetempo con Paride. Si rifugiano a Troia che presto sarà cinta d’assedio da un grande esercito al comando di Agamennone, fratello maggiore di Menelao che chiede vendetta per la grave offesa subita. Uomini in armi accorrono da tutte le città greche comandati da grandi guerrieri come Aiace, Ulisse, Diomede e l’invincibile Achille, re dei Mirmìdoni, figlio del mortale Peleo e della dea Teti.

Si combatte a fasi alterne per dieci anni e di questi, il poema racconta gli ultimi cinquantuno giorni, al termine dei quali Troia sarà espugnata e messa a ferro e fuoco grazie alla forza di Achille, (che ucciderà Ettore, il più coraggioso e forte dei guerrieri troiani, ma che a sua volta sarà ucciso da Paride) ma soprattutto grazie all’astuzia di Ulisse. Sarà sua l’idea del grande cavallo di legno lasciato in riva al mare con dentro i più forti guerrieri greci, mentre il resto dell’esercito abbandona il campo salpando con le navi e nascondendosi dietro un promontorio, dando ad intendere di essersi ritirati e avere lasciato il cavallo come un dono agli dei. Entrato il cavallo dentro le mura, i troiani si daranno ai festeggiamenti, ai banchetti e alle libagioni e diventeranno facile preda dei greci che ne faranno strage.

LIBRO PRIMO

Costituisce il proemio, cioè l’introduzione al poema e già si apre con un dramma nel dramma della guerra. Durante un ennesimo scontro, vinto dai Greci, viene presa, come bottino di guerra e condotta al campo, Criseide, che Agamennone prende come sua schiava. Criseide è figlia di Crise, gran sacerdote di Apollo, il quale, pur vecchio, si reca al campo greco a supplicare Agamennone di restituirgli l’unica sua figlia e in cambio avrebbe offerto un ricco riscatto. Agamennone rifiuta la preghiera del vecchio, la sua ricca offerta e non ascolta i consigli dei suoi comandanti, anzi, caccia via Crise minacciandolo di morte e gridandogli che porterà via con sé sua figlia dopo la conclusione della guerra.

Crise allora si rivolge ad Apollo che per punire l’arroganza dell’Atride (Agamennone figlio di Atreo e fratello di Menelao) scatena una pestilenza nel campo greco che provoca tantissimi morti. Interviene allora Giunone, che parteggia per i Greci, ispirando Achille, che convoca tutti i comandanti greci convincendoli della necessità di fare intervenire un indovino tra i più bravi che spiegasse loro come risolvere quel grave problema dell’epidemia. Viene convocato Calcante, il più bravo tra gli indovini, il quale risponde all’invito, grato per la scelta ma alquanto preoccupato dalla probabile reazione di Agamennone alle sue parole. Achille lo rassicura giurando che nessuno gli avrebbe fatto del male. E Calcante rivela che la causa dell’epidemia è il rifiuto di restituire Criseide al padre e che Apollo (figlio della dea Latona da cui nacquero due gemelli: Apollo ed Artemide) irato ha causato la pestilenza. A questo punto si innescano delle reazioni a catena: Achille irato con Agamennone insiste perché liberi Criseide; Agamennone deve cedere all’evidenza ma minaccia Achille che in cambio deve dargli Briseide, la sua schiava. Solo l’intervento di Minerva eviterà lo scontro tra Achille e Agamennone, ma il condottiero greco si ritira sdegnato nella sua tenda e da quel momento lascerà l’esercito greco al suo destino, non volendo più combattere.

Intanto Ulisse, preparata la nave, riporta a Crise la figlia ottenendo da Apollo la cessazione della pestilenza.

Il primo libro si chiude nella reggia olimpica dove si reca Teti per parlare con Zeus e chiedergli di portare a più miti consigli Agamennone, poiché il figlio Achille soffre a causa sua.

Crise, Agamennone, Achille, Minerva sono i personaggi che si incontrano in questo primo libro che introduce il poema. Fin dalle prime battute appaiono chiare le sue peculiarità: personaggi dalle caratteristiche fisiche e psicologiche ben delineate; divinità che sentono le stesse pulsioni degli uomini; la legge della forza come unica possibile per dirimere ogni questione.

Agamennone allora è l’archetipo dell’arroganza e della violenza, dell’egoismo, facile all’ira; Achille rappresenta la forza e l’audacia, la passionalità e la capacità di amare e di odiare in massimo grado. In Ulisse si evidenzia la capacità di ragionare e di esaminare la realtà per trovare le giuste soluzioni ai problemi che essa presenta, ma anche l’astuzia, e un forte legame con la sua Itaca. In Ettore si apprezzeranno il coraggio, la forza, l’amore per la famiglia e per la sua patria. Tutti si muovono in un contesto dove domina la forza e i personaggi, buoni o cattivi, accettano la violenza come una componente inevitabile e necessaria della vita. Avere fede nella divinità non significa aborrire la guerra, schierarsi per la convivenza pacifica fra gli uomini. Anche gli dei aderiscono a tale principio e Omero o chi per lui, pensa che anche gli dei accettano la guerra e la violenza e la legge del più forte, che è quella che si segue anche nell’Olimpo. Prevale il principio della “giustizia” che non serve però a redimere ma a schiacciare ed eliminare il reo.

Solo la Parola di Gesù scardinerà tale arcaica legge che per certi aspetti ritroviamo anche nell’Antico testamento. Solo Gesù parlerà agli uomini di perdono, di sacralità della vita, di misericordia e di amore. Solo Gesù porterà agli uomini la Lieta Novella per cui gli ultimi non dovranno disperare perché loro sarà il Regno dei Cieli.

Proemio – Prima parte

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